Che
cosa significa che le norme della nostra Carta costituzionale non sono l’una
eguale all’altra, che in essa vi sono cioè dei “principi fondamentali”,
definiti anche “supernorme” (così una
sentenza della Cassazione: sez. I civile, n. 6672 del 1998 in tema di efficacia
nel nostro ordinamento della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) ovvero
che si possa parlare di una “superlegalità costituzionale” (così
l’indimenticabile Mortati) o di principi che non sono norme per ciò che questo
termine significa negli ordinamenti statuali; o che si sia potuto o voluto
distinguere, in occasione dei primi scrutini riguardanti le leggi “anteriori”,
da parte della Consulta, in quanto ai parametri, fra norme costituzionali
“programmatiche” o “direttive” e norme “precettive”; o ancora che la questione
della efficacia-esistenza di una legalità costituzionale sia da tempo di
attualità, e che il dubbio sulla sua non scalfibilità - ma appunto bisogna
vedere in quali termini e con quanta coscienza - sia stato espresso da parte di
giuristi per così dire “non sospetti”?
Una
questione sussiste - almeno in Italia, già luogo, per così dire, di “regimi”
politicamente e giuridicamente inediti -: vi sono, credo, chiari segni
indicatori di un disagio, o di una sofferenza, che accompagna, non come
eccezione, il rapporto fra il paese reale e il paese legale. Laddove certa
quale distanza ostile, fra costituzione e popolo - perché fra legittimità
quale dovere sentito e popolo - non deve sorprendere; ma che non per
questo - e dirò meglio: non scambiando il proprio benessere con la sorte
politica (quasi il popolo, ivi compreso quello benestante o che faccia di tutto
per esserlo, volesse al massimo carte “ottriate” prima ancora che partecipate)
- si debba scambiare selvaggiamente e/o per proprio comfort, il
dover-essere della norma con la fine del dover-essere, degno di questo nome.
Ma forse
paradossalmente a questo punto emerge per contrasto rispetto al comfort
selvaggio (si pensi al lavoro, o alla immigrazione) delle maggioranze
elettorali, e anche per volontà di quanti speculano sulla scissione infelice
“costituzione formale-popolo”, o “Legalità-popolo”, il problema dei diritti
fondamentali e meglio dei diritti umani, ciò per cui si riconosce dignità
all’uomo chiunque egli sia, qualunque sia la sua origine, ovunque egli si
trovi, prescindendo dalla condizione economico-sociale; con una certa quale
differenza rispetto alle istituzioni.
La
questione si pone più o meno nei termini seguenti: che l’ordinamento interno
sembra poter essere, forse avendo ciò nella sua stessa natura, forse non,
integrato in un dover-essere sopranazionale, e non essere più - in un clima
generalizzato di crisi trasformativa degli stati nazionali e dunque dell’ordine
giuridico - semplice, semplicistico ordinamento interno. Laddove la cosa può
essere pensata come naturale, forse meno semplicemente come culturale, o forse può far supporre una
sorta di “trascendenza giuridica”. E il criterio nuovo, la metànoia, è che i diritti umani chiedono di essere quasi la realtà di un nuovo realismo giuridico,
un po’ la cosa più concreta che vi sia.
Saremmo
dunque in questo a un diritto costituzionale trascendentale? Ma è vero anche
che tanto si può attribuire la trascendenza al diritto costituzionale quanto un
carattere oltrenazionale e uniforme al diritto civile o a quello penale. E si
può anche giungere, su questo piano, a riguadagnare, per questioni ideali o di
fondamento, posizioni care appunto al diritto naturale. Possibilità alla quale
riconduce credo anche la tesi, un tertium
detur, espressa da Paul Ricoeur in una intervista, secondo la quale la
Giustizia (del diritto giusto) è qualcosa di giuridico ma per non appartenere
né alla sfera del diritto positivo né a quella della morale (L’idea di giustizia, in Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche), offrendo una nozione diversa della giuridicità.
Saremmo
al dato di fatto: che l’èra è quella per così dire “internetiana”; ovverosia:
liberazione in forma tecnica di una dimensione social-individuale dai limiti
della territorialità e degli stati nazionali. E saremmo anche al fatto: che lo
Stato - intendo quello novecentesco - ha
manifestato il suo male; anche se è poco ammissibile che lo Stato sia il Male.
