lunedì 12 agosto 2013

Eutanasia politica, eutanasia “negoziale”




Il nazional-socialismo, come ostentava il suo paganesimo, così ammetteva, facendone un principio - ma questo non era parte delle ostentazioni -, che i vecchi, gl’invalidi, i malati in fase terminale e i criminali, che fossero ritenuti “di peso” alla società, potessero essere caricati su furgoni, trasportati in luoghi ignoti e lì uccisi e cremati - salvo poi darne notizia, ma come di una improvvisa inattesa morte, ai congiunti, mettendo a loro disposizione le ceneri del defunto.
Così, prima dei campi di sterminio, e spiegandone in parte il senso, fra il 1940 ed il 1941 furono eliminate in Germania più di settantamila persone e si dice che Hitler, di fronte alle crescenti proteste dei cittadini tedeschi, presso i quali le notizie erano trapelate, avrebbe ordinato di sospendere quella pratica atroce; ma avrebbe ordinato di farlo - appunto - solo apparentemente.
Quella pratica, fra l’altro, per come essa è andata prendendo piede, si ricollega all’uso della camera a gas, strumento non dispendioso, a proposito del quale si è accesa la rivalità, fra Germania nazista e Russia staliniana (qui saremmo nel 1937), su quale delle due potenze avesse per prima adottato in chiave di eutanasia quella soluzione. Ma anche la Cina “comunista” - va aggiunto, secondo certe testimonianze - con i suoi furgoni della morte che attendono all’uscita del tribunale il condannato a pene gravi per poi eliminarlo, sembra condividere un po’ lo stesso principio, per cui se il mantenimento del reo costa troppo, è ammissibile che egli sia subito soppresso.
Inizialmente, ad imitazione dell’antico costume di Sparta, l’eutanasia riguardava i soli neonati; in séguito essa si sarebbe estesa agli adulti, laddove prima avrebbe interessato solo gli ammalati senza speranza, poi gli inabili al lavoro, quindi chiunque si fosse comunque deciso che doveva essere soppresso.
Il termine “eutanasia”, con riferimento a questa tristissima storia, dice della presumibile incoscienza del morituro nei momenti che precedono la morte, e della liberazione - a lui imposta - da una vita di sofferenze, e qui è possibile cogliere l’analogia con il condannato alla pena capitale narrato da Foucault, il quale durante l’inumana esecuzione, dilaniato nelle carni, invocava unitamente al perdono, la morte come liberazione dagli atroci supplizi cui era sottoposto. Per dire in generale che la distanza, rispetto alla pena capitale, laddove è umano che prima della esecuzione il condannato sia drogato, è davvero minima, fermo restando che un male irreversibile o una grave invalidità mai possono equivalere - mettiamo - a un delitto contro la pubblica economia.
Si può parlare dunque, pensando le tante atrocità commesse dall’autorità nei confronti e dei più deboli e sfortunati, dei diversi e degli stessi criminali, di eutanasia politica; ma vi è, come è noto, un’altra forma di eutanasia, che potremmo definire negoziale, e cioè legata alla libera volontà del soggetto, alla “libera” disposizione da parte di costui della propria vita.
Fu Luis Kutner, nel 1967, a coniare l’espressione living will, che a noi giunge tematicamente come testamento biologico: chiunque, che sia nella condizione di disporre per testamento, ma ora di sé come dei suoi beni, in previsione di una evoluzione della sua malattia, o prevenendo una eventuale patologia, che gli possano togliere quella capacità, ha il diritto di statuire sulla propria vita, rectius sul proprio corpo, decidendo ora per allora.
L’eutanasia insomma, ben remota in questo dalla strada dell’omicidio di Stato, intraprende quella  dell’autodeterminazione del paziente o del malato, e tanto è sospettabile data la questione che l’ideazione non sia perfettamente nuova, quanto è ragionevole ritenere che quella parola, da sempre polisensa, abbia attinto un significato individualistico in linea con il principio negoziale, o della volontà, che caratterizza il diritto civile in quanto tale.
Che i nemici dell’eutanasia, spesso vestendo abiti da Crociati, ne combattano sia la forma politica sia - ed in modo più pronunciato - quella negoziale, è un dato evidente e forse dovrebbe sorprendere il fatto che esse, pur distanti e quasi antitetiche, possano essere poste su di un piano di parità. La vita sembra essere un bene da difendere ad ogni costo; la vita trascende la vita; e la difesa della persona fisica poggia sul principio della superiorità di essa rispetto agli stati e allo stesso diritto positivo. Ma difendere la vita ad ogni costo significa contrapporla, sovrapporla a qualsiasi altra cosa, o bene, o non?
E a questo punto, che il principio proclamato anche dalla migliore cultura cattolica in base all’accusa di “ipertrofizzazione della autonomia privata” (De Bertolis, Elementi di antropologia giuridica, p. 57), risulti essere troppo astratto è dimostrato dalla contrarietà ai fondamenti del diritto civile.
