sabato 22 giugno 2013

La singolare storia dell'eguaglianza

 


Singolare destino, quello del principio di eguaglianza e per meglio dire di quella metafora o allegoria che si costituisca nella idea di eguaglianza. Eguaglianza sì di fronte alla legge, sì formale, sì economica e sostanziale; ma innanzitutto naturale, o se si preferisce stabilita da Dio.
Non dunque sic et simpliciter quel principio che nato con le dichiarazioni delle rivoluzioni americana e francese si sarebbe perpetuato nel periodo napoleonico giungendo a una formulazione matura nella Costituzione francese del 1848; né l’ideale babuvista, o più in generale comunista; ma qualcosa che vestito giuridicamente animò quei principi e ideali, spingendosi oltre: pane quotidiano di popolo, minoranze e stranieri. Insomma il diritto soggettivo sì ma in prima approssimazione, ma radicato nei primi impulsi, quel certo quale rousseauianismo, per così dire, insito nella stessa giuridicità.
Mi veniva un dubbio: l’egualitarismo forse, prima ancora di essere idealismo, è meccanicismo o naturalismo brutale, linguaggio dell’istinto e dunque c’entra e non c’entra con il comunismo. Esso tende al riconoscimento degli stessi diritti per tutti, ovvero, per sé, di un trattamento pari o degli stessi diritti di cui altri abbia già il godimento. E ci sta comunque necessariamente che l’eguaglianza è pur sempre rivendicata da quanti patiscono ingiustizie, dagli svantaggiati, o da quanti rivestano una posizione economicamente debole; ma molto in certo senso relativamente al vicino di casa.
Le rivendicazioni dei diritti, lette in prima persona da ognuno di noi, si possono ridurre a poche parole: io, non ritenendo giusto che ciò non accada e comunque in base a principi superiori di ordine naturale o morale o religioso, chiedo di godere degli stessi diritti di chi già ne ha; ovvero: io non essendolo voglio essere per condizione eguale agli altri, voglio che tutti abbiano le medesime chances. Ma questo non convince, non basta, se attribuito al comunismo, perché l’eguaglianza comunistica non si riduce a quantificare; essa invece quale dottrina ambisce a una trasformazione generale ed è piuttosto rinuncia, non possesso.
Gli “eguali” se voluti sono borghesi e la rivendicazione forse si confà essenzialmente al diritto, legato all’anima individuale e anche in questo all’istinto; ma è certo che tale legame a sua volta è come se ne fosse trasceso; sia sotto il profilo delle parole, motivazioni ed elaborazioni teoriche, sia sotto quello dello sviluppo storico delle cose.
Quale dunque, guardando un po’ a questo sviluppo, il destino del principio egualitario? Quanto meno: di detto principio in epoca moderna? Laddove nemmeno l’eguaglianza a favore del poco e del basso, sia pure proprietaria, avrebbe fatto parte veramente di quel destino? Quel principio, mosso da istanze popolari, ma prima ancora dall’istinto e dall’anima, si sarebbe prestato in fondo a una giustizia “dall’alto” e comunque pattizia, generalmente politica, con tutte le conseguenze che ne derivano. Introdotto in modo “rivoluzionario”, esso si sarebbe mostrato invece congeniale a società successive improntate al livellamento e all’annientamento delle personalità, o alla massificazione;  laddove questa si abbia al di là di qualunque forma di Stato. E questo anche perché, prima delle rivoluzioni moderne, come è stato da più parti rilevato, esso era già popolare e formale.
Dalla conclamata eguaglianza dei diritti (per non dire dei beni) così si sarebbe scivolati prima nella irregimentazione politica ed economica delle masse, quindi nell’imbrigliamento generalizzato degli istinti, infine nella cosiddetta “omologazione” - o nello one-dimensional man, di marcusiana memoria.
Sembra di assistere ad una sorta di parabola; ma se si vuole è una ben strana parabola, perché non sembra di assistere nemmeno a rovesciamenti o stravolgimenti semantici. O forse: è come se un prestito, non potendo essere ottenuto in un modo lo fosse in altro, magari non legittimo.