Dunque in certo senso sarebbe come se i diritti volassero via dal limite che il
territorio (soprattutto quello costitutivo) è; per posarsi nuovamente sulla
persona.
La
domanda comunque, anche alla luce di definizioni filosofiche, è la seguente:
una norma costituzionale, per poter essere definita fondamentale, o
superlegale, donde scaturisce? Quale ne è la fonte prima: la legge
nazionale, quella internazionale, quella naturale, o la volontà sia pure
divina? Quale insomma - anche - la macchina giuridica, nel senso più razionale
e nobile della espressione? Questione peraltro collegabile all’altra, che ben
conosciamo: se le norme costituzionali siano norme giuridiche a tutti gli
effetti, dunque decisamente vincolanti, o non piuttosto valgano come
indicazioni generali (tesi cosiddetta della interpositio legislatoris);
o se si possa parlare, considerata certa evoluzione della dottrina, di acquisto
di precettività da parte di diritti e regole che perché costituzionalmente
proclamati si ritenessero dotati di sola programmaticità. Ovvero anche: è
ipotizzabile con il trascorrere del tempo qualcosa come uno “slittamento della
fonte” o della “norma sulla norma”, sul piano della precettività? Si può
parlare di un movimento reale della storia che abbia resi precettivi norme o
principi generali costituzionali, che si riteneva non lo fossero?
Movimento
questo che sembra essersi concretizzato in taluni elementi, colti dalla recente
dottrina: la cosiddetta “costituzionalizzazione” del diritto internazionale, ma
già appunto dei diritti umani, o l’emergere del giudice come normatore
(“giurisprudenza normativa”, sì come reminiscenza di certe epoche giuridiche,
per così dire pre-codificatorie; ma anche e soprattutto con realismo giuridico
e con accostamento dei sistemi di Statute Law a quelli di Common Law);
o la forza culturale nonché efficacia giuridica che concretamente possono
prendere le comparazioni giuridiche ovverosia la dottrina; e proprio la nascita
o la formazione in generale di una nuova branca del diritto, il Diritto
fondamentale, scienza dei diritti fondamentali, della quale si possa
parlare specialisticamente come si parla di diritto civile o di diritto
commerciale o di diritto fallimentare?
Sembra
soffiare un po’ nuovamente in questo modo, si diceva, sul mare del ius
positum, il vento del ius naturae; perché tanto il diritto positivo
non basta più e non si può asserire che esso è eguale a sé stesso, quanto il
non poter più restringere ogni questione nell’ottica del diritto positivo nasce
presumibilmente dal diritto, proprio a causa della sua natura, di cui è dato
constatare il carattere trasformativo.
Che
il diritto naturale - locuzione che sempre implica un ricondursi alla natura
del diritto - riguadagni molte posizioni, a causa di un diritto positivo e
meglio scritto anche troppo versato all’arbitrio politico e decisionale, ovvero
a monarchie, principati, democrazie, fascismi o regimi plebiscitari o militari,
è tutt’altro che sorprendente; ripete appunto in qualche modo, per quanto nella
storia le cose si possano ripetere, i termini della vicenda della nascita nel
seicento del giusnaturalismo: Gentili, Grozio, Altusio, ecc. Ma ora - mettiamo
- lo fa per lo stesso principio per cui il problema Costituzione già nel primo
dopoguerra era quello del potere costituente.
Come induce a ritenere la nozione di
concretezza giuridica della persona, o quella di “nichilismo giuridico” (N.
Irti), forse stiamo abbandonando il diritto come spazio (spazio “regolato”)
anche se però (ovvero: tanto quanto) forti sono i rifiuti, che a tali istanze
sono da collegare, di sostituire in nome della effettività alla
terra-territorio la persona.
Sta
di fatto che come il diritto positivo, avvicinandosi comunque al fatto,
sembra alla ricerca di nuove fonti, così da una parte s’avanza il fatto,
dall’altra nel vuoto della legittimità o moralità normativa si affaccia il
diritto naturale, che fa richiamo alla persona umana. Nihil novi sub sole,
in certo modo, per ridirla con l’Ecclesiaste.
