lunedì 8 luglio 2013

La divisione "del potere"




Salvare la libertà dei cittadini: questa la motivazione formale ma forse la più profonda di Montesquieu, che dà la misura dello spirito con cui egli pensò la divisione dei poteri - e volutamente io parlo qui di “divisione” (e divisione "del potere", operazione che si rapporta ad una unità o concentrazione), invece che di “separazione”; ovvero: «Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà».
Montesquieu
Ma è vero, come aveva sostenuto Halifax nel seicento, che le idee contano per ciò: che vi sono interessi concreti o poteri costituiti che sostenendole le rendono significative, attribuendo ad esse valore. Nulla dunque, andando alla radice delle cose, può sostituirsi al fatto e alla evoluzione storica dei fatti. Fermo restando che anche una valutazione come quella di Halifax ha un valore formale, o suscettibile di elaborazioni. 
La divisione dei poteri - e in ciò il concetto stesso di potere - è questione moderna - e ci si metta pure la "secolarizzazione". Fa la sua prima comparsa negli scritti dei monarcomachi (il De iure regni di Buchanan - dove fra l’altro si sottolinea l’importanza dell’autonomia della “giurisdizione” - e l’omologo Vindiciae contra tyrannos - di certo Stephanus Junius Brutus Celta? - sono del 1579); si cristallizza in seguito in teoriche più celebrate (Locke e appunto Montesquieu, che predicava la divisione come antidoto del dispotismo) per poi approdare al mondo delle rivoluzioni e delle costituzioni scritte: dall’epopea delle colonie nordamericane alla Rivoluzione francese; dalle carte “ottriate” (cioè graziosamente concesse dal sovrano ma perché soggetto a pressioni) della prima metà dell’ottocento, alle costituzioni “lunghe” - più versate alle garanzie, ai rapporti sociali e ai diritti - del secondo dopoguerra. 
Ma la questione è moderna per quanto di essa si viene a definire praticamente con l’uscita dal medioevo: a causa - anche - del patrimonio storico, politico e giuridico di quell’epoca. Il che a ben riflettere spiega perché i teorici politici della nuova èra si sarebbero rimessi non poco ai fatti. Il senso critico di questa storia è segnato dalla riforma e contenimento dei poteri del monarca. Nei suoi termini iniziali esso è dato dalle grandi contese di religione (protestanti contro cattolici; abbandono dell’obbedienza passiva nel pensiero calvinista e luterano, ecc.) ed essenzialmente dal tema del patto costituzionale: fra Dio e sovrano o fra Dio, popolo e sovrano; laddove il monarca, appunto, già sostenuto nel medioevo da una buona dottrina giuridica, negava e sottintendeva allo stesso tempo il moderno principio di sovranità. A causa di questo principio, destinato a imporsi obiettivamente, la funzione giurisdizionale avrebbe cessato di appartenere al re (rex judex) e lo stesso sarebbe accaduto al potere di fare le leggi, meno “centrale” nella cultura dell’età di mezzo. Ma ciò è vero tanto quanto lo è il fatto che nell’ottocento vi sarebbero stati ancora privilegi di normazione nelle mani della monarchia o che i parlamenti, pur evolvendo il ruolo costituzionale del popolo al parlamentarismo, non avrebbero dovuto legiferare da soli.
In questo “dare e togliere” (in questo “controllare”) si sarebbe manifestato un principio, quello appunto di “divisione”, che la dottrina spesso si limita a porre sul piedestallo costituzionale e ad ammirare; ma che nasconde altro, rispetto al rassicurante equilibrio e alla pura garanzia.
L’eclissi della monarchia feudale, venendo a cessare la frammentazione politica e istituzionale dell’età di mezzo (allontanandosi i poteri d’imperio dalla società civile: Bognetti) e potendosi riunire in uno le potestà di legiferare, amministrare e rendere giustizia, fu tale da consentire tanto all’istituto monarchico di approdare all’assolutismo (princeps legibus solutus) quanto alla condivisione della sovranità di fare il suo corso. 
