venerdì 19 luglio 2013

Il caso Microsoft del 2001 (a proposito anche della fiaba del "libero mercato")




Al di là delle condotte giudicabili come anticoncorrenziali poste in essere dalla famosa casa di Redmond nella commercializzazione di un suo browser e al di qua dell’indole stessa della giurisprudenza, chiamata sempre a specchiarsi in fatti, persone e cose, il caso U.S. v. Microsoft - la più imponente vicenda antitrust del nostro tempo, celebrata nel pieno spirito del Common Law - è valso a riunire due profili problematici in uno: la tendenza naturalmente monopolistica insita nel mercato classico - quello per così dire delle merci “esteriori” - e la tendenza “naturalmente” monopolistica insita nel mercato del software e dello hardware - ma soprattutto nel primo -, contraddistinto da merci cosiddette “pensanti”. 
Il “caso Microsoft” in questo è valso a rafforzare, forse a suggellare, il dubium filosofico, morale e politico sulla pretesa identificazione di libertà e libertà nei commerci: non è che i teorici del libero mercato siano poco credibili in epoca di debolezza della domanda (ad es. Krugman); ma è che essi lo sono o dovrebbero esserlo quasi sempre.
Ovvero ora, alla luce di quella vicenda giudiziaria (cui altre ne seguiranno, di analoga sostanza), si può asserire una volta per tutte che la tendenza monopolistica è tutt’altro che contraria a natura, non costituisce una deviazione, e che ciò è comprovato dal commercio dei cosiddetti information goods, e, ancora, che tutto questo accade oggi, nel mercato che s’immedesima con la comunicazione e la rete, in un modo tale per cui il nuovo non può non colludere col vecchio, pur senza confondervisi, anzi: volendosi differenziare da quello.
Ma tanto il detto dubbio ne è uscito rafforzato, a fronte delle dottrine economiche più “aperte”, quanto ne sono emerse perplessità sul modo classico e “buonista” di teorizzare l’Informatica giuridica: se di cercata armonizzazione fra diritto e informatica si tratta, allora la naturale predisposizione al conflitto di due mondi moralmente e scientificamente diversi ne è il presupposto invalicabile. Ne deriva, in relazione al momento positivo del giudizio, e un atteggiamento censorio o comunque conservativo del giusdicente e certo quale imbarazzo della cultura giuridica.
Il monopolio evidentemente è cambiato, se esso ora si basa sulla domanda e non sull’offerta; ma vi è un che di naturale ed immutato nel fatto che esso sia riconducibile - senza risolvervisi - a paradigmi come quello delle network externalities (il vantaggio che un utente ricava dall’uso di un bene aumenta all’aumentare del numero di utenti) o come quello, connesso, della path dependance (chi occupa per primo il mercato, anche se con tecnologia bassa, tende a conservarne il primato), o anche di monopoly leverage (far leva su una posizione già acquisita di monopolio per trarne vantaggi competitivi in mercati contigui). Esso ora comunque si attiene alla nuova merce, la si dica immateriale o “virtuale”, laddove sembra che l’attitudine monopolistica possa meglio travestirsi, o mascherarsi.
Tanto da una parte si può parlare nel nostro caso di monopolio “arricchito”, per dire appunto dei due profili in uno, quanto dall’altra il mercato della Information Technology e la diffusione di merci “pensanti” sono valsi a sensibilizzare al problema. Già: ma in quali termini e con quali possibili sviluppi?
Nella vicenda giudiziaria in questione il dilemma postosi alla giurisprudenza riguardava molto il rapporto fra tying arrangements (clausole di autorizzazione alla vendita cosiddette “leganti”) e funzione integrativa di un software (un applicativo, il “motore” di ricerca, nel nostro caso Internet Explorer) rispetto ad altro (un sistema operativo, quale Windows ‘95 o ‘98). Il primo aspetto consistente nel vincolare contrattualmente i rivenditori di OS in un modo anticoncorrenziale, il secondo più sottile, ambivalente, legato alla natura del software, che non si sa quanto si sarebbe potuto qualificare scorretto se - per astratta ipotesi - si fosse fatto a meno del vituperato tying.
E a questo punto, se gli strumenti per il giudizio erano ragionevolmente quelli tradizionali ed esteriori, attenti agli effetti prodotti sul mercato, soluzioni quali il consent decree, ovvero l’accordo stragiudiziale intervenuto nella prima fase della vicenda e che imponeva alla Microsoft determinati criteri di commercializzazione dei suoi prodotti, non si sa se venissero ad incidere prevalentemente sulla condotta monopolistica o sulla stessa libertà d’iniziativa. Ma i risvolti problematici non finivano qui, e al di là di una prima impressione restava da domandarsi fino a che punto il tying fosse indice assoluto di scorrettezza o non piuttosto (anche) modo necessitato di messa in vendita di prodotti “collegati”, o comunque ragionevole misura preventiva legata alla intuizione storica (di Gates o di chi per lui) che il mercato dell’informatica sarebbe divenuto meno importante e per così dire di pretesto o servente rispetto a quello della comunicazione in rete.
Di qui, anche, il sapiente intervento del giudice Edwards, senz’altro mirante ad un approfondimento della nozione stessa di concorrenza sleale: dove finisce, per chi produce e immette nel commercio, l’offesa e dove invece inizia la difesa? E meglio: in che misura può dirsi illecita una certa quale condotta se rivolta non verso l’utente?
Ma nemmeno questo intervento può dirsi pienamente persuasivo, perché al secondo quesito si potrebbe rispondere sia considerando l’effetto “scatola chiusa” di fronte al quale comunque il consumatore d’informatica è posto, sia il nesso fra questo aspetto ed il modo come esso viene giocato al tavolo della concorrenza.
A questo punto, se l’occasione dell’azione antitrust è fornita dal sospettabilissimo ruolo strumentale del software rispetto all’umano istinto monopolistico, la conseguenza la si può forse leggere in controluce, e cioè: ammesso che ora si approdi un po’ ad una filosofia del sospetto (il giudice diffida del software e si pronuncia in base agli effetti dell’uso), questo a che cosa può condurre, al di là del sospetto metodico e del ricorso ai correttivi?
È legittimo in altre parole domandarsi se il rapporto concorrenza-monopolio, ora valutabile in base a canoni esteriori di giudizio, non potrà un giorno sottrarsi a tale esteriorità, aprendo varchi a nuove concettuologie, magari in chiave giustificativa. O anche: rilevata l’indole monopolistica per come essa tende a radicarsi nella domanda stessa di info-comunicazione, non potrà essere che il sistema giuridico, impossibilitato ad intervenire sulla natura dell’informatica, e nel rispetto del mercato, rivedrà in questo campo l’idea di monopolio e di lealtà?
Forse qualcosa di singolare lo si percepisce in tal senso già ora, nell’idea che l’uomo comune si è fatta dell’intera vicenda, e cioè che la “soluzione smembramento” successivamente adottata nei confronti della Microsoft - ma la partita non si è conclusa così e sembra versare piuttosto in una condizione di stallo - non abbia cambiato sostanzialmente nulla. Già adesso, in altre parole, affiora il sospetto che a certe condizioni una cosa sia il giudizio, altra la soluzione effettiva.

(Rielaborazione da D&G, a. 2002)


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