Ma
proviamo a muovere da un punto di vista empirico, e cioè dal diritto interno e
restiamo ancora sulla questione delle fonti. La definizione
“supercostituzionali” parla chiaro: è pensabile che vi siano disposizioni della
nostra come di altra Carta fondamentale - per ciò che è avvenuto nel secondo
dopoguerra -, quali appunto i principi e diritti fondamentali, che per
garantire la salus rei publicae (non per interessi materiali, o
corporativi) siano per lo meno pari quoad effectum alla Costituzione
stessa ma che ciò possa accadere perché ve ne sono che ad essa preesistono. Per
quanto segnalato presso di noi non solo espressamente dal riferimento testuale
(art. 10: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute” e poi: “La condizione giuridica dello
straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati
internazionali”, o anche: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese
l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione
italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le
condizioni stabilite dalla legge”) ai principi internazionali comunemente
riconosciuti ma di più dai diritti costituzionalmente protetti, non è sic et
simpliciter che nella Costituzione, partendo dalle sue disposizioni, si
oltrepassi la
Costituzione stessa. Ma è che vi è un contesto fondamentale,
che viene prima, per ciò che hanno rappresentato le storiche rivoluzioni
“borghesi” (crescenti cultura e scienze e bisogni, con coscienza e volontà); ma
ancor prima vi è il diritto in quanto tale, per come esso si è costruito o si è
progressivamente rivelato, nel corso della storia e preparando magari quelle
rivoluzioni; e che le costituzioni, per avere tutto assimilato e fatto proprio,
hanno dato vita a quella che Bobbio (pur nel suo relativismo: “i diritti naturali
sono diritti storici”: Torino, 1990, Introduzione,
VIII), ha voluto vedere come una età dei
diritti (che è il titolo dello scritto cui si allude).
Trascendenza
dunque e/o preesistenza: se i tedeschi non avrebbero dubbi, nel loro stile, per
decidere il dilemma, assimilando al Concetto ciò che sembra appartenere al
Fatto, non tradendo né immanenza né trascendenza e non ne hanno i
neo-giusnaturalisti, che badano all’essenza naturale della cosa, noi qui
preferiamo attenerci ai dati storici esteriori, esteriorizzare il discorso,
anche se è evidente - va ripetuto, per inciso - come la preesistenza non neghi
la trascendenza.
La
crisi attualmente investe il diritto positivo, in quanto tale: non solo la sua
tendenza in essere all’assolutismo o alle dittature delle maggioranze ma anche
come forza in grado di garantire (costituzionalmente; ma penalmente,
civilmente, ecc.) diritti fondamentali come singoli diritti. Molto minore è la
cultura, il soggetto giuridico si deteriora, mentre il realismo del rapporto di
forza non è più semplicemente realismo critico. Molta acqua per così dire è
passata sotto i ponti, rispetto a una situazione settecentesca, pur anche non
traducibile in una cultura giuridica e politica ottocentesca.
Se
tempo fa in un articolo su Jellinek, le dichiarazioni dei diritti e la
rivoluzione francese, usavo la locuzione: “diritti universali, catechismo
nazionale”, ora posso dire qualcosa come: “diritti universali, catechismo
non-nazionale”, per dire oltre-nazionale, o meta-nazionale, come provano e non
proprio empiricamente le decisioni della Corte europea dei diritti. Per dire
oggettivamente: non è più la nazione che proclama i diritti dell’uomo per
legittimarsi ed espandersi (anche se questo fenomeno pur logoro e lungi
dall’essere credibile non può dirsi tramontato); non già si hanno diritti
dell’uomo formatisi entro i limiti degli stati nazionali; ma strutture infra- o
sovra-nazionali che configurino un “nuovo” contesto giuridico, liberatorio,
oltre che essere motivo di ripensamento, su questo piano. Laddove è importante
cogliere anche i riscontri tra l’una situazione e l’altra.
