martedì 3 settembre 2013

Della personalità "criminale"




Leggevo, tempo fa, un breve contributo - a cura dei Quaderni della rassegna dell’ordine degli avvocati di Napoli - sulla personalità criminale.
Il mio approccio alla lettura e alla questione era determinato da una forte curiosità e meglio da una curiosità “di sempre”: capire una volta per tutte se detta “personalità” è l’eccezione che conferma la regola o non piuttosto un che di naturale; se essa fa parte dell’errore o se essa è umana come lo sono il parlare, l’avere due orecchie e un naso, il nutrirsi, ecc. Perché la personalità in tal senso non è certo compiuta, rotonda, evidente; essa vieppiù è qualcosa che sorprende, ché si annida nell’essere umano determinandolo in certi momenti o condizioni, che poi, non senza rendere onore al positivismo, si possano dire specifici. E questo per non chiedermi, ma essendo comunque la cosa per così dire velata, che cosa pensa il criminale di sé stesso, prima ancora che della sua condotta. Egli sente di agire per il bene o per il male?
La mia curiosità peraltro è andata in parte delusa, in assenza di risposte esatte o definitive alla questione; ma ne è venuta comunque una esperienza di lettura stimolante, per certi spunti di riflessione che ne sono emersi.
Il punto di vista che si chiedeva alla parte di me non-giurista, non-criminologo, era nel non voler essere determinato da due poli pregiudiziali, entrambi aventi patria nella sensibilità comune: né da quello che risolve ogni questione con la facile severità, spesso retorica, rassicurante, delle condotte reattive cosiddette “maschie”, o “muscolari”, della cosiddetta Zero Tolerance e della invocazione della pena “esemplare”; né da quello della pretestuosità “ideologica” e meglio politica della suddetta personalità, stile definito (nel contributo in questione) frettolosamente - credo - come congeniale al “Sessantotto” (quasi W. Reich, con la sua teoria psicoanalitica della trasmissione della condotta criminale, fosse poco più che un re degli hot dogs) ma alla quale va riconosciuta comunque la veridicità sociologica della possibile identificazione del criminale o del terrorista con il povero e l’oppresso.
Cesare Lombroso
Se ho ben compreso, non solo è difficile stabilire una volta per tutte sino a che punto la personalità criminale sia eguale a sé stessa, inscritta nella natura dell’uomo prima ancora che solo di certi uomini (il vecchio e mai troppo invecchiato - nella lode o nel vituperio - discorso lombrosiano); ma è difficile definire in modo inattaccabile il concetto di personalità. Innanzitutto: è interiorità o esteriorità? 
A questo riguardo, il più classico dei contributi può essere ritenuto pur sempre quello freudiano e cioè la tripartizione della natura umana in “ego”, “super-ego”, “es” o “id”, che gli Autori riprendono unitamente ad altri contributi storici, ma invitando, almeno me per quello che è il mio modo di sentire e pensare, a una considerazione estremamente pessimistica. Se lo “es” è quel territorio della libido che versa in una condizione tale per cui l’“ego” non esiste se non governato dal “super-ego”, e cioè dal modello effettivamente agente ed inconfessato, allora la personalità è davvero la pura maschera e l’uomo è un contenitore animato di risorse (per così dire) mai determinate dall’individuo.
Mi sono detto quindi: allora l’origine latina, teatrale (persona=maschera) regge, è veritiera; eppoi: la personalità criminale non esiste come pura interiorità ma nella misura in cui non esiste personalità (anche freudianamente parlando) se non in dipendenza di altro e cioè influssi esterni, sociali, di ambiente, di cibo e direi anche: d’informazione, spettacolari, o genitoriali, ecc.; il che darebbe ragione al principio rousseauiano, secondo cui l’uomo per natura è buono ed è la società che lo rende cattivo, l’uomo nasce libero ma dovunque noi lo vediamo in catene, aspetto questo secondo, anche più stimolante. O alla teoria di Montesquieu sull’influsso della posizione geografica e dei climi sulle culture umane. Oppure per relationem a quei pensatori (Wittgenstein, Ryle, ecc.) che per così dire ritraducono la mente ovvero l’interiorità - definizioni solo connaturate con il linguaggio - in comportamento. E getterebbe una ombra di dubbio sulla credibilità di ogni teoria della innocenza della persona in quanto tale. 
Il problema della personalità, assecondando certe ricostruzioni - e questo soltanto mi ha spinto a pensare in termini di definizione ultima -, sarebbe nell’ambiente, in un che di esteriore e non d’interiore, da ricollegare al comportamento; ma aggiungerei: ambiente in ogni senso: familiare, di giuochi, umano, politico, generalmente fattuale, economicamente dato, sanitariamente inteso, ecc., a voler rispettare la sua complessità. Ma ciò a sua volta richiede una dimostrazione quasi impossibile sui presupposti, non però sul senso della cosa, e cioè: la criminalità si combatte comunque “migliorando” l’ambiente e cioè ciò che è esterno, che è ogni qualsiasi condizione esistenziale. E tutto questo se è vero che ciò che è dentro è perché è fuori, nel linguaggio espresso e nelle azioni. Ma, considerando assai seriamente come l’ambiente e l’esteriorità quanto meno da un secolo a questa parte abbiano preso per così dire “il largo”, è sempre e solo così? Tutto si può risolvere in questa necessaria soluzione? O vi è dell’altro, vi è la pura e semplice follia, la genesi comunque interiore, l’indemoniamento, che repentinamente esplode, il corpo sano che sorprendentemente è invaso, posseduto, dallo spirito maligno? Che anche le libertà borghesi e la società dei diritti purtroppo possono alimentare?
