mercoledì 10 luglio 2013

Giuridicità ac/seu necessità




Non credo sia la libertà la categoria filosofica par excellence. Credo invece che si tratti di una parola (una fra le tante) che non sta in piedi da sola e ha bisogno di nutrirsi del suo contrario, che è la necessità e in qualche modo di dover essere da essa distinta, non con facilità.
E aggiungerei che il gioco deve condurlo quest’ultima; la quale a sua volta, se si osservano le cose con un po’ di attenzione, ha un singolare potere liberatorio di concetti e idee. Ovvero: può spiegare più cose di quanto non faccia la libertà; se non altro a causa del suo richiamo alla realtà.
Personalmente, è da tempo che vado misurando le cose di pensiero sul terreno giuridico,  nel cui campo, se taluno (Perlingieri) ha posto la nitida nozione di (o del) giuridicamente rilevante - e lo ha fatto là dove Mortati aveva incontrato difficoltà argomentative -, Santi Romano, il primo Santi Romano, poneva la necessità quale nocciolo esplicativo del rapporto attorno al quale tutto ruota: quello tra diritto e fatto.
Ovvero: com’è possibile che - dov’è il trucco per cui - in un ordinamento la giuridicità sia già nel fatto (Mortati sembrava quasi terrorizzato dal contrario) e meglio in quel fatto che poi si tramuterà in diritto? Ovvero: è possibile che esistano un fatto non giuridico e un fatto giuridico e a quest’ultimo sia dato poi elevarsi al di sopra dell’altro? Ma essendo ovvero valendo potenzialmente l’uno quanto l’altro?
La spiegazione del Romano credo sia semplice; ma nemmeno tanto consolatoria forse - aggiungerei - se si considera la natura del problema. E considerando quello che i giuristi chiedono forzandone le potenzialità di pensiero speculativo al pensiero giuridico, che è il loro pensiero.
Per il primo Romano il diritto è nella necessità o è necessità, e il nesso logico scatta interpretativamente allorquando se ne ha la consolidazione. Il diritto è il fatto ma stabilizzatosi giuridicamente e cioè resosi giuridicamente necessario. Il diritto si forma laddove i fatti dimostrano che era necessario che esso si formasse.
Ancora: la necessità precede la volontà dello Stato (teoria cosiddetta volontaristica, cara per così dire agli spiritualisti) nonché il pensiero razionale.
Di che cosa parliamo, dunque? Di quella «necessità che è la fonte prima del diritto, di quel diritto che scaturisce immediatamente e direttamente dalle forze sociali [o «movimento sociale»], in modo così categorico, esplicito, certo, da non permettere che tra i bisogni sociali stessi che determinano la norma giuridica e il rinvenimento e la dichiarazione di quest’ultima si frapponga l’attività razionale degli organi competenti a questa dichiarazione» (tratto da Osservazioni preliminari, pp. 236 e ss.).
Ovvero: «La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa corrispondenza effettivamente esista […] si rinviene nella suscettibilità del nuovo regime ad acquistare stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito» (L’instaurazione di fatto, p. 186).  Necessità dunque - dicevamo - e stabilità; l’una che è provata dall’altra.
La necessità è posta così quale “fonte prima” del diritto. Dal che scaturisce certa dottrina della immediata origine della norma giuridica (S. Romano, Osservazioni preliminari, pp. 236 e ss.). Laddove dire che la necessità è fonte del diritto non è lo stesso che dire che essa è fonte primaria del diritto.
La prima è un’acquisizione della teoria delle fonti e val bene per questa o quella serie di fattispecie; la seconda chiama a sé anche la Dottrina dello Stato, quella degli Hobbes, dei Bodin, degli Hegel. E coinvolge la Dottrina della costituzione (ovvero: che cosa è la costituzione?: essa sarà così solo in parte lo stesso che lo Stato, se si ha costituzione dello Stato).  