Secondo certa sociologia, particolarmente sensibile al profilo giuridico delle cose (alludo a L’autunno del Leviatano, di M. Corsale), l’eguaglianza si sarebbe mostrata compatibile, forse congeniale, con una società uguale ma appunto quale quella di massa novecentesca, quasi l’eguaglianza - aggiungo io, in attesa di smentite - fosse realizzabile solo (e strumentalmente) in un contesto d’ineguaglianza e di livellamento ma a vantaggio dei cosiddetti “più eguali”, tradendo - in un modo da una parte forse troppo evidente, dall’altra però non inatteso - il principio originario. In altre parole: nel novecento non si sarebbe avuta eguaglianza come qualcosa cui il popolo quale classe oppressa - piccoli borghesi, artigiani ed operai - aveva diritto, ma come qualcosa (sostanzialmente quella sua stessa condizione) che esso come massa era chiamato ad accettare (facendo quasi scivolare in basso i desideri). Lasciando magari che potesse restare in piedi il mito prezioso e che certo a fortori va coltivato, della eguaglianza di fronte alla legge.
E anche qui il nobile de Tocqueville si sarebbe rivelato, per chi conoscesse certe diagnosi contenute ne La democrazia in America, una novella Cassandra, laddove egli aveva parlato delle “due tendenze” dell’eguaglianza: “una che porta la mente umana verso nuove conquiste e l’altra che la ridurrebbe volentieri a non pensare più”. 
Ma se comprendo bene, l’eguaglianza secondo la tesi sociologica cui alludo non tanto si sarebbe avuta prima e durante il secolo “delle masse”; ma si sarebbe attuata propriamente, concretamente, non prima di quel secolo: delle guerre mondiali, dei grandi eccidi, tempo tragicamente unitario; in qualche modo omogeneo pur a fronte di ideologie opposte,  nel quale per così dire ci sta tutto: così i fascismi come i comunismi come i socialismi come le democrazie, tutto ciò che alla fine si rivela massivo (tutto ciò, si sarebbe scoperto successivamente, che è commutabile). Laddove si può giungere a sospettare che tutto è stato massivo perché sorretto, al di là delle differenze, dal medesimo principio ovvero dalla medesima antropologia di base.
Riferendosi al novecento, alla impostazione politica del novecento, si può pensare che l’eguaglianza fosse forte rudimentale saldatura di istinto e di politica, rationabilitas comunque, prima ancora che vera e sana istanza della ragione. E dire a questo punto le “ombre della Ragione” forse non basta, non si deve accusare Cartesio, in un modo parziale (coma ha fatto Foucault) se nell’epoca classica i poveri, i folli e gli ammalati erano una cosa sola.
Tutto questo è forse sorprendente? Forse no, se si considera, a proposito della società tecnologica della comunicazione, un asserto di McLuhan secondo cui la nuova telecomunicazione significata dal telefono, bene si addice al selvaggio, non all’uomo civilizzato, non all’uomo “letterario”. Per dire che il “progresso” - quanto meno il progresso nelle comunicazioni, ma dunque quasi in tutto, proprio dal punto di vista sociale - fa leva sugli istinti, non sulla ragione; nemmeno sull’uomo della tecnica, il quale per lo più se ne sta presso di sé, immerso nel suo linguaggio.
L’osservazione di McLuhan riferisce della crisi del literate man, dell’uomo del libro, l’uomo “gutenberghiano”; ma lascia riflettere, essenzialmente sul fatto che il progresso, che antichizza il bel libro, sembra liberare il regressivo, indurre prossimità fra delitto e diritto. Come dire: la locomotiva e la potente autovettura da corsa sono travestimento, il progresso è realiter progressivo travestimento. Il fatto che l’uomo sia l’uomo-macchina, tanto più programmabile quanto più programmatore, non nega il fatto che si emancipi la stessa regressione, confondendo le due cose. Perché a causa di una regola primordiale, l’uomo-macchina così si maschera.
Ma qui bisognerebbe arrestarsi e chiedersi se sia ragionevole parlare dell’eguaglianza in un modo assoluto, senza ad esempio parlare della libertà. Già nell’ottocento era emersa la verità: che eguaglianza non necessariamente significa libertà, ovvero che il grande problema era quello di produrre e fissare equilibri fra l’una e l’altra. E quegli equilibri, se non venivano da Dio, allora dovevano essere pattizi, e cioè legati al diritto scritto, innanzi tutto, data l’ampiezza dei fenomeni, costituzionale. O quanto meno: era bene trasferire i conflitti sul terreno del diritto oggettivo, quasi al di sopra delle teste degli uomini. Ciò che ebbe luogo nel legame di necessità tra la seconda guerra mondiale e le costituzioni cosiddette “lunghe”.