Sembra
insomma, non volendosi fermare alle facili analogie, che i diritti dell’uomo
abbiano infranto il guscio delle storiche déclarations, le quali li
tenevano quelli anche in qualche modo imprigionati, coesi; ma non perché
fossero dichiarazioni - la cui aria oggi è comunque doveroso tornare a
respirare - e invece perché il diritto era culturalmente diritto nazionale
positivo: era la nazione, quale presupposto ideale e patrimonio culturale,
teso a un dover-essere, a prenderlo in custodia. È sì importantissimo seguire
la giurisprudenza, la quale dia corpo ai principi giuridici in generale,
facendone progredire l’applicazione anche al di là di questa o quella norma
scritta; ma dovrà esserlo - questo è l’auspicio - anche la norma giuridica come
tale, se quel procedere oltre ciò che è stato posto ha un valore.
Oggi
è un po’ in questi termini che in Italia ma non solo bisogna capire
l’importanza dogmatica e pratica della legalità costituzionale, come
qualche giurista serio e di spessore ha già fatto; non fermarsi al piano della
conseguenza, magari vedendo nella tesi di Bobbio come il presentimento di una
delegittimazione in Occidente dei principi e dell’idea moderna del diritto, a
un passo dal suo riconoscimento, proprio sul più bello. Lavorare, scindendo ma non
scindendo morale e diritto - ed è quanto il giudice a modo suo e a tratti fa a
pieno regime -, a favore della normatività. E forse allora non si
dovrebbe nemmeno enfatizzare il ruolo del giudice, cosa questa che pur si rende
necessaria; perché in fondo chi combatte il potere della magistratura confessa nolens
volens la propria adesione al vecchio modo (spesso grettamente
nazional-popolare ed ingiusto, squilibrato) di fare legislazione.
La
sopra-nazionalità, e anche la sopra-statualità, che qui ricolleghiamo nel
parlare di fonti alla supernormatività costituzionale, inducono a ritornare
sulla spiritualità dello Stato, ritenendo che vi sia un legame tra superiorità
e valenza esegetica dei principi e lo Stato, il quale però se li positivizza
non è sic et simpliciter lo Stato-soggetto che li emana e li riconosce
ma allo stesso tempo è lo Stato-oggetto, descritto e qualificato da quei
principi. E l’ammissibilità di uno Stato-oggetto - oggetto di norme, di giudizi
- chiude i discorsi per quanto riguarda lo Stato-Spirito, di hegeliana memoria;
ed apre ad uno Stato piuttosto anche “empirico” (nel quale può entrare fra
l’altro una rivisitazione o valorizzazione dello Stato-territorio) come il
questo o il quello, ma in relazione a un diritto più dinamico, aperto; lo Stato
che lo è (ed è la costituzione “lunga”, come entità e possibilità di
legislazione, che lo dice) se si danno norme superiori. La norma in certo senso
sembra essersi liberata da certa sovranità e territorialità di chiusura
e ciò che una volta era affetto da assolutismo ora tende per controtendenza al
relativismo.
Per
la costituzionalistica italiana, peraltro in un mondo come quello giuridico nel
quale non si attenua il fenomeno delle spinte e controspinte, le metamorfosi
avutesi dal ‘48 ad oggi sono evidenti, e le costituzioni scritte con i loro
principi fondamentali ma anche altre forze, hanno fatto da leva ai diritti
fondamentali.
Realisticamente,
tanto emerge per il nostro argomento la questione della trascendenza o la
rivalutazione di un ius naturae, quanto sono più percepibili spinte e
controspinte, quanto per contrasto lo è il ritorno, almeno per l’esperienza
italiana, ad epoche nelle quali già lo Stato moderno, almeno lo Stato di
diritto, per chi sapesse leggere nella storia come Santi Romano prima o
Giuseppe Capograssi poi - ma non solo essi -, mostrava chiari segni di
difficoltà.
Il
che, se è sostenibile, può indurre quanto meno al sospetto che ciò che era
valido per lo Stato di diritto lo sia anche per lo Stato costituzionale
democratico: giunge sempre, per istituti e istituzioni pur ritenuti solidi,
dopo il tempo della solidità quello della fragilità.