Non è dunque la crisi del modello medievale di autorità presa come puro distillato storico a poter spiegare le cose per come esse sono effettivamente andate; ma la considerazione delle attitudini assolutistiche della monarchia del patrimonium principis per come esse si attuarono nell’età moderna e per come furono allora contrastate dalle nuove classi emergenti. La storia costituzionale moderna è dunque una storia di conflitti lunga e sofferta, forse interminabile, ed in ciò la divisione dei poteri si mostra principio tanto oppositivo quanto organicistico (né Bodin né Hobbes - vien fatto di sospettare - dissero tutto dello Stato moderno). Sembra che detto principio abbia una valenza conciliativa e di stabilizzazione politica ma solo nel breve periodo ed inoltre, come dimostra nella nostra esperienza costituzionale la perpetuazione dei poteri giurisdizionali nel Senato sabaudo, quella storia, come era iniziata nel cinquecento, così non sarebbe finita con la crisi della modernità.
Ciò che ora può sorprendere è proprio questo: che nel conflitto per il giusto patto costituzionale, trascorsi i secoli, non sono andati persi alcuni tratti caratteristici di partenza, pur ritenuti superabili o superati, per cui il ministro “postmoderno” può regredire, sino a identificarvisi, a ministro del re; il capo di uno Stato repubblicano al rango di monarca costituzionale, ecc. E in effetti è difficile dire oggi che vi sia in materia soluzione progressiva od ottimale, o che possa imporsi una volta per tutte una formula tecnicamente perfetta.
I concetti di Halifax conservano tuttora il loro valore e la regola che sembra destinata a prevalere è quella del “miglior” patto possibile, ovvero della ricerca di equilibri nell’ambito di rapporti di forza. Così, pur perdurando il mito antichissimo della Legge, i provvedimenti particolari e concreti dell’esecutivo sono rimasti sempre in radice quelli del re e del suo Consiglio, in buona misura inattaccabili, perché qui è il punto di forza o di potere. Così risulta essere inesauribile il conflitto tra esecutivo e legislativo, o tra esecutivo e giudiziario, e ciò in modo strutturale, ovvero proprio quando si abbia giuridicamente “intromissione funzionale” (Mortati) o conflitto di attribuzioni. I poteri dunque - un po’ come accadeva a Chiesa e Stato nel pensiero di Croce - sono categorie, perennemente in lotta.
Elevabile a sua volta a categoria trascendentale è il principio stesso di divisione, e lo è proprio perché non riducibile a puro progetto di pace. Come è ingenuo ritenere giusto ciò che è prodotto “naturalmente” dalla evoluzione storica, così si può giungere a considerare come lo Stato moderno, unitamente al costituzionalismo quale insieme di idee e mezzi risolutivi di problemi legati all’origine, abbia conservati in sé, con il principio della divisione dei poteri, quei problemi, quasi fossero germi patogeni, laddove la guarigione, quasi per un tacito volere della storia, non è mai assicurata. Teorie come quella del “contratto sociale” esprimono per lo più impossibilità, disagio o inquietudine; l’esigenza del patto costituzionale implica quella di sempre nuovi patti; il potere costituente, nascosto nella costituzione materiale e dunque lontano dalla forma, lo è quale messaggio contenuto in una inscriptio
A questo punto allo storico delle istituzioni non resta che considerare come la garanzia - cui il principio di divisione è riconducibile - sia nel fatto ancor prima che nel diritto, ovvero nella spinta costituente delle classi emergenti (gli inossidabili citoyens) e nella formazione di sempre nuovi interessi e corporazioni attorno a nuove forme di proprietà e di mercato. Il motore è nel fatto che sempre vi è chi vuole e/o può farsi rappresentare, anche in un clima come l’attuale in cui fa riflettere il dato che la crisi del principio classico di rappresentanza abbia già avute chiare enunciazioni.


(rielaborazione di quanto già pubblicato in D&G, a. 2002)

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