Ma, appunto, perché il diritto costituzionale scritto se non a causa della pericolosità della scissione tra eguaglianza e libertà? E anche qui la sorpresa diminuisce: è presumibile che condizioni storiche inducano certe scissioni, saldando politica e istinti.
Allora la conclusione è allarmante: l’egualitarismo lasciato a sé stesso se si è attuato nel novecento, è perché storicamente esso rifiorisce come mito laddove la libertà si saldi in qualche modo con la regressione. Abbiamo come punto di approdo piuttosto una società (quale quella che impauriva i prefetti di Giolitti) che è regressiva nel momento stesso in cui si viene a costituire in quanto società, che per certi versi non ha bisogno di regredire, ma di avere in sé, inesauribili, slanci e cultura della libertà.
Ma è tutta qui la singolare storia del principio di eguaglianza? Tutto è proprio così “novecentesco”? La domanda ulteriore in altre parole è la seguente: se l’eguaglianza è tale per cui entrando in crisi la società di massa entra in crisi il valore di quel principio.
Oggi - aggiunge quella sociologia - il vento sembra essere cambiato: se prima si rivendicava la propria eguaglianza, ora si rivendica la propria diversità. Siamo entrati in altre parole nella cosiddetta società plurale, nella quale si celebra la morte della società di massa e meglio di un certo tipo di essa. Una società nella quale si tende a ritribalizzarsi, a riacquisire quel cosiddetto “legame sociale” - ma si tratta, io direi, di un legame con la terra, con una radice - che i regimi politici novecenteschi, per certo quale loro ingrediente “rivoluzionario” e totalitario, avevano tentato di sopprimere.
Ora avviene dunque che chi rivendica diritti rivendica la diversità. L’epoca è quella della diversità da preservare e riguadagnare, quanto meno quella che corre i maggiori rischi di estirpazione e la vecchia eguaglianza è così che si manifesta. Ma parlare di qualcosa da riguadagnare sino a dove è caratterizzante, sino a dove soddisfa indagini di pensiero?
La filosofia quale speculum sembra solo essere contraddittoria, a questo proposito, quando da una parte essa parla della differenza come di un che di costitutivo (dunque la regola naturale sarebbe quella dell’allontanamento e meglio dello estraniamento e non quella della unione) e dall’altra di “commutabilità” (: fra bene e male, vero e apparente, bello e brutto, democrazia e dittatura, ecc.). Per dire che al di là dello sguardo sociologico società “eguale” e società “plurale” si potrebbero anche non opporre, ma ritenere profondamente compatibili a causa del fatto che non è più semplicemente questione di masse ma anche di modernità, in un’epoca che non è più quella moderna, del progresso e del tempo sequenziale e unilineare. Per dire insomma che i tempi sono maturi perché del postmoderno si prenda atto, come non si poteva non prendere atto, nel cinquecento, della scoperta dell’America.
Potrebbe dirsi società plurale quella in cui l’eguaglianza non si senta più appagata in sé stessa ma abbia bisogno del suo contrario, in cui possa ritenersi che il principio d’eguaglianza abbia svelato la sua parzialità, il suo ruolo strumentale o abbia dimostrato il bisogno di nuova linfa.
La società plurale in altre parole sarebbe piuttosto contenibile nell’epoca postmoderna, laddove essa verrebbe ad attingere un senso diverso da quello che essa poteva avere in una società uguale. La mera contrapposizione cade laddove la società si ricostituisca attorno a nuovi nodi psicologici. Non solo dunque nel postmoderno si trova il nuovo scavando nel vecchio, non solo non vi domina il progressivo unilineare, che comunque non ne viene espulso; ma la regressione vede crescere le sue chances. In tutto questo l’egualitarismo si perpetua, eccome! Ma la Legge sembra essersi segnalata: come era avvenuto nell’ottocento e nel novecento, l’eguaglianza oscilla sempre, fra garanzia dall’alto (e dunque troppo regolata) e psicologia del desiderio (troppo orientata al consumismo e sempre anche troppo disastrosa).
L’egualitarismo rischia di non cessare di essere quello della vecchia ghigliottina, che la notte vai a vedere, avvolta nella sua stessa ombra, quasi mostro dormiente; e lo fai semplicemente, pur di non rimirarti nella tua ambivalenza. 

(da uno scritto del 2003)

Nessun commento:

Posta un commento