Poi, invece, con la nascita dell’uomo tipografico si
sarebbe avuto il “passaggio di una società da moduli audio-tattili a valori
visivi”[2];
ovvero, più in generale: il carattere tipografico “assicurò la supremazia della
propensione visuale e infine suggellò la fine dell’uomo tribale”[3].
Parlando dell’origine dell’età gutenberghiana, la
mediologia insiste su due aspetti: la forte crescita delle esperienze visuali -
la “intensa vita visiva stimolata e favorita dalla scrittura”[4] - e
la fine dell’uomo tribale. Come, parlando del medioevo, essa focalizza
l’attenzione sull’udito, e altrove sul dominio delle esperienze audio-tattili,
così, parlando dell’uomo tipografico, essa teorizza l’avvento di un’èra visiva.
Chi è allora l’uomo di Gutenberg, secondo chi ne ha
teorizzato l’esistenza specifica perché ne ha intuito il declino, o il compimento?
È l’uomo che viene sottratto al mondo delle suggestioni dell’orecchio - della
parola subito pubblica, tribale, sociale; della magia della parola e dei suoni;
del verbum e della recitazione dal vivo - ed è tradotto in quello della
vista (più freddo, neutrale, silenzioso...), nel quale la parola si fa mentale,
privata, quanto riproducibile visivamente, all’infinito.
Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, nella
lezione luhaniana, l’occhio si è potenziato, si è separato nel suo esercizio
dagli altri organi di senso, assumendo una supremazia, semplificando la
complessità dei sensi, dissolvendo “l’intreccio tra le diverse proprietà di
tutti i sensi” [5]; proiettandosi e moltiplicandosi nei caratteri di stampa e venendo a incidere così sul corso storico delle cose.
In certo modo è un’epoca di silenzio, quella tipografica,
proprio laddove è la lettura non acustica che si afferma: lectura … in silentio. Ed il fatto che
questo avvenga mentre la lettura diventa merce, valorizza il discorso sulla
sensibilità, non lo comprime.
Che l’uomo sensibile conquisti la ribalta, come uomo
dell’occhio, non dovrebbe essere ritenuto eccessivo: non appartengono al solo
McLuhan certe intuizioni storiche sulla sensibilità; ed egli si riallaccia,
nell’esporle, agli studi di autori come Carothers[6], o
Chaytor, il quale già descriveva il “progresso dalla scrittura a mano alla
stampa” come “la storia della graduale sostituzione di metodi visivi di
comunicare e ricevere le idee al posto di metodi uditivi”[7].
La
specularità tipografica.- Èra dell’occhio, èra visiva,
significa: la pagina, i caratteri di stampa, diffondendosi e facendo il
mercato, producono un mondo di sensazioni visive; questo, per il lettore, per
l’uomo “letterario”, equivale ad un poter abbracciare tutto con lo sguardo; a
spingersi oltre, con lo sguardo. Il che dà luogo a una certa quale specularità,
o forse prima specularità, della cultura.
Il literate man può essere considerato così
anche un uomo speculare, e parimenti:
nella realtà letteraria un intero
popolo può vedersi[8],
specchiarsi; catturati la storia e il tempo, è agevolata la formazione di una
“moderna” coscienza nazionale; ad esempio: non vi sarebbe stato sentimento di
una nazione germanica senza la stampa della Bibbia tradotta da Lutero. E forse
si può ritenere sia così anche con la nascita del romanzo storico. Ma più in
generale è il romanzo stesso che può farci pensare ad uno specchio.
Specularità
tipografica significa: io sono per ciò che vedo, sono per ciò con cui
m’interfaccio; sono per ciò in cui ho modo di specchiarmi e riconoscermi
leggendo e interpretando. Ed anche: se io sono per ciò in cui mi specchio
leggendo, io tendo a somigliare a ciò che così vedo. Così gli ideali di libertà
ed eguaglianza possono essere ricollegati alla forma tipografica di omogeneità,
eguaglianza e ordine; ed anche: gli eserciti degli Stati moderni - secondo
McLuhan - tesero a riprodurre nella loro organizzazione la pagina stampata, con
il suo ordine[9].
Ma che cosa significa ancora specularità? Ad esempio: che cosa - mi domandavo giorni fa seguendo
una intervista televisiva - corrisponde al fatto che la locuzione macchina
dell’uomo ha preso piede nelle nomenclature tecnologiche o scientifiche[10]?
Era l’intervista ad un noto fotografo, il quale sosteneva
cose di buona suggestione: che la fotografia ferma immagini ma che sono in
movimento, che essa mette a nudo la persona, ne rende manifesta l’anima laddove
aggiunge un “occhio” che veda cose che
altrimenti non si vedrebbero; che se togliamo dal nostro sguardo una
fotografia, togliamo la contezza della
realtà, che altrimenti non vedremmo, ecc.; parlando, sempre, di arte da un
lato e di realtà come un che di unico dall’altro.