Sigmund Freud
Tutto - credo - deve in qualche misura essere pensato per dire mai dimenticato, mai rimosso, anche ciò che l’esorcismo può dimostrare, se si vuole dare prova d’intelligenza, o di volontà di capire. E il problema potrebbe essere a questo punto addirittura il Male, come entità, ma entità dominante, non d’eccezione; presenza che ti prende, e piace, attrae, ammalia; ma in questo buia, oscura. E parimenti si potrebbe tornare su Rousseau con le sue scritture alle volte inquietanti, e pensare al fatto che l’uomo è sì buono per sua natura ma tanto quanto nasce libero. Affermazione, io credo, che a questo punto può dare più di qualche sospetto: libero sì; ma di fare che cosa, (magari) pur di rompere i vincoli, in generale? E potrebbe addirittura non doversi escludere, come alcuni da sempre propugnano, che nella stessa libertà si abbia il focolaio delle condotte criminali. Pensiero questo che se fosse conclusivo allora allontanerebbe dalla natura stessa del problema.
Ma quale - mi domando - la motivazione reale dello scritto in esame? Almeno per ciò che ne ho saputo trarre? Ed ecco forse una indicazione alquanto concreta: ne emerge il valore della questione giovanile, più di quanto la stessa testualità giuridico-letteraria non dica. Perché se si argomenta di norma penale e di crimine lo si fa pensando il futuro, per quello che ne emerge già nel presente (il futuro è la realtà). E il futuro è ciò che le nuove generazioni un po’ sono e un po’ immaginano come tale.
L’impressione allora è la seguente: se non si comprende la questione giovanile non si comprende nemmeno la questione criminale; bisognerebbe abbandonare il punto di vista adulto e un po’ sempre patriarcale, facilmente limitativo. Forse - mi sono detto a un certo punto - quel contributo sulla personalità criminale è stato scritto perché è la questione minorile o ciò che parlandone inquieta al di là dello specifico, che spinge e cioè la questione del modo come si forma la personalità e in essa la parte criminale, in un mondo che incessantemente e caoticamente cambia ambiente e testa. 
Ciò significa che se prima il delitto commesso dall’adulto richiedeva un certo tipo di approccio da parte dell’ordinamento giuridico, con il prendere piede dei delitti e reati commessi dai minori si richiede sì repressione ma prima ancora lo studio: una indagine, molteplici indagini, sulla formazione della personalità del minore; e non è soltanto questione di alleggerimento delle misure cautelari (e pure vi è a questo proposito nello scritto un elenco interessantissimo di misure cautelari, di provvedimenti che si possono assumere), con il che si parte sempre dal diritto positivo; ma è anche che - come dire? - bisognerebbe cambiare tutta l’ideologia complessiva dell’indagine penale o criminologica da parte dell’ordinamento. E questo a fronte - mettiamo - del fatto che certe condotte criminali oggi siano tanto diffuse e organiche negli affari, negli scambi, quanto confondibili con azioni normali, quanto comunemente ammesse. 
Secondo un diritto e filosofia penali non più ancorati a una ideologia adulta (e anche forse “al maschile”), i minori, dal punto di vista dello studio e dell’osservazione criminologica, cessano di essere l’eccezione, per rivelarsi la regola. Questo è interessante: lo scritto parla della questione minorile quasi fosse un’aggiunta o un’appendice della questione criminale in sé; ma in realtà si deve supporre che sia la questione minorile a motivare e non poco tutto lo scritto. Ed è a questo riguardo che risulta essere di stimolo per la riflessione l’indagine sulle cause, avvolte per così dire nella esteriorità, nell’ambiente e nella sempre supponibile interiorità. Interiorità, direi, che se non è riducibile ad ambiente e condizioni economiche non è nemmeno riducibile per il medesimo principio a materia, ovverosia cervello, sistema nervoso, ecc. Ma che se va cercata anche nell’ambiente e nelle condizioni economiche di vita, allora va cercata anche nel cervello.
In tema di condizione economica e di vita e di lotta di classe oggettiva, quando si legge che la globalizzazione, dal punto di vista psicologico e delle possibilità nuove e di fatto, agevola la criminalità, si legga che c’è un modo di essere del capitalismo - che non so se per sua natura o per insufficienza degli strumenti diagnostici si mostra davvero proteiforme, per cui viene da domandarsi sino a dove si possa parlare propriamente di capitalismo - che sicuramente agevola la criminalità; quando si legge che il consumismo agevola la criminalità, si legga che c’è un modo di essere del capitalismo o della società cosiddetta post-industriale, o super-moderna, il quale agevola e porta alla superficie la criminalità. Viene addirittura il sospetto - che è più che un sospetto, se leggiamo il discorso rousseauiano sulla Origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini - che la criminalità nella economia abbia radici essenziali, esistenziali.
E la mente va subito alla codificazione e alla moderna certezza del diritto o sovranità della legge: i codici penali non erano attrezzati per diagnosticare, sotto il profilo della fattispecie determinata e della sanzione, sul capitalismo che non propriamente li conteneva ma che del successo delle borghesie nazionali e dei diritti avrebbe costituito lo sviluppo storicamente “necessario”.

