sabato 17 agosto 2013

Il teorema del giudice che può sbagliare ... sempre (S.B. - ma non solo lui - e il potere giudiziario)




Che un giudice in quanto giudice sia sempre reprensibile, al cospetto di una ipotetica giustizia divina, o che egli come uomo abbia le sue debolezze, sono elementi del senso comune che dicono della plausibilità così in modo estremo delle ordalie, come in genere del sentimento religioso, o della morale personale. E se dicono anche della ineludibilità del male, non per questo è vero che qualsiasi soluzione è migliore della ingiustizia. 
Per quanto attiene al munus giudiziale, siamo nel campo della norma, che va applicata; per il resto siamo nel campo della psicologia; che è fragile, è coltivazione della insicurezza e della cecità e si presta a usi strumentali, sia nella vita quotidiana, sia nei delitti, sia nella politica intesa come arte della conquista e conservazione del potere. E certo effetto sembra moltiplicarsi in epoca mediatica, ché i media si prestano alle facili influenze sull’opinione e alle falsificazioni. 
Che peraltro la psicologia sia oggetto della osservazione scientifica, ciò significa che lo è qualsiasi motivazione interiore, di qualsiasi condotta soggettiva, sino quella criminale; e se le azioni più singolari sono psicologia, allora la ragione, la conoscenza e l’onesto volere - ciò che serve per sconfiggere il male - stanno da un’altra parte. 
Per nostra esperienza da qualche tempo sembra emergere da certa psicologia popolare e non, nelle sue valenze politiche e propagandistiche, una sorta di teorema: che se un giudice può anche sbagliare, allora egli può sbagliare sempre; che ciò che potrebbe anche avvenire è come se potesse (ma dovesse quasi) avvenire sempre. Laddove l’inganno retorico e la confusione risultano subito evidenti. 

Forse però la questione va un po' trasposta e potrebbe essere espressa per assurdo, chiedendosi ad esempio: è possibile giudicare in quello stesso modo ma a prescindere da quel giudice che si sospetta (già: forse invece se ne ha certezza, a prescindere) abbia giudicato male o in modo prevenuto? 
Dico questo non per avere una risposta secca e immediata ma perché al di là dei giudici esistono norme oggettive, consuetudini di giudizio, "nomofilachia", ecc. Altrimenti, perché scrivere le leggi, codificare e coltivare nella giurisprudenza un sistema del precedente? Il rischio dunque, considerando quel teorema, è che la psicologia sia educata alla ostilità irrisolta e irriducibile verso il giudice ma in questo verso le corti e le istituzioni e che essa, orientata alla non accettazione, sino a muovere contro l’evidenza (altro teorema, che direi "della fabbricazione delle prove": una prova falsificata vale una prova vera), sia condotta fuori di ogni sistema giuridicamente dato o consolidato. 
Ciò mi fa pensare, ma beninteso mutatis mutandis e sotto un profilo sociologico o tecnico, a qualcosa come il nostro brigantaggio postrisorgimentale, cioè a un irriducibile sentimento di ostilità nei confronti di uno Stato (che magari non è migliore moralmente dei suoi nemici) la cui autorità non viene riconosciuta ed è invece combattuta, in nome della “libertà” (già: se non con le armi, come?). 
Al che si potrebbe aggiungere, con senso di sorpresa: davvero strano che nessuno fra coloro che vogliano e sappiano gestire certa psicologia antigiudiziaria/antigiuridica della diffidenza abbia mai pensato a promuovere o proporre leggi istitutive di tribunali “delle libertà”, che giudichino extra ordinem, o extra constitutionem. Poiché oggi se lo Stato è debole, allora è possibile anche vivere fuori della Costituzione; il che a un'attenta analisi risulta più che verosimile. 
Ora, se è nella natura delle cose che un popolo abbia bisogno di un ordine e di un ordinamento giuridici, di un diritto positivo o anche (nella lezione hobbesiana) di uno Stato - e meglio sarebbe dire: di una forma e organizzazione politica stabili -, ciò può implicare (altrimenti si avrebbero solo fanatismo e tumulto) e che la giustizia divina può essere contrapposta a quella terrena ma sul piano religioso e/o morale individuale (e certo in altri tempi e territori non era/è così) e che tanto meno può essere spacciata per divina (come troppo spesso è avvenuto nella storia) qualsiasi giustizia che sia invece indicibilmente umana, che si possa ritenere cioè tutt’altro che superiore. 
La questione, quando si inscenano continuamente proteste davanti ai tribunali, è il rapporto fra il cittadino e lo Stato (aggiungerei: di diritto) che però si nasconde dietro quella dei giudici che si vogliano “politicizzati” o “ideologizzati”. E ciò che può ritenersi rischioso per le sorti dello Stato (le dittature lo indeboliscono, le democratizzazioni soltanto possono rafforzarlo) è che si possa trattare una tale questione come formale e di elegante confronto democratico. 
La questione, anche, è lo Stato e in questo che il diritto addirittura si possa vendere e comprare, come dimostra il cosiddetto “shopping giuridico”, per agevolare i profitti delle multinazionali. 
Se dunque si crede che il giudice possa sbagliare sempre, allora (mi ricollego alla similitudine del brigantaggio) che dire delle istituzioni, a partire preferibilmente dagli organi giurisdizionali? 
In questo, inoltre, un problema emerso in questi giorni è che presso certa psicologia popolare e non la Corte di cassazione equivalga, in quanto a giudizio, a una corte di appello o a un tribunale; che il suo compito sia quello di dichiarare un uomo colpevole o innocente, alla luce dei fatti. Essendo invece che essa, pur organo di giudizio, non per questo è un organo propriamente giurisdizionale poiché il suo compito (e si veda, per questo, la nostra Costituzione) è quello, legato alla origine - siamo alla rivoluzione francese -, di garantire il primato della legge sul giudizio e - così era allora - combattere il potere delle corti. Essendo per la cronaca che il Tribunal de cassation giudicò, nei suoi primi tempi, senza interpretare e che i suoi membri si preferì chiamarli “ispettori di giustizia” anziché giudici.