In
altre parole: tale è oggi l’età che viviamo, per cui non si escludono parimenti
né risorgenza giusnaturalistica né nuove tendenze al dispotismo, con crisi
della legalità costituzionale ma anche “ordinaria” in quanto dotata di un
fondamento, essendo l’una cosa e l’altra profondamente legate. Spinte e
controspinte, a tratti ingigantendosi, fanno sì che la crisi lo sia dello Stato
in generale, con il suo patrimonio di diritto positivo nazionale e di progresso
etico, di diritto naturale positivizzato e di diritto dell’autorità.
Tanto
si può riprendere così il motto di Taine: “i diritti naturali precedono quelli
civili”, quanto si può scrivere di “costituzione senza Stato”, quanto si può
contrapporre il popolo (tornando in qualche modo al binomio politico
Dio-e-popolo) al parlamento partitico e/o all’ordinamento giudiziario: le cose
oggettivamente, storicamente sono collegate in modo profondo.
Quindi
la crisi della legalità o dello Stato può essere letta in modi contrapposti.
Tanto nessuno può sostenere tranquillamente che non si abbia nel bene e nel
male una difficile legalità, quanto non si può non constatare l’istintualità
che può assecondare il progetto - male inteso, ritengo - di uno “Stato minimo”;
quanto non è razionale (per il nesso colto da Häberle) pensare le costituzioni
libere dal contesto internazionale, di persone e popoli; quanto bisogna saper
cogliere il senso del nuovo ruolo del giudice, anche forse non più superabile,
segnatamente negli ordinamenti cosiddetti di diritto romano. Il giudice che non
si sostituisce propriamente al legislatore, comunque ne sviluppa e completa il
lavoro e che in questo può indicare la direzione, è un dato oggettivo e non è
mera anomalia, e a non voler dire che chi combatte certe “anomalie” è in mala
fede, bisogna convenire sul ruolo centrale che il giudizio in certa sua “libertà”
ha assunto, assiologicamente, finalisticamente, forse anche simbolisticamente,
proprio a causa della crisi generale della legalità. Mai come oggi - credo lo
si debba sottolineare - chi avversa il giudizio contrapponendo ad esso la
legge, in una riedizione poco credibile perché non confessabile culturalmente
della uscita dal medioevo giuridico, è quel potere economico e politico che
avversa legalità e diritto e che non è lungimirante.
La “possibile
svolta”, nelle sue condizioni o presupposti, sembra essere quindi
contraddittoria, confusa; ma quale l’impegno, pur del più sprovveduto esegeta o
storiografo, se non quello di dare una interpretazione la più vicina all’uomo?
Come fece e avrebbe fatto oggi Cesare Beccaria, come fece Kant, o come oggi
sembra fare certa dottrina sociale cattolica, o la dottrina recente della dignità umana (Häberle, Cultura dei diritti e diritti della cultura,
Milano 2003).
La
constatata importanza che il giudice ha acquisita, per quanto si diceva, vale
ad accostare gli ordinamenti continentali cosiddetti di Civil Law a
quelli anglosassoni cosiddetti di Common Law; e questo dato non è
dissociabile né da quello delle déclarations né da quello - mettiamo -
dell’istituzione delle prime cattedre di diritto costituzionale comparato nelle
università italiane. Né lo è, dissociabile, dalla necessità o bisogno che tutto
ancora non possa non avere in sé una prospettiva normogenetica: esistono così
una normativa europea e una costituzione europea, che si muovono in tale
direzione. L’Europa peraltro risulta essere educativa in questo, oltre che per
il fatto di dover essere Europa. Si potrebbe dubitare del fatto che vi
sia un diritto che come è costituzionale oltre le costituzioni, soprattutto
scritte, così lo è oltre la costituzione europea; che insomma detta
costituzione unitamente alla interazione fra i provvedimenti e giudizi europei
e quelli nazionali (penso alla teoria della constitutional cross
fertilization) non faccia che manifestare, oltre che dare ad essi
consistenza praticamente, diritti che se emergono allora trascendono gli uni e
gli altri.
È
evidente insomma, volendo guardare al futuro in certa quale oscurità del
presente, come la contrapposizione, rozza, tra giudizio e legislazione nella
sua forte chiusura culturale e morale, escluda i superiori interessi, dal punto
di vista politico e giuridico.