Notavo insomma che si veniva ad argomentare di fotografia
come di un universo, in cui ogni aspetto fosse da sempre appartenuto ad altra
cosa, rispetto alla stessa fotografia, ma che la macchina fotografica soltanto
avrebbe potuto rivelare. Specularità dunque che viene così a significare:
cogliere, fermare la realtà ma come se la sua essenza fosse di moto, non statica,
con uno strumento che solo tale di volta in volta la rivela.
Quindi, per ricollegare questo al nostro discorso, direi
che speculare è ciò che è dovuto ad uno specchio; ma anche nel senso di uno
strumento non semplicemente riflettente e che invece consente di vedere cose,
realtà, che altrimenti non si potrebbero vedere. Questo per dire che una
tecnologia successiva può aiutare a capire di più di altra, che l’abbia
preceduta; ma per dire anche che la prevalenza di tale tecnologia ha
necessariamente i suoi ragionevoli effetti.
Gli alfabeti fonetici.- Che
nasca e si affermi nell’età tipografica l’uomo “dell’occhio” in certo senso è
conseguente, se già l’alfabetismo “ha estromesso l’uomo dalla sua tribù, gli ha
dato un occhio al posto dell’orecchio [...]”; se “amplificando e intensificando
la funzione visiva, l’alfabeto fonetico diminuì il ruolo dei sensi dell’udito,
del tatto, del gusto e dell’olfatto; permeando la cultura discontinua dell’uomo
tribale, trasformando la sua armonia organica e complessa sinestesia in quel
modo di vivere visuale, uniforme e logico che noi consideriamo ancora la norma
della esistenza ‘razionale’“[11].
Dunque il fatto: che si affermi nell’età tipografica
l’uomo “dell’occhio”, è legato all’altro, che gli alfabeti rispondono già ad una
forte istanza visiva; essi sono la traduzione in oggetto visivo, e
rappresentativo, delle molteplici sensazioni causate dall’esperienza, per cui
garantiscono, alla coscienza sensibile, una continuità. Che in altre parole la
scrittura quale tecnica, la tecnica quale scrittura, è una estensione della
vista, estensione data su spazio e tempo[12],
ovvero è un guadagno, una espansione del campo di azione dell’organo della
vista, il quale in forza degli alfabeti, delle prime scritture alfabetiche -
pittografiche e geroglifiche -, ha ottenuto, per sua utilità, la traduzione del
fatto e della sua descrizione orale in immagine; poi, con gli alfabeti
fonetici, la traduzione anche dei suoni in immagini (“un occhio che si dà, in
cambio di un orecchio”[13], ma
nello stesso tempo: scissione di segni e suoni “dai loro significati drammatici
e semantici”[14]);
venendo l’alfabeto fonetico ad occupare appropriandosene il campo riservato
tradizionalmente all’udito e più in generale a “diminuire l’importanza degli
altri sensi”[15].
La storia del libro.- L’uomo
tipografico, l’uomo letterario, nasce nel quattrocento; ma si scopre,
attraverso la sua teorizzazione, che la storia del libro - un sistema di
azioni, bisogni, cultura, orientati in un certo modo - è assai radicata:
essa dura in fondo dai tempi di Cicerone, per ritrovarsi già in quell’epoca
abitudini essenziali che sarebbero state medievali prima e poi moderne:
abitudini a scrivere, a trasmettere, a volere e a volere far leggere, ad
istituzionalizzare.
La storia del libro lo è, molto, della
memoria e della sua artefazione, o messa in opera; è una storia legata a secoli
di manualità, di trascrizioni; è, prima che libro scritto o stampato, la storia
stessa della cultura scritta. Ed è ancor prima, in ciò, altra storia:
del linguaggio, degli alfabeti, della memoria, della sensibilità, nella quale
essa s’inscrive, non potendo identificarvisi pienamente.
L’uomo “universale”.- Dire “uomo
dell’occhio” non è lo stesso che dire uomo “universale”; ma la proclamazione
dell’uomo universale, l’occidentale uomo “dei diritti”, è fatta dall’uomo
dell’occhio, allorquando la carta, la cultura scritta, attraverso le moderne dichiarazioni
dei diritti, assumono un valore positivo, trainante, fortemente retorico,
compensativo; si addice a un mondo oltre-che-nazionale (come dire: Diritti
universali, catechismo nazionale[16])
tanto ambizioso quanto assurgente (nella psicologia) a una vita sua propria.