Non si tratta dunque di criminalizzare i giovani, come non si tratta di criminalizzare il sociale, i poveri, o lo straniero; ma ciò che si richiede è tutt’altra cosa, e cioè ottenere la coscienza - il che non è una novità - così della trasformazione perenne della personalità come del carattere sempre necessariamente giovanile della personalità criminale. Come non è necessario essere poveri per commettere un omicidio, o un furto, anzi, così non è necessario essere adulti per farlo, se la criminalità in certo senso è sempre giovane, imprevedibile, in una società dei diritti e libertà selvaggi. Bisogna innanzitutto superare i tabù, o infrangerli, qualunque sia l'etichetta di origine delle idee-tabù, per avere speranza.
E può certo darsi il fatto che ciò che non avveniva nei tempi in cui i poveri non si vergognavano di esserlo (da noi era così prima degli anni novecentocinquanta) e ogni classe socio-economica sembrava chiamata essenzialmente ad interpretare vivendola la propria condizione e cultura, accada ora, essendo le condizioni psicologiche di massa continuamente in mutamento incontrollato, essendo cambiato molto il rapporto essenziale uomo-mezzo, soggetto-oggetto, uomo-cosa, laddove il bene materiale, l’oggetto, non è innocente ma entra nella personalità e implica nel silenzio della psiche lo scambio con la morte.
È come insomma se il diritto penale dovesse scrollarsi di dosso certo quale determinismo, fermandosi a ipotesi del passato quasi esse attestassero un’autorità divina e accostarsi ai meccanismi sociali e prima ancora antropologici della vita: come sono in certo senso i giovani e cioè l’uomo nuovo prima ancora che l’adulto il primo locus del crimine, non la sua fonte, essendo il giovane la società stessa che cambia testa e gambe e pancia, così è la normalità presunta da una cultura penale che muove da una psicologia adulta a nascondere la criminalità, come ampiamente provato dalla condotta del border-line, o dall’exploit di furia pluriomicida nella condotta della persona “per bene”, o dal veder soffrire l’altro soprattutto se inerme come fonte di piacere.
Questa legge per così dire è unitaria, non sono due leggi in una; nel senso che ancora molto si confonde, a quanto mi è dato comprendere, tra maggiore età, imputabilità e questione criminale.
È chiaro il limite interpretativo insito nel modello penale adulto, come non ci si può nascondere, per quanto riguarda la letteratura filosofica classica (e alludo a quella rousseauiana come fosse lo stesso che hobbesiana), che ci vuole un altro essere umano per parlare di crimine.
Ma anche qui, per dirla un po’ parodiando Carneade: dov’è e che cosa è l’essere umano? se il ragazzo sogna di uccidere il padre e lo fa con indifferenza, se la sorella quattordicenne uccide ferocemente il fratellino a coltellate per poi essere vista giocare sorridente con le amichette? Se un uomo uccide la compagna della vita e/o i figli e poi ci si suicida? Odio e amore e forse meglio neanche odio ma per assurdo amore assoluto, il che equivale così a fragilità come a potestà assoluta.
Non basta nemmeno dire che la normalità è la maschera. Meglio: anche se lo è, essa - ovvero le abitudini, il comportamento -, quando incorre nella diversità o nella stranezza (comportamenti ieri comunemente ritenuti assurdi che oggi sono comunemente accettati), è tollerata, come libertà del carattere. Dunque la spia c’è e la mia sociologia non si deve fermare a sé stessa.
Perché a quel punto è mostruoso ma ammissibile, realistico, che l’oltre-uomo nietzscheano tragga necessariamente dal delitto la prova della propria esistenza, oltre che la sua unica legge. È ammissibile, mutando la normalità, che il rimosso o l’inibito muti a sua volta, nel tempo e nel modo.

Diceva una donna di mezza età - credo croata - in una intervista televisiva, ricordando gli incredibili eccidi perpetrati nei territori della ex Jugoslavia: strano, per trent’anni non mi sono certo sentita odiata; non sono così scema…
E parimenti mi confidava un ebreo romano, reduce dal campo di sterminio di Birkenau: quello che non capirò mai è l’accanimento delle donne kapò soprattutto nei confronti dei bambini. I bambini - ora comprendo - e cioè il corpo del cambiamento, del progresso la cui innocenza come futuro può turbare. 
Che cosa pensare allora? Forse che la criminologia sia chiamata a teorizzare un tempo perenne di sempre possibili atti di guerra?



(articolo del 2009)

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