Qualcuno
ha parlato - dicevo - in termini sorprendenti di “costituzione senza Stato” e
la novità è che l’autorità nazionale non è più la stessa o non lo è al massimo
grado, non è più così piena; non è più l’autorità indiscussa ora del monarca o
degli esecutivi, ora dei parlamenti, che pretenda di ergersi al di sopra dei
rapporti internazionali. Non è buona politica la chiusura nazionale vecchia
maniera, anche perché lo Stato nazionale ha prodotto i suoi cattivi frutti
(già: avrebbe avuto un senso non idealizzarlo, nel primo dopoguerra?); non lo è
che i parlamenti di stile liberal-democratico pur dovendo essere difesi lo
siano ad oltranza; non lo è che gli esecutivi e le maggioranze (puramente
quantitative) del voto (ma Franklin ci aveva già avvertiti) vogliano governare
tagliando i ponti con quanto della crisi della legalità - ma quale onnipotenza del
legislatore - abbia un senso progressivo.
Vi è
un movimento reale della storia, o se si preferisce vi è un tessuto, una trama;
e come si propone oggi la figura del giudice legislatore e piuttosto quasi-legislatore, così i diritti dell’uomo
hanno le loro associazioni, i loro tribunali, la loro giurisprudenza; essi
hanno dalla loro società aperte e strumenti tecnologici di apertura, che
valgono a sminuire la territorialità politica vecchia maniera. E questo
significa in qualche modo: essi hanno una loro autonomia, sono diritto volto
all’autonomia. E la condizione che comunque è mossa è quella, per cui i
diritti nazionali vengono messi a confronto.
Né
gli stati in altre parole né i popoli come singoli, né tanto meno questo o quel
gruppo di potere, danno esempio di razionalità e di una migliore possibilità
giuridiche, al cospetto di una condivisione della razionalità fra gli uomini. È
singolare; ma ora che certe potenze s’ingeriscano (cosa sempre accaduta nel
corso della storia) negli affari interni di altri paesi non è più sic et
simpliciter ciò che così pure accade: le cose ancora sembrano funzionare ma
in ciò qualcosa sembra destinato a cambiare nel suo stesso accadere.
E
ciò va di pari passo con il fatto: che un diritto, se è costituzionalmente
riconosciuto, allora esso è radicato non nello Stato e nel territorio ma in
ogni persona che vada in giro per il mondo, e la segue. Il che ricorda la
teoria del giurista italiano Alberico Gentili sulla personalità dei diritti, lo
statutum personale, secondo la quale ogni persona che si muova nel mondo
reca con sé il diritto della sua terra ma quale suo diritto personale,
essendo avvenuta una qualche scissione fra la terra e la persona. E questa
teoria ora merita forse di essere richiamata e approfondita; essa risale al
seicento e meglio, anche, ha qualche radice anteriore, se si pensa al
rinascimento giuridico europeo, laddove la natio dello studente di
università (penso alla scuola di Bologna, da Azone in poi) andava rispettata;
già, comunque, nel suo valore giusnaturalistico, coglie la sostanza della cosa:
il diritto della sua terra appunto altro non è, in altro non si può ravvisare,
che il diritto della persona in quanto tale, laddove è la persona umana che
conta, perché è lì la natura del diritto (: “La personalità del diritto è […]
la forma medioevale del multiculturalismo giuridico”, concetto questo da integrare
con l’altro, per cui secondo Kelsen “il concetto di cittadinanza vale più nel
rapporto fra stati che non dentro la singola comunità politica”: cfr. Prospero,
Globalizzazione e multiculturalismo, in AA.VV, Lo straniero,
2009, pp. 98 e 101).
Al
che bisogna aggiungere qualcosa, a voler spiegare l’emersione attuale dei
diritti umani: che essi non sono naturalmente ma storicamente o se si
preferisce culturalmente (Häberle)
dati; sono un quid novi così emergente nel fatto come preso in
considerazione dalla dottrina giuridica (di buona volontà) e che insomma essi
se si dice che sono naturalmente dati è perché sono così coinvolti
culturalmente come minacciati e violati. E credo così, su questa falsariga, che
la proprietà non sia fondamentale, rispetto alla vita, pur nell’ambito della
sicurezza; o al movimento o al lavoro.