Insomma: tale è la forza e la spinta (sociale) della necessità che il diritto nasce così, o da sé solo, senza alcuna volontà. Vi è una necessità socialmente fondata (qui vi si legge anche Hauriou) e che in tal senso si stabilizza, ecco la spiegazione del farsi e strutturarsi della norma giuridica. Ma si parla così di farsi e strutturarsi finali o successivi; invece l’architettura avvertiva il bisogno di un qualcosa che spiegasse le cose un po’ più giuridicamente; e così possiamo dire che quelle nozioni instradano al senso della istituzione.
Bastava dunque girare un po’ la manopola della necessità, per capire la magia del passaggio dal fatto al diritto - invece di mettere a nudo certe insicurezze, inscritte forse nell’argomento.
Prima viene lo Stato, poi il diritto; ma lo Stato, se non è un mero fatto ed è il frutto della necessità, esso è qualcosa che a un certo punto nasce e si forma si struttura e si organizza. In una parola è istituzione.
Nella ricostruzione che si fa del pensiero di Romano (e confesso a questo punto il mio bisogno di rileggerlo) a un certo punto è come se la necessità quale chiave esplicativa cedesse il passo alla istituzione. La quale appare più giuridica della necessità.
Ma senza nulla togliere al valore culturale dell’istituzionalismo, la necessità non è giuridica e proprio per questo mi piace come soluzione. Allo stesso tempo infatti essa è categoria che trascende e ricomprende il fatto. E la sua astrattezza la mette al riparo dalle facili obiezioni.
Dunque forse il giurista che ci tiene quanto meno alla teoria generale potrebbe non esserne soddisfatto … vorrebbe di più per il suo ambito di competenza. Ed ecco apparire appunto l’istituzione, la cui virtù consiste nel non identificarsi con la norma, nel non condividere le sue debolezze e nel costituire risposta alla crisi della onnipotenza del legislativo e nell’essere per l’appunto qualcosa di quasi giuridico o catturabile dal giuridico.
L’istituzione romaniana, nella interpretazione di Spinelli (è dal suo scritto su La costituzione di Santi Romano che traggo spunto), subentra alla necessità (qualcosa che si svolge o che ha luogo nel momento stesso in cui…) e pone riparo al suo carattere generale (io direi non giuridico); il discorso si traspone: prima viene la istituzione, che è come l’anello mancante, poi viene la norma giuridica; prima lo Stato, poi il diritto. Qualcosa che si stabilisce e nasce in un modo essenziale, qualcosa che si struttura e organizza da sé: tale è la istituzione. Ma è qualcosa che ha una sua specificità giuridica.
Non è più la necessità a governare e orientare le cose nel profondo della realtà; ma la istituzione, ovvero ciò che avviene e si stabilisce o stabilizza, raggiungendo un certo grado di organizzazione. Da ciò che è necessario si giunge così a ciò che nasce, si forma in modo stabile, resistente, come già detto.
Un guadagno, dal punto di vista della scienza giuridica? Forse, ché istituzione è parola più soddisfacente di fatto, o di forza, o di necessità. Almeno secondo certa interpretazione.
Ma è veramente così che stanno le cose? E qui la domanda è un po’ sempre la stessa: v’è tanto o soltanto bisogno di un concetto giuridico per spiegare il diritto? O è così che sostanzialmente il diritto tende sempre ad elevarsi a scienza autonoma e innamorata di sé? Pure esso dovrà sempre chiedere in prestito la forza e il fatto e la violenza, per poi redimerli e pulirli una volta divenuti giuridici o per farli divenire tali.
Credo a questo punto che tutto sia ammissibile o quasi, per il pensiero. Proverei comunque a fare il percorso a ritroso e andare dalla istituzione alla necessità, o quanto meno a confrontarli, ché è qui lo stimolo, o la leva: se istituzione è concetto giuridico, quello di necessità è un concetto che trascende e spiega anche il perché dei concetti giuridici. Il fatto produce il concetto e l’idea anche; a meno che non si sia idealisti nel senso pieno del vocabolo e si creda che l’idea sia lo spirito (come lo erano gli spiriti animali nella ironia antihegeliana di Ludwig Feuerbach) che muove le cose.


Nessun commento:

Posta un commento