venerdì 7 giugno 2013

"Dubia" sul diritto di voto




E se un liberale come me, o quanto di liberale ancora resta in me - io che forse non lo sono mai stato alla perfezione - o che in me risorge periodicamente, eccepisse sul diritto di voto?
O lo facesse un benpensante scandalizzato dal basso livello cultural-politico, morale, intellettivo ecc. degli eletti di oggigiorno? O dal fatto che costoro remino apertamente contro il benessere economico e morale della nazione, e/o dei territori? 
E anche: quale classe sociale oggi accetterebbe l’idea che altra classe la coinvolga ideologicamente, in modo serio ancor prima che emotivo? Certo l’atomismo (l'ognuno chiuso in sé stesso, la disgregazione del tessuto sociale, etico, ecc.) è imperante, quanto lo è l’ignoranza, e questo non va bene; ma credo di avere capito che vi è sempre al di sopra di ogni cosa qualcuno pronto a odiare il giacobinismo, come fu per Hitler; ché il giacobinismo, e cioè l'alleanza fra classi dovuta ai comuni interessi lesi, è trasformativo, in senso democratico. 
In tema di diritto di voto, che cosa c'insegna l'impareggiabile educazione civica? Che - ad esempio - con la legge elettorale sarda nel 1848 potevano votare esclusivamente gli uomini che avessero compiuto venticinque anni, che sapessero leggere e scrivere e che pagassero una imposta di lire 40. Dalla quale imposta erano esentati i magistrati, i professori e gli ufficiali. Che nel 1871 su una popolazione di 25 milioni di anime, gli elettori erano 530 mila; e che in campagna erano esclusi dal voto quasi tutti i giornalieri, i piccoli proprietari, i mezzadri e fittavoli e nelle città tutti gli operai, quasi tutti gli artigiani e gran parte della classe intellettuale. 
Ancora, che nel 1882 la cosiddetta “sinistra”, salita al potere, estese il diritto di voto ai cittadini che avessero compiuto i ventuno anni e avessero superato con buoni risultati i primi due anni della scuola elementare.
Che nel 1912 fu introdotto il suffragio universale maschile. E che infine nel 1946-1948 si approdò al suffragio universale maschile e femminile.