E se
è ammissibile il relativismo à la Bobbio , se cioè i diritti umani mettiamo di un Locke non
sono quelli attuali, è vero che i diritti si radicalizzano - e allora valgono -
se ad essere minacciati non sono più sic et simpliciter diritti
cosiddetti “borghesi”, proiezione impositiva del diritto borghese su quello dei
poveri.
E la
storia insegna che tanto è vera tale radicalizzazione quanto lo è la
de-nazionalizzazione nella cultura giuridica. Lo ha voluto in fondo il
capitalismo o se si preferisce la postmodernità quale oltre-capitalismo, o
forse prosecuzione del capitalismo con … altri mezzi.
Oggi
ad esempio bisogna saper osservare il fatto, che è sotto gli occhi di tutti,
soprattutto dei giuridicamente ignari - ché essi inconsciamente lo promuovono
-, che come internet non è la marca di una saponetta o uno spettacolo
televisivo o un film di successo ma un’èra, rispetto alla quale la
monodirezionalità televisiva appare oramai ingiallita e repressiva; così il
diritto (che ne è oggettivamente inciso in modo profondo) non si risolve nella
sua territorialità (pur permanendo una territorialità esteriore e variando il ius
positum, da ordinamento a ordinamento) e cioè come esso, dopo avere
dimostrato, a séguito della fine del medioevo, di non essere necessariamente né
corporativo né comunale né podestarile, stia ora lasciando emergere, come dato,
di essere tutt’altro che nazionale o di poterlo essere solo in parte e per ciò
che è necessario; e l’altro fatto, per cui quella che può essere studiata come
nascita ed evoluzione della Giustizia costituzionale (il giudizio come
Diritto-giustizia, il giudice come protagonista, di cui si diceva), conduce a
scoprire corrispondenze (si pensi a quello che consideriamo diritto “alla
salute”, o a quello che credo dovrà essere ripensato - essendo per ora ancora
troppo nazionale - come diritto “al lavoro”) fra diritto costituzionale
classico e norma internazionale la quale a quello pur nelle diversità risulti
congeniale e meglio coessenziale. Ovvero anche: che si venga formando nei
rapporti fra i popoli il tessuto di un diritto penale, di un diritto civile o
di un diritto commerciale comuni o internazionali (un nuovo ius commune?),
collaborativi, profondamente convenzionali; per certa quale debolezza degli
ordinamenti nazionali, che si avvedano di non riuscire più a contenere il
diritto a causa della dirompenza del fatto,
ovvero potendo l’illecito attingere carattere oltrenazionale. Con il che si
potrebbe sostenere che il diritto e la sua cultura se debbono avere sequela
rispetto all’illecito civile e penale allora è più che accettabile che debbano
porsi positivamente in modo internazionale.
Assumere
dunque lo Stato pure costituzionale, pure come tale importantissimo, quale
parametro ultimo, può essere una chiave di lettura limitata e sino a rischio.
Il parametro è valido, accettabile, se è in fieri, laddove - come
accennato - questa locuzione è spiegata dalla integrazione della efficacia e
attuazione giudiziale dei diritti fondamentali.
Viene
in mente a questo punto una cosa: che in fondo, come la storia è la storia,
così la dottrina, segnatamente quella giuridica, se non fosse in certo senso
“libera” e cioè pensiero prima che realtà, non coglierebbe il senso storico
delle cose. Che essa lo sia, libera, che non debba incagliarsi nemmeno nelle
secche del realismo giuridico - e penso se non al più volgare od ovvio ad un
realismo che è “quello” -, è quanto emerge da alcune note a margine su Häberle,
che trovo in Rete, dalle quali ho voluto trarre l’idea che i principi e/o i
diritti fondamentali possono o tendono a formare, a causa della evoluzione del
diritto e non come somma, un Diritto fondamentale (con la sua
normazione, giurisprudenza e dottrina o scienza) autonomo; che essi cioè
sono suscettivi di essere e/o configurarsi come branca giuridica in grado di
camminare con le sue proprie gambe: una cosa sarebbe dunque il Diritto
costituzionale, altra il “Diritto fondamentale”, pure ad esso profondamente
collegato. E valga al riguardo una proposizione häberliana, attinente al
cosiddetto “Stato delle prestazioni”: “i rapporti (giuridici) di prestazione
sono potenziali rapporti di diritti fondamentali” (Cultura dei diritti, p. 138).
