domenica 3 febbraio 2013

Diritto e "non" (dalla prefazione di un libro mai sinora scritto)





Che cosa è il diritto? È qualcosa di più vicino o di più lontano, rispetto a ciò che possa ritenersi la sua negazione? E che cosa la storia, che ad esso comunque si confà? 
Può accadere che se in una narrazione di fatti non si muove da una questione giuridica, il diritto prima o poi lo si ritrovi sulla propria strada quanto meno nella forma del sentimento superiore: storia - dunque - e giustizia. Certo il diritto ha a che fare col trascendentale ed è anche per questo, e perché non vi è il diritto senza il fatto, che i dubbi possono cadere sulla sua sostanza. 
Così ci si rende conto che fra racconto storico e pensiero giuridico i legami sono assai profondi; ché non si dà un “ciò che accade” senza un “ciò che è”; che per certe sensibilità il racconto e la dottrina si equivalgono; e questo concede all’uomo che osserva e trova legami fra le cose di avere sempre per sé meno risposte che domande. Ovverosia: Diritto e non è molto una domanda, che non solo il narratore dovrà essersi posta. 

Mi chiedo ad esempio, ripensando ad alcuni miei articoli: a quale Stato fra il piemontese, l’italiano e il napoletano-borbonico si può riconoscere la patente di Rechtsstaat, non meravigliandosi del fatto che si sia potuta fare addirittura parola (con Zagrebelsky) di “concezione fascista dello Stato di diritto”? 
Quale, per restare nel nostro ottocento, la giuridicità, rispetto alle tristi vicende di “briganti”, contadini e anarchici, sostanzialmente avvolte nella oscurità, se la storia è cronologia vissuta dalla persona e cioè anche da quell’uomo senza volto, sbranato dal carnefice e dai cavalli, in un’epoca X? E che cosa, nella testa del figlio del pastore del feudo di Rampagallo (immortalato da Giuseppe Cesare Abba) in procinto di seguire i “Mille” nella battaglia di Calatafimi, si sarebbe potuto definire giuridico? Non si trattava forse di un vago quanto umano senso morale, di libertà o di giustizia, che un qualche dio avrebbe chiuso nel petto, nella persona, di un giovanissimo analfabeta? 
Quale, continuando a regredire nel tempo, il sentire giuridico legato alla ghigliottina, temuta e amata dal popolino, o al principio di eguaglianza? Pure, con riferimento a certi periodi, simbolici, si parla di giustizia, di codici e di costituzioni. 
Quale, realisticamente parlando, la giusta considerazione della rappresentanza politica, se essa ebbe a  preesistere in qualche modo, al pari dei parlamenti, alle moderne forme repubblicane, ovvero se essa è un po’ insita, indipendentemente da ideali di democrazia, nella natura dell’uomo storico e socialmente gerarchizzato? 
Qual è la differenza sostanziale fra la percussio scutorum delle milizie romane, il plebiscito e il moderno referendum, se l’esperienza dimostra che al “popolo” non è dato governare veramente e che la democrazia ha per nemico, in un modo più che storico, la possibilità
E ancora, guardando all’età di mezzo come a un aspetto della stessa natura umana: non dev’essere forse il ruolo del giudice pari o superiore a quello della lex, se il re era ritenuto degno di esserlo sopra tutti e tutto, iudex? E forse non è, in questo, che non si tratta semplicemente di disintossicarci da un mito, che nemmeno ci è stato consegnato dalla sola Rivoluzione francese, se Thomas Jefferson avrebbe affermato che, potendolo, egli avrebbe escluso il popolo non dal Giudiziario ma dal Legislativo? 
Oppure, cambiando campo: quanto il lavoro produttivo, pur negato, pur non garantito giuridicamente, sino dichiarato finito, suggerisce, magari per essere il mondano in quanto tale illuminato, per contrasto, dal Dio di papi ed encicliche, una concezione diversa della economia? 
Quanta la prossimità della condotta criminale alla vera natura dell’uomo?, potendo sempre affermare, con Terenzio Afro: Homo sum, humani nihil a me alienum puto