Fine dunque della storia? Sì, e meglio no, ché si può stabilire un’analogia della vicenda or ora narrata con quanto Croce nella sua Storia d’Italia diceva a proposito della conseguita unità nazionale: che a quel punto alla poesia sarebbe succeduta la prosa.
Il diritto di voto dunque vorrei porlo un po' come questione, al di là del fatto che si sia ottenuto il suffragio universale maschile e femminile e che questo sia più che giusto. Semplicemente perché non si tratta di un diritto assoluto, ed esso essendo uno strumento prezioso può essere male adoperato o abusato.
Su questo piano emergono quanto meno due profili: che una cosa è il conseguimento o il riconoscimento di un diritto, altra l’esercizio dello stesso e che il diritto di voto sancito per tutti è un che di formale e non garantisce l’eguaglianza e meglio l’eguale libertà del voto stesso, ovvero che si tratta di qualcosa che è affetto da indeterminatezza, o indeterminazione. 
Detto altrimenti: la storia narrata non si può disgiungere da un principio di esteriorità. Fu esteriorità ad esempio il rapporto fra elettori cattolici postrisorgimentali e non expedit. Formalmente costoro, poiché al Santo Padre il nuovo Regno aveva tolto il potere temporale, ferendone il cuore e la libertà, si sarebbero potuti/dovuti astenere dal voto; nei fatti invece si ha modo di ritenere che ciò non sia accaduto. E certo forse bisognava che la Chiesa Romana facesse salvo un copione, per darsi una dignità o mostrare coerenza.
È esteriorità il fatto per sé che un cittadino voti, o si rechi a votare, e lo è per una serie di ragioni. Perché ad esempio come si può votare così si può non votare; si può non votare non votando e votando; perché una cosa è che tutti abbiano diritto al voto, altra il modo e criterio come essi votano. Innanzi tutto se in un modo responsabile o non: se bene o male; sì perché non credo nell'arbitrio assoluto o in un’astratta libertà.
Non sono poi una novità - ma di questi tempi il fenomeno tende ad accentuarsi - né il fatto che l’operaio non voti per il partito operaio, né che soprattutto il voto del povero abbia un costo né che il ricco voti per il partito operaio (ipotesi credo più rara e di assoluto valore). Né che si possa votare con l'assistenza di un custos, secondo la previsione dell'antica lex Gabinia, avversata da Cicerone, che nel 139 a.C. aveva introdotto a Roma il voto scritto e segreto. 
Se non ricordo male, poi, vi fu secoli fa un mercato delle indulgenze, con tanto di operazioni bancarie; vuoi che non ve ne sia oggi uno del voto? Il voto è influenzabile, da che mondo è mondo come è provato dalla storia di Publio Cornelio Cetego, nell'antica Roma (si veda il saggio di S. Mollo su La corruzione nell'antica Roma - consultabile in rete - con altri autori ivi citati). I voti si comprano, si scambiano, e soprattutto - appunto - quelli espressi dai più poveri costano poco
Oppure le schede si possono precompilare e consegnare al votante all'ingresso del seggio (sistema cosiddetto della «scheda ballerina»). E alla fine ciò avverrà e perché vi saranno i troppo deboli e saranno forse troppi e perché saranno sempre i numeri a contare. 
Appunto: il diritto di voto per tutti non garantisce realisticamente l’eguaglianza, e anzi sembra presupporne il contrario (fatta la legge...). 
V’è ancora la realtà delle leggi elettorali, quella dei brogli; vi è quella dell’astensionismo (di cui non si tiene molto conto, in sede di risultati; laddove solo una partecipazione totale al turno elettorale potrebbe garantire, in modo necessario ma pur sempre insufficiente, il valore rappresentativo dei risultati finali); v’è quella del voto influenzato, del voto comperato e del voto di scambio; e vi è l’ambivalenza della segretezza stessa del voto (che potrebbe celare una non spontaneità, o una non libertà, e cioè un voto di dipendenza).
V’è poi in generale che trionfa sempre il principio per cui ciò che conta sono i numeri; principio valido così per le iscrizioni ai partiti politici e la partecipazione ai congressi di vario ordine come per le elezioni, laddove si hanno gli elettori (studiosi, intellettuali, scienziati ecc.) e i grandi elettori (gestori di catene di ristoranti, supertrafficanti, presidenti di qualche cosa, ecc.). Verità davvero inquietanti, che valendo nei regimi cosiddetti "democratici" significano anche che se i numeri sono importanti in tali regimi, per ciò stesso  lo sono in quelli tirannici, dove pure la acclamatio è confusa e rumorosa, non individuale. E per l'appunto - ed è qui la radice del dubbio - quando si parla di quantità e percentuali di voto, non solo dipende anche da chi ne parla ma non è escluso che comunque la quantità sia perché numerica mercificabile. 
Sotto questo profilo che un partito politico si assicuri 10 milioni di suffragi potendoli comprare, o con una legislazione mirata, o con brogli di seggio o con la cosiddetta «macchina del fango» (regressione infelice, alla quale in questi ultimi anni siamo stati abituati), o con l’imposizione autoritaria e violenta, sono sempre i risultati numerici che contano.
Insomma il consenso in un modo o in un altro sembra essenzialmente un dato numerico: dalla moderna tirannide ai regimi oligarchici alla democrazia di massa il successo è nei numeri, ai quali per loro natura è dato esprimere grandezze e rapporti di forza. E anche la storia dimostra che il moderno tiranno preferisce che lo si elegga “democraticamente”, avendo magari inoculato nella gente grandi suggestioni e superstizioni ‘laiche’ e facendo leva sulla condizione psicologica; confezionando leggi elettorali ad artem e plasmando il principio di maggioranza.
In sostanza il voto, non quale diritto ma quale esercizio di un diritto, ben presto è come rivelasse zone d’ombra, che corrispondono alle zone d’ombra della psicologia sociale e di massa, o forse proprio dell'umanità dell'uomo. Il che può dare origine a certo quale scetticismo sul diritto stesso di voto. Ma se non è prudente spingere il dubbio alle sue conseguenze estreme e più facili, se non è intelligente gettare via con l'acqua il bambino, è bene non restringere la questione alla interpretazione di un diritto come semplice diritto formale.
Ora, stando a quanto sin qui detto, io noto due cose: che nonostante certi disastri politici l’idealismo giuridico perdura e cioè si considera l’esercizio del voto una nota solo positiva; e che non viene subito spontaneo pensare al voto come dovere: se il diritto di voto appare estremamente fragile e strumentale, se l’impotenza del moralista può trovare nel voto, per un preteso esercizio della libertà e della democrazia, la sua patente e un suo confortevole contenitore, che dire del voto come dovere? Ovverosia un dato della interiorità e non della esteriorità? 
Certo se avverto il dovere di recarmi a votare e se provo a liberare il dovere dalla scelta che farò il risultato non sembra lo stesso. Se è la molla della responsabilità morale personale e il senso della partecipazione e dello Stato che guidano e motivano l’esercizio del voto, allora quanto meno viene tenuta lontana la compravendita. Io lo faccio liberamente, per mia sensibilità politica, io esprimo il mio pensiero, ecc.
E se un pullman mi passerà a prendere sotto casa nel giorno delle elezioni, ciò avverrà perché la mia invalidità o la mia età mi impedirebbero o renderebbero assai problematico raggiungere il seggio elettorale e perché io lo avrò richiesto. 
Se la nostra Carta costituzionale parla di dovere oltre che di diritto e anzi di diritto-dovere, non di puro diritto, ve ne sarà motivo. Perché a quel punto votare significa esercitare la propria cittadinanza e partecipazione attiva ma nel rispetto della legge. È rispettare la legalità ma certo laddove alla fine è l’animo ciò che conta, ovverosia l’interiorità del voto, non la sua esteriorità. 
Solo così (non so quanto paradossalmente) al numero sarà reso pienamente quell’onore morale che alle volte ad esso chiediamo, soprattutto quando si tratti di contare le teste per la salvezza della repubblica. 

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