Certo,
sul discorso di un Diritto fondamentale autonomo si può non concordare; magari
proprio in nome della dottrina kelseniana della Grundnorm, pur così
candida, che appare volta, in chiave di teoria generale delle fonti, piuttosto
a rinvenire ‘aristotelicamente’ nell’ordinamento positivo in quanto tale o
esistente, la sua stessa fonte suprema di legittimazione, che non altro.
O si
può ritenere che con esso non possa necessariamente concordare in generale un
giuspositivismo magari “non-hobbesiano” ma comunque convinto, il quale stimi
che nulla sia teorizzabile giuridicamente all’infuori della norma scritta e
meglio posta. Che nulla insomma possa appartenere all’ordinamento positivo che
non sia inscritto, sì ora ma come fosse da sempre, nell’ordinamento, quasi il
modello normativo nazionale e statuale fosse il migliore possibile; il che
sarebbe poco sostenibile, a ben riflettere, proprio in nome di un principio
generale di spazio-temporalità del diritto: lo spazio che non è questo o quello
spazio circoscritto, il tempo che non è la semplice durata di un fenomeno, dal
momento “x” al momento “x+1”.
Ma
la conclusione non è predeterminabile: per i principi e diritti fondamentali,
che questi collimino o non (per una sottilissima distinzione posta da G.
Palombella) con i diritti naturali, due restano le possibili strade
interpretative: l’una più tradizionale, conservativa, che li pone in cima alle
nostre o altrui norme costituzionali, l’altra che sembra volerne riconoscere
l’autonomia, in modo non oppositivo, rispetto al diritto positivo, non solo
costituzionale. E che potrebbe - volendo - ridursi a un semplice ragionamento:
se esistono le cattive leggi, ovverosia leggi tendenzialmente criminali, allora
esiste un diritto fondamentale.
E
ancora, per riassumere o integrare i concetti: il “Diritto fondamentale” come
branca giuridica specifica, come disciplina giuridica e non solo, se non può
nascondere la sua necessaria positivizzazione, o la sua normatività -
altrimenti esso non sarebbe pensabile -, è tale perché sembra dovere qualcosa,
oltre che al (1) diritto costituzionale positivo, anche al (2) diritto
costituzionale evolutivo, colto cioè
nella sua evoluzione (o quale forma impressa, che si sviluppa vigendo, nella
immagine attribuita a Goethe) e (3) al diritto internazionale, e meglio: a quel
valore giuridico di assoluto rilievo per cui, come dimostra il progetto di una Europa Giuridica, non si dovrebbe
pensare il diritto interno dissociandolo da quello dei rapporti collaborativi o
di armonizzazione fra gli stati. O all’altro aspetto di valore, per cui si
possono avere costituzioni sopranazionali, come appunto quella europea, ma non
solo ed invece anche nel senso che ammesso che non si abbia costituzione se non
laddove vi siano sommi principi contrattualmente statuiti, non possa negarsi a
priori che il diritto costituzionale lato sensu (come dirlo se non?)
possa, forse debba, avere riscontri oltre che sviluppi oltre-nazionali.
Ma
beninteso: sarebbe contrario alla ragione e al diritto positivo, con
riferimento al nostro tema, così ritenere che la norma giuridica possa non
essere tale, come che sia pensabile in modo fondato ammettere (anche se certo
il fatto per sé può essere premiato) che si diano diritti fondamentali, posti
quali norme, anche a prescindere da questo o quell’ordinamento nazionale.
A
voler leggere fra le righe, il Diritto fondamentale autonomo a questo punto
sembra essere anche un diritto “ironico”, ché a quanti tendono a deprezzare o
relativizzare il tenore precettivo delle norme che attengono ai diritti costituzionalmente
garantiti e dunque di questa o quella costituzione scritta, può solo far
ritenere, profittando della credulità, che sia possibile sganciare il diritto
dalla natura di certe norme, ovvero anche dissolvere la giusta tensione fra
diritto e morale.
(da un testo del 2010)
(da un testo del 2010)
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