Al di là delle condotte
giudicabili come anticoncorrenziali poste in essere dalla famosa casa di
Redmond nella commercializzazione di un suo browser e al di qua
dell’indole stessa della giurisprudenza, chiamata sempre a specchiarsi in
fatti, persone e cose, il caso U.S. v. Microsoft - la più
imponente vicenda antitrust del nostro tempo, celebrata nel
pieno spirito del Common Law - è valso a riunire due profili
problematici in uno: la tendenza naturalmente monopolistica insita nel mercato
classico - quello per così dire delle merci “esteriori” - e la tendenza
“naturalmente” monopolistica insita nel mercato del software e
dello hardware - ma soprattutto nel primo -, contraddistinto
da merci cosiddette “pensanti”.
Il “caso Microsoft”
in questo è valso a rafforzare, forse a suggellare, il dubium filosofico,
morale e politico sulla pretesa identificazione di libertà e libertà nei
commerci: non è che i teorici del libero mercato siano poco credibili in
epoca di debolezza della domanda (ad es. Krugman); ma è che essi lo sono o
dovrebbero esserlo quasi sempre.
Ovvero ora, alla
luce di quella vicenda giudiziaria (cui altre ne seguiranno, di analoga
sostanza), si può asserire una volta per tutte che la tendenza
monopolistica è tutt’altro che contraria a natura, non costituisce una
deviazione, e che ciò è comprovato dal commercio dei cosiddetti information
goods, e, ancora, che tutto questo accade oggi, nel mercato che
s’immedesima con la comunicazione e la rete, in un modo tale per cui il nuovo
non può non colludere col vecchio, pur senza confondervisi, anzi: volendosi
differenziare da quello.
Ma tanto il detto
dubbio ne è uscito rafforzato, a fronte delle dottrine economiche più “aperte”,
quanto ne sono emerse perplessità sul modo classico e “buonista” di teorizzare
l’Informatica giuridica: se di cercata armonizzazione fra diritto e informatica
si tratta, allora la naturale predisposizione al conflitto di due mondi
moralmente e scientificamente diversi ne è il presupposto invalicabile. Ne
deriva, in relazione al momento positivo del giudizio, e un atteggiamento
censorio o comunque conservativo del giusdicente e certo quale imbarazzo della
cultura giuridica.
Il monopolio
evidentemente è cambiato, se esso ora si basa sulla domanda e non sull’offerta;
ma vi è un che di naturale ed immutato nel fatto che esso sia riconducibile -
senza risolvervisi - a paradigmi come quello delle network
externalities (il vantaggio che un utente ricava dall’uso di un bene
aumenta all’aumentare del numero di utenti) o come quello, connesso, della path
dependance (chi occupa per primo il mercato, anche se con tecnologia
bassa, tende a conservarne il primato), o anche di monopoly leverage (far
leva su una posizione già acquisita di monopolio per trarne vantaggi
competitivi in mercati contigui). Esso ora comunque si attiene alla nuova
merce, la si dica immateriale o “virtuale”, laddove sembra che l’attitudine
monopolistica possa meglio travestirsi, o mascherarsi.
Tanto da una parte
si può parlare nel nostro caso di monopolio “arricchito”, per dire appunto dei
due profili in uno, quanto dall’altra il mercato della Information
Technology e la diffusione di merci “pensanti” sono valsi a sensibilizzare
al problema. Già: ma in quali termini e con quali possibili sviluppi?
Nella vicenda
giudiziaria in questione il dilemma postosi alla giurisprudenza riguardava
molto il rapporto fra tying arrangements (clausole di
autorizzazione alla vendita cosiddette “leganti”) e funzione integrativa di
un software (un applicativo, il “motore” di ricerca, nel
nostro caso Internet Explorer) rispetto ad altro (un sistema
operativo, quale Windows ‘95 o ‘98). Il primo aspetto
consistente nel vincolare contrattualmente i rivenditori di OS in un modo
anticoncorrenziale, il secondo più sottile, ambivalente, legato alla natura
del software, che non si sa quanto si sarebbe potuto qualificare
scorretto se - per astratta ipotesi - si fosse fatto a meno del
vituperato tying.
E a questo punto, se
gli strumenti per il giudizio erano ragionevolmente quelli tradizionali ed
esteriori, attenti agli effetti prodotti sul mercato, soluzioni quali il consent
decree, ovvero l’accordo stragiudiziale intervenuto nella prima fase della
vicenda e che imponeva alla Microsoft determinati criteri di
commercializzazione dei suoi prodotti, non si sa se venissero ad incidere
prevalentemente sulla condotta monopolistica o sulla stessa libertà
d’iniziativa. Ma i risvolti problematici non finivano qui, e al di là di una
prima impressione restava da domandarsi fino a che punto il tying fosse
indice assoluto di scorrettezza o non piuttosto (anche) modo necessitato di
messa in vendita di prodotti “collegati”, o comunque ragionevole misura
preventiva legata alla intuizione storica (di Gates o di chi per lui) che il
mercato dell’informatica sarebbe divenuto meno importante e per così dire di
pretesto o servente rispetto a quello della comunicazione in rete.
Di qui, anche, il
sapiente intervento del giudice Edwards, senz’altro mirante ad un
approfondimento della nozione stessa di concorrenza sleale: dove finisce, per
chi produce e immette nel commercio, l’offesa e dove invece inizia la difesa? E
meglio: in che misura può dirsi illecita una certa quale condotta se rivolta
non verso l’utente?
Ma nemmeno questo
intervento può dirsi pienamente persuasivo, perché al secondo quesito si
potrebbe rispondere sia considerando l’effetto “scatola chiusa” di fronte al
quale comunque il consumatore d’informatica è posto, sia il nesso fra questo
aspetto ed il modo come esso viene giocato al tavolo della concorrenza.
A questo punto, se
l’occasione dell’azione antitrust è fornita dal
sospettabilissimo ruolo strumentale del software rispetto
all’umano istinto monopolistico, la conseguenza la si può forse leggere in
controluce, e cioè: ammesso che ora si approdi un po’ ad una filosofia del
sospetto (il giudice diffida del software e si pronuncia in
base agli effetti dell’uso), questo a che cosa può condurre, al di là del
sospetto metodico e del ricorso ai correttivi?
È legittimo in altre
parole domandarsi se il rapporto concorrenza-monopolio, ora valutabile in base
a canoni esteriori di giudizio, non potrà un giorno sottrarsi a tale
esteriorità, aprendo varchi a nuove concettuologie, magari in chiave
giustificativa. O anche: rilevata l’indole monopolistica per come essa tende a
radicarsi nella domanda stessa di info-comunicazione, non potrà essere che il
sistema giuridico, impossibilitato ad intervenire sulla natura dell’informatica,
e nel rispetto del mercato, rivedrà in questo campo l’idea di monopolio e di
lealtà?
Forse qualcosa di
singolare lo si percepisce in tal senso già ora, nell’idea che l’uomo comune si
è fatta dell’intera vicenda, e cioè che la “soluzione smembramento” successivamente
adottata nei confronti della Microsoft - ma la partita non si è conclusa così e
sembra versare piuttosto in una condizione di stallo - non abbia cambiato
sostanzialmente nulla. Già adesso, in altre parole, affiora il sospetto che a
certe condizioni una cosa sia il giudizio, altra la soluzione effettiva.
(Rielaborazione da
D&G, a. 2002)
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