Dunque per retaggio storico quando si ha un verdetto di Cassazione (che è detta "Suprema Corte") è di legalità formale e meglio di legittimità e legalità che si tratta, laddove si esamina la sentenza (per solito di appello) alla luce della legge, non già di una pronuncia come suole dirsi nel merito, che compete a tribunali e corti e nella quale invece si ha il vero giudizio e cioè applicazione della norma di legge al caso concreto. 
È potuto accadere così in questi giorni che il presidente di una sua sezione penale è venuto alla ribalta per avere pronunciato verdetto di condanna nei confronti di un celebre leader politico, che diremo "B.", verdetto che il “popolo” di quel leader, i suoi "fedelissimi", hanno subito considerato ingiusto e persecutorio, giungendo a manifestare per strada e mediaticamente il loro dissenso, sollevando eccezioni veementi all'indirizzo di quel giudice ma di tutti i giudici "faziosi" come lui (teoria discutibile di «certe correnti della magistratura»). 
Ma costoro - vien fatto subito di pensare - avrebbero dovuto scatenare l'inferno a séguito del verdetto di appello, laddove si era consumato il vero giudizio; e confondere il merito con la legittimità è impulsivo anche e soprattutto per chi debba in qualche modo saperne le differenze; e ciò è freudiano, è un lapsus come suole dirsi, laddove si voglia far credere che il giudice, ma quello che ha giudicato per averlo fatto in un certo modo come qualsiasi altro possa farlo allo stesso modo, abbia agito e pronunciato per principio, per antipatia personale o per avversione ideologica e cioè a prescindere dall’organo, dalla legge, dalla procedura. Comunque sia, pronunciando contro gli "amici" (e anche il cosiddetto "popolo votante") dell'imputato. 
Fiat iustitia, pereat mundus! Dunque, quell'uomo è forse l'unto del Signore, un monarca assoluto, al di sopra della legge, visto che la procedura e le differenze sono scritte nelle leggi? Forse si fa sempre in tempo a vivere personalmente i vecchi tempi mai vissuti e in questo il vecchio adagio, attribuito a Ferdinando I d’Asburgo, il che equivale alla fine a dare alle fiamme le prove, a bruciare i libri proibiti. E perché il motto in questo caso è come un sasso, scagliato contro la giustizia amministrata e lo Stato. 

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