Ma il problema - va soggiunto - sussiste oggettivamente, al di là delle opinioni e degli schieramenti. Nell’un caso, con l’eutanasia politica, il diritto è posto come ius vitae ac necis, ovvero s’identifica con la negazione (necatio) del soggetto giuridico; nell’altro, nell’eutanasia negoziale, il ius civile sembra invero toccare il suo confine giuridico per così dire naturale o universalmente dato, ovvero giungere a quel punto nel quale i rapporti sembrano rovesciarsi: non già il diritto sarebbe messo a disposizione dell’uomo ma l’uomo sarebbe chiamato a riconoscere in modo estremo, ponendosi quasi nel nulla, una qualche libertà-e-sovranità del diritto, sia pure al di fuori e contro qualsiasi fumus di Stato etico; non già solo il diritto alla vita ma anche il diritto alla morte, che possa essere ma allo stesso tempo non possa mai esserlo perfettamente, a quello equiparato. Laddove il limite alla libertà ed autonomia negoziale è da sempre insito, come norma penale, negli ordinamenti positivi.
E a questo punto gli aspetti della questione sono due: da una parte il diritto si specchia nella vita, considera l’essere in vita, il corpo finché è vivente, come risorsa, presupposto, bene primario da collegare agli altri beni materiali, secondo quanto è provato fra l’altro dalla successione testamentaria, o dalla donazione degli organi, dal dover guardare oltre, con continuità; dall’altra - comunque sia - il diritto (per ciò, che esso non è morale, non è religione, non è arte, ecc.; proprio perché assimilabile, come voleva Croce, alla categoria della prassi), non può decidere per tutto l’uomo.
E in questi aspetti, che restano comunque problematici, s’insinuano, accrescendone la complessità, le diverse modalità della coscienza morale: se da una parte si pensa il rapporto fra diritto e uomo in modo terreno, dall’altra inevitabilmente la cultura “laica” viene a confrontarsi con quella religiosa e confessionale, in una parola per noi cristiana; ma anche, per quanto detto sulla continuità e vitalità che si specchiano nell’ordinamento, con chiare difficoltà di separazione.
Il punctum saliens, a voler semplificare le cose, è più o meno il seguente: come e perché derubricare penalmente il suicidio, scriminarlo, traducendolo almeno parzialmente in diritto alla morte, e se secondo il primo aspetto l’eutanasia può essere compresa e tollerata, posta sul piano della necessità, mai però elevata a somma libertà, per il secondo essa resta suicidio, oppure “omicidio del consenziente” - ed è qui, in questa traduzione del suicidio in omicidio, che l’ipotesi suicidio si riversa necessariamente. Rivelandosi in entrambi i casi una certa quale comprensibile reattività degli ordinamenti.
Sennonché traspare anche, nel secondo caso, come il forzare la contrapposizione del diritto alla vita a quello alla morte tradisce il senso umano dello stesso diritto alla vita, facendolo scivolare a causa dell’enfasi che contraddistingue ogni crociata, come si diceva sul puro piano biologico o di una trascendenza del trascendentale che va discussa,  prima ancora che umano.
E così ad esempio il puro stato vegetativo irreversibile del malato viene scambiato con una condizione umana di normalità. Divenendo piuttosto l’uomo della vita, per quanto ne dicono i nemici più ostinati del diritto alla morte, macchina o pianta, che non persona, fatta a immagine e somiglianza di Dio. O comunque sia, emergendo la questione della attribuzione di priorità a questo o quel valore come una questione non risolvibile, se non saltando sul piano delle fede.
La questione eutanasia dunque, come slitta dalla forma omicidio politico alla libera autodeterminazione del soggetto, così da questa scivola nella fattispecie omicidio, per la difficoltà insita nella fattispecie suicidio, la quale appare a questo punto come il vero nocciolo della questione; laddove l’eutanasia negoziale venendo a toccare sia pure in altro modo la realtà già devastata da quella politica, sembra sia venuta a dissotterrare qualche cosa, che ad essa preesisteva, incontrando il medesimo limite di spiegabilità.
Poco vi è in ciò di pretestuoso; ma è di buona evidenza - credo - che l’ostilità irriducibile al diritto alla morte evoca in qualche modo, per doverne osteggiare la dimensione culturale e dunque l’ammissibilità, la libertà dei pagani di darsi la morte, come gesto supremo, secondo gl’insegnamenti derivanti ad esempio dalla vita e morte di Seneca e in generale dall’abitudine degli antichi Romani di decidere moralmente di svenarsi, immergersi in un bagno caldo, attendendo serenamente il trapasso. Ed anche: decidere di uccidersi per evitare un disonore, mettiamo per non cadere prigioniero dei nemici; sacrificarsi eroicamente, per dare l’esempio; oppure per non tradire, essendo capi, i propri seguaci; e comunque per il bene comune.
Il cristianesimo sappiamo che avrebbe negato, con la sua forza “rivoluzionaria”, il diritto morale di fare ciò, confutando virtù ed eroismo; rovesciando i valori: nessuno può privarsi di un bene che Dio gli ha dato e che Dio soltanto gli può togliere, il che dev’essere vero e sostenibile, al di sopra delle leggi degli uomini.