Carl Schmitt, da par suo, sosteneva che ciò che esiste come entità politica è meritevole di esistere giuridicamente. Forse che proposizioni di questo tenore debbono preoccupare o scandalizzarci, per il loro realismo?; o non piuttosto esse esprimono qualcosa di vero e dimostrabile ma di non confessato? Per dire, anche: in quanti modi esse possono essere accettate da chi dichiari il contrario? Perché è, pur non ammettendolo, che alla fine i fatti - e di proposito qui non dico “il fatto” - si sposano bene con i limiti del ragionamento. 
Ciò che certo realismo con la sua chiarezza teorica vale a porre in risalto è anche che il diritto è radicalmente legato al suo non e che tale è il nesso per cui si ha quasi a che fare così con una materia prima, o con la natura stessa della cosa, che è appunto racchiusa in quel non
E anche: che cosa induce a pensare l’affermazione di Carl Olivecrona (Law as Fact) secondo cui il diritto ha in sé la forza, l’efficacia, la cogenza del fatto? Non propriamente, credo, che il diritto sia chiamato a legittimare il fatto, che va dato come preesistente; e già, più verosimilmente, che il diritto non avendo forza propria questa debba attingere sì aliunde ma di suo. O meglio, e a chiarimento di questa seconda lettura, che il diritto in certo senso non deve andarsi a prendere lontano, in luoghi alieni, ciò che esso già trova presso di sé dal momento stesso che esiste; laddove è tutt’altro che separabile da qualcosa come la forza o il fatto la instaurazione e conservazione dell’ordine giuridico, il porre che fa capo al positum, il “razionalizzare” normativamente. Che insomma, a voler guardare nel profondo, se è umano il diritto, allora lo è anche il fatto. Ma tutto questo perché? Solo perché così è, realisticamente
Anche se la narrazione non basta, ché essa non è il pensiero, è pur sempre vero innanzi tutto che repetita iuvant: valga sempre insomma l’adagio latino, segnatamente in una stagione di memorie artificiali e macchinazione dell’esistenza, poiché in essa il rischio di azzerare ogni coscienza storica è fortissimo. Dunque: ripetiamo la storia, ecco l’invito, non stanchiamoci di farlo, raccontando sempre e di nuovo i fatti (gli stessi che crediamo di conoscere e quelli remoti come fossero attuali), esaminando documenti e testimonianze come prove della natura umana. Il che equivale a un interrogarsi ancora sul diritto ma estendendo la dimensione storica ad ogni campo. 
In secondo luogo bisogna ammettere che il pensiero è sempre successivo ai fatti, come insegna l’immagine hegeliana della nottola di Minerva e per quanto bisogna ritenere impresso negli insegnamenti della ermeneutica filosofica. 
In tutto questo il realismo giuridico - e alludo anche a quello giurisprudenziale nel quale il diritto è quello applicativo, più vicino al fatto - si dimostra prezioso. Esso induce a riflettere e procura elementi importanti per la questione sino ontologica; ma non per questo è pacifico ritenere che esso, pur veritiero, offra la migliore fra le soluzioni possibili ai problemi che segnala e alimenta. 
Difficile per il diritto - ad esempio - uscire dal cerchio del dover-essere: se esso esiste, ciò significa che vi è sempre una necessaria regola in più, che vi è una norma ulteriore, chiamata a cambiare le cose, tanto quanto a dare certezze; quasi il diritto oggettivo con la sua energia di stabilizzazione (valenza “controfattuale”: Pellegrino, Napoli 2011) fosse racchiuso molto nella sua dimensione futura. E se è ingenuo ma non per questo non intelligente scambiare il diritto con la morale, non lo è propriamente il definire morali e non giuridiche le norme che chiedano grande impegno, vera cultura, o che politicamente non convengano, soprattutto per l’immediato. Ciò che accade ad esempio quando giudici e dottrinari ostacolano, quasi “liberali” poco illuminati, il profilo “esistenziale” del danno non patrimoniale o quando accostano all’utopia, con oltre due secoli di ritardo, l’idea che affiora dal pensiero di un Häberle, di una possibile scienza del “Diritto fondamentale”.

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