Solo in questo senso e in questi termini, solo cioè a
causa del fatto che l’uomo moderno occidentale - l’uomo del “Terzo Stato” -
proietti la sua immagine oltrepassando gli stati e le nazioni e la diffonda
dovunque con la “carta” stampata, in un modo ripetibile all’infinito, più
spendibile, commerciale e produttivo, si può ammettere che l’uomo dell’occhio è
anche - o diviene chiaramente a un certo punto - l’uomo universale.
La cultura moderna ha avuto una sua fisica e una sua
metafisica. Parlo delle culture occidentali; almeno per ciò che noi siamo
abituati a considerare, con riguardo alla storia moderna.
Derrida parla della metafisica d’occidente in termini di
“mitologia bianca”: il pensiero occidentale si fonda come il pensiero degli
uomini bianchi che pretendono di universalizzare il loro peculiare modo di
filosofare[17].
Quando si parla di uomo universale dunque si parla anche
di mitologia, di pretesa, d’illusione; pur supportate bene dai fatti, nell’età
moderna. Ma si parla di
questo come potestà ideologica (far apparire l’uomo particolare come uomo
universale, cambiare la geografia) per dire anche di proprietà tecniche,
possibilità legate sottilmente ad aspetti materiali e tecnici. Laddove appunto
la storia insegna che molto è lotta per l’ideologia universale; distinzione
assai radicata fra il bene e il male, forma
del Bene - che oggi, per scivolare all’oggi, con internet (essere “dentro” ed
essere “fuori”) sembra riscuotere un grande successo.
Universale -
secondo quanto possono trasmetterci i dibattiti filosofici dell’età di mezzo,
là dove la filosofia era sganciandosi dalla teologia che avrebbe poi potuto
mettere le ali -, è ciò che “precede il reale”. E l’insegnamento, se
esso è tale, può essere ritenuto prezioso, se si pensa che ogni segno, ogni
traccia di universalità, reca in sé l’allontanamento da qualcosa, per non dire
l’inganno.
Salvo considerare in positivo, ovvero
seguendo la regola della “libertà-necessità”, il caso che questi universali si
dimostrino tecnicamente pregevoli, o comunque utili ad un mondo vieppiù
tradotto in tecnica che valorizza la produzione industriale, come sistema -
anche - della economia della vita, finanche di umanamento.
(tratto
dall’e-book Crepuscolo dell’uomo di
Gutenberg)
[1] La galassia
Gutenberg, p. 134.
[2] Gli strumenti del
comunicare, p. 157.
[3] Dall’occhio
all’orecchio, p. 35.
[4] La galassia Gutenberg, p. 74.
[5] Utilizziamo qui
alcuni brani di G. Kepes, The Language of Vision, citati da
McLuhan, alla p. 177 della sua Galassia.
[6] La galassia Gutenberg,
pp. 42 e ss.
[7] Ivi, p. 129. Ma, più in
generale, cfr. della medesima opera le pp. 119 e ss. (Il brano, di Chaytor, è tratto da From Script to
Print).
[10] La macchina dell’uomo
ha preso piede nelle nomenclature, laddove non si parli più del corpo come di
un insieme di “ruote e pulegge” (Lamettrie) ma ad esempio - nella psicologia
del linguaggio - di switches, files, ecc., volendo indicare
alcune funzionalità del nostro sistema nervoso.
Il nervo, sosteneva ad esempio Neumann, è
un interruttore binario. È solo un postulato, è cioè una verità superabile,
integrabile; ma è suggestiva, se si può individuare nel nervo l’origine della
condotta come dei concetti ma anche del motoscooter, o del romanzo. Dunque molto, che dipende dal nervo,
deve condividere qualcosa di essenziale col sistema binario; come si dice: aut-aut.
Così forse anche se noi oggi siamo più
nervosi, dev’essere perché siamo più binari. Siamo in ogni momento nell’ansia
di dire sì e no, come fossero sentenze irrevocabili. Sulla stessa linea logica
e problematica si può porre mutatis mutandis la famosa affermazione di
Hobbes, per cui l’uomo quando pensa calcola (cosa che presumibilmente poteva
scandalizzare allora…); o anche la questione, relativamente recente, se i
meccanismi del cervello operino per via di rappresentazioni o di computazioni
(K. Pribram,
Contributi sulla complessità: le scienze neurologiche e le scienze del
comportamento, trad. it. in aa.vv., La sfida della
complessità, Milano 1991, p. 260. Laddove è assai importante considerare la
irriducibilità di ciò che è nell’uomo computazionale a ciò che invece in
lui è rappresentativo).
[11] Dall’occhio
all’orecchio, p. 32.
[12] Gli strumenti del
comunicare, p. 95.
[13] Ivi, pp. 93-94.
[14] Ivi, p. 97.
[15] Ivi, p. 94.
[16] Articolo, in D&G
- Diritto e giustizia, anno 2005,
fasc. n. 29, i.f.
[17] Cfr. J. Derrida, nel sito
intitolato forma mentis.
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