Il senso contrappositivo è quello che avrebbe il suicidio di Lucrezio Caro, nella testimonianza di San Girolamo, qualora la notizia non fosse vera. Laddove colpisce dunque il contrasto: ciò che presso gli Antichi poteva essere interpretato come virtù, poi sarebbe stato tradotto in peccato.
Nelle antiche culture - tribali, pagane; ma anche nelle filosofie non prive di raffinatezza - si legge qui e là, la vita non aveva il valore che essa ora ha. E questo è certo. Ma in che senso? Il fatto è che sempre meno la si accetta, sempre meno ci si adatta alla morte; è che sempre più ossessivamente (lo dimostrano i film “horror”, o pratiche quali l’ibernazione) si vuole una vita oltre la morte; laddove è stato il materialismo indotto dai progressi scientifici e dal mito della ricchezza, che comunque producono coscienza laica e non una cultura spiritualistica, a impiantare il mito della preservazione della vita a tutti i costi, confondendo in modo incolto fra la vita e il rinvio della morte. Il che fa presumere per riflesso che la letteratura del tardo medioevo e della prima età moderna, gli scritti di quei tempi, intitolati alla preparatio mortis, presupponessero  l’accettazione della morte, non il suo rifiuto.
Ma anche qui bisogna essere chiari: chi dispone della propria vita, per dire della propria morte, non lo fa perché non ama la vita, e chi rifiuta la morte lo fa perché attestato su una coscienza e volontà astratte, che non ammettono eccezioni, che tengono lontana da sé, o rimuovono, la problematica della morte, e che alla fine non possono non rimettersi alla pura biologia, con la sua evidenza cieca o con la sua oscurità esistenziale.  E a questo bisogna aggiungere - a voler contrastare i nemici del diritto alla morte - che non si può vivere scientemente come si fosse immortalati in un cartone animato o in una emulazione digitale. Ed anche che né la libertà può essere scissa dalla necessità, altrimenti non sarebbe pensabile né la stessa libertà né diritto civile; né la responsabilità è tale se essa non viene esercitata mediante scelte difficili e dolorose.
Ma la storia rifiutata o rimossa non si ferma al suicidio presso i Romani e alla possibilità di darsi nell’antichità in generale una morte virtuosa o eroica: la parola eutanasia ha radici greche e appartiene già a quell’antica cultura. Ma vi è un aspetto che non dovrebbe sorprendere, in detta cultura, ed è la distinzione tra morte ed eutanasia. Due cose dunque e non una sola. Laddove gli dèi presentano debolezze umane e vulnerabilità, lì la morte è un che di naturale, cui cioè bisogna rassegnarsi; essa non ha valore in sé come momento, e lì il “dolce morire” si rivela rispetto ad essa concetto autonomo. E questo aiuta a capire, anche i tempi che viviamo: perché emergono così con chiarezza una interiorità, per cui la morte è accettata ed è carica di valori ma con riferimento alla vita, ed una esteriorità, per cui essa è un fatto biologico certo. Ed anche lì, ad un certo punto, questi due aspetti sono venuti in contrasto.
Vi è un significato, attribuito alla filosofia di Platone, per cui l’eutanasia consiste nel morire dopo avere ben vissuto. Laddove cioè non si ha il riferimento immediato di quel “eu”, “bene”, alla sofferenza del corpo o alla paura e coscienza del morire, e laddove invece è il bilancio della vita, e dunque una certa quale coerenza morale finale rispetto ad essa, ciò che maggiormente conta.
Ma perché, bisogna domandarsi, questo guardare indietro, alla vita trascorsa per come moralmente - e sia pure materialmente - essa è stata vissuta, oltre che perché in non-contraddizione con essa? Forse la spiegazione è da cercare in un altro aspetto della filosofia platonica, quello secondo cui si può dimostrare che l’anima non può morire.
L’insegnamento, appreso a quanto si dice dal filosofo greco nel suo viaggio in Egitto, è tale, se si può sì stabilire un legame di coerenza o ragionevolezza fra il valore della morte quale giudizio morale finale sulla propria vita e l’immortalità; ma laddove l’immortalità (e i Latini avrebbero parlato di animus, il che non significa “anima”) sembra essere un corollario, o una conseguenza, di una esistenza condotta virtuosamente. E a corroborare siffatta lettura può valere l’importanza - altro aspetto saliente della filosofia di Platone - della teoria della memoria, che mira alla continuità oltre la vita individuale, nella sua forte analogia con la metempsicosi.
Apparentemente questo discorso su Platone e i suoi insegnamenti, è avulso dal discorso del suicidio dei pagani; ma ciò è vero appunto solo nell’apparenza, perché se può stabilirsi il legame, allora, posti i termini della questione su un piano di filosofia morale, è su quel piano che possono essere ricercate le ragioni di ogni opposizione al diritto alla morte. 
Dunque anche forse nessuna sorpresa, con riferimento alle attuali polemiche, così tendenti alla semplificazione, se il cristianesimo ammette anche l’immortalità della carne, anzi la sua finale resurrezione, nella biblica valle di Giosafat. Il che non può non lasciare perplessi.


Rielaborazione di uno scritto del 2010

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