mercoledì 4 settembre 2013

Gente "del Sud"



L’anarchico Passannante, origine lucana, povero, che di mestiere a quel tempo faceva il cuoco, attentò appena ventinovenne - correva l’anno 1878 - alla incolumità del nuovo re d’Italia, Umberto I; a Napoli, aggredendo la carrozza su cui viaggiava il sovrano, con un coltello che forse era buono più per sbucciare le mele che per infliggere ferite mortali; ferendo in compenso il ministro Cairoli, venuto in soccorso del suo re.
Giovanni Passannante
Condannato in un primo momento alla pena capitale, a norma di codice penale, questa gli fu poi commutata, in séguito a un provvedimento di grazia, in lavori forzati a vita (una sottile cattiveria?). Così si tramanda che egli, «sepolto vivo in una cella […] posta sotto il livello del mare, davanti all’isola d’Elba […]. Legato a una pesante catena lunga pochi centimetri», venne lasciato «per decenni imputridire nei propri escrementi» (cfr. il sito http://www.biuso.eu). 
Successivamente, date le condizioni inumane cui era soggetto, per iniziativa dell’onorevole Bertani, radicale e della giornalista Mozzoni, assai attiva nella lotta per il riconoscimento dei diritti delle donne, gli fu riconosciuta l’infermità mentale ed egli fu trasferito nel manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, laddove sarebbe deceduto il 14 febbraio 1910.
Inoltre, anche sua madre, i fratelli e le sorelle furono reclusi in un manicomio; mentre al luogo di nascita, Salvia di Lucania, fu imposto, per volere dei regnanti, il nome di Savoia di Lucania
Un epilogo assai triste, indubbiamente, a coronamento di una esistenza che a noi pare egualmente triste, per non dire incredibile; cui l’oscuro ottocento italiano però avrebbe aggiunto altra oscurità e tristezza, in nome del progresso e della scienza positiva. Dopo la sua morte, infatti, il cadavere del giovane fu decapitato, il cranio aperto e il cervello asportato per essere immerso in una soluzione chimica ed essere conservato, prima nel manicomio di Montelupo, poi presso la Scuola superiore di polizia e infine, dal 1936, nel Museo criminologico del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, laddove sarebbe rimasto sino al maggio del 2007.
Una storia triste, come detto (alla quale è stato dedicato un film); ma di costume ancor prima che di criminalità vera. Che affonda le sue radici nel secolo diciannovesimo per giungere sino ai giorni nostri, a causa del macabro reperto offerto alla curiosità dei visitatori, quasi a suggerire che certe cose possono sempre accadere; ma perché - mi domando - una storia già triste lo sarebbe divenuta ancor di più?
Per giunta, la sventura che toccò al povero Passannante fu di morire nell’epoca del neo-positivismo,  segnatamente criminologico, segnatamente all’italiana. Accadde infatti, laddove la riconosciuta follia appariva il male minore, che essa si traducesse interpretativamente in un male peggiore. Il corpo dello sventurato incappò nelle attenzioni del prof. Cesare Lombroso, il quale volle imporre le sue autorevoli valutazioni, certificando - contrariamente alle prime perizie - così l’attitudine naturale del pover’uomo al crimine come la sua attitudine alla follia, stravolgendo in questo modo il senso delle cose.
Giovanni Passannante era uomo del Sud, povero, intelligente e curioso più che colto, almeno secondo certa documentazione pervenutaci; ma appunto anarchico e uomo del Sud. Certificare quindi con autorevolezza scientifica che l’uomo che aveva attentato alla incolumità del re era un meridionale e che presentava fisiognomicamente i tratti tipici e del criminale e/o del folle, equivaleva a postulare sia che la gente del Sud aveva la tendenza a delinquere sia che tale attitudine si combinava bene con il sovversivismo politico e meglio con l’anelito alla libertà: due identificazioni in una, non certo progressive tanto quanto dovrebbero esserlo le ambizioni delle scienze.
La vicenda s’inscrive, contribuendo alla sua caratterizzazione, nella più ampia storia del nostro postrisorgimento, del quale - ma è del risorgimento come tale che si parla - essa può valere ancora una volta a provare piuttosto il carattere oscuro e inquietante - ma la storia umana è molto questo, ancora oggi, anche presso di noi - che non la creduta luminosità. Una storia che lo è più di aggressività, alla Konrad Lorenz, e di colonialismo, che non di patriottismo. Già: homo sum, humani nihil a me alienum puto, come Terenzio insegna. 
È una storia inquietante e può e anzi deve essere accostata a quella del cosiddetto “brigantaggio” meridionale, fenomeno non da poco, contro cui l’esercito piemontese fu impiegato massicciamente; definito sbrigativamente come “piaga”, o quella stessa in cui si racconta del modo come si operò per l’unificazione nazionale, sacrificando il Sud con la sua cultura al Nord conquistatore, foriero di un presunto messaggio d’illuminazione quanto affetto da un grande passivo di bilancio.
In quella storia qualsiasi mezzo, anche impietoso, sarebbe stato consentito per identificare l’antropologia sudista con la criminalità e con la sovversione politica, e lo spirito è quello della documentazione fotografica giunta a noi laddove si vedono le teste mozzate di presunti briganti, o di contadini fucilati solo perché sospettati di brigantaggio o di complicità con esso, racchiuse in gabbiette di legno ed esibite come monito ai contadini, secondo una macabra usanza medievale, affinché chiunque fosse dissuaso da intenti di ribellione ovvero, per l’equivalenza, da gesti criminali. 


(rielaborazione di quanto già pubblicato in Europa Giovani, 2010)

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