sabato 18 gennaio 2014

Teorìa e prassi del bipolarismo




Che senso ha parlare di bipolarismo e non - mettiamo - di «tripolarismo», o di «pluripolarismo»? Con quanta serietà lo si può fare, in presenza di tre e più polarità politiche, segnatamente in presenza di formazioni e associazioni volte non già all'esser corte ma decisamente al dialogo con i cittadini, ciò appunto che una struttura e filosofia bipolare verrebbe a escludere? 
Magia forse del numero Due (le bisacce di Zeus, il Bene e il Male, il principio maschile e quello femminile) che conduce alla idea dei due fattori generativi? Beh!: la pretesa sembra eccessiva e in questo anche un po' rivelatrice. 
Forse che il bipolarismo altro non è che una pretesa semplificazione, o una messinscena, o un mascheramento, un insieme di occultamenti, che gioca su una psicologia per così dire «sportiva» e di basso profilo, tipo: Coppi contro Bartali, Inter contro Milan, ecc., per dire «o sì o no»? Ovvero tutto sarebbe così spacciato per riducibile al momento di una filosofica de-cisione? E qui è anche accaduto che qualche politologo abbia ritenuto non senza ragione di usare il termine «duopolio», traendolo - e sappiamo che non è pura metafora - dalla economia: una concorrenza e una dialettica simulate. 
Immaginiamo per un attimo una società affollata da asini e petulanti in una realtà complessa: tale e tanta sarebbe in essa la manifestazione di opinioni, sfoghi, rivendicazioni di diritti di uomini, donne e bambini, animali e cose che non per questo tutto sarebbe riducibile a chiasso. Non per questo, anche le condizioni lo consentono, le soluzioni politiche finali dovrebbero essere anteposte ai problemi nei termini del «questo, non quello», senza la possibilità di terze vie e quanto meno di una fase istruttoria. Ciò sarebbe un forzare le scelte facendo della realtà un ritaglio rispetto all'ego; trovandosi moralmente nella condizione di avere sempre già deciso, anteponendo la troppa necessità alla necessaria libertà. Equivarrebbe a semplificare le questioni confidando nel poter reprimere la complessità, magari confondendo tra questioni reali e questioni fittizie o false; andando così un po’ alla deriva alla fine i governanti unitamente ai governati

Certo bisognerebbe innanzi tutto intendersi sul significato della parola polo
Si può affermare ad esempio che la Terra è bipolare perché ha due poli: è così per natura; ma in un mondo di esseri «pensanti» per aversi bipolarismo bisognerà indurre le persone a essere su ogni questione e decisione o pro o contra, o questo o quello e non altro, o nulla affatto. O sì o no insomma, come avviene in occasione di un referendum, di un plebiscito o nei sondaggi di opinione.
Dunque essere bipolari significa essere adesivi a un sistema del «sì-o-no», e per meglio dire trattandosi di sistema, del «sì-e-non», perché l'una cosa alla fine trabocca nell'altra. Come fa infatti una decisione seria e amica della res publica a non essere sufficientemente istruita, a non ammettere contributi i più ampi e a non recare con sé motivazioni? Ammesso che i poli lo siano di pensiero, d'interpretazione, d'interessi o di bisogni e di culture, che cosa altrimenti sorreggerebbe il dissenso e/o la diversità? Presumibilmente sempre l’altro polo? E dunque ancora: avremmo un sistema d’ingabbiamenti tale che al mutare delle questioni su cui pronunciarsi e degli orientamenti decisionali vengano a mutare nella composizione personale le formazioni politiche? Magari passando questo o quel parlamentare - il che è avvenuto e avverrà (storico il caso di D'Annunzio nel 1900) - da un polo all’altro dalla sera alla mattina? Già: ma di quale libertà di pensiero si verrebbe a parlare allora, non potendosi escludere il tradimento o la compravendita dei politici? Ma prima ancora realisticamente alle dissenting opinions non resterebbe che il sacrificio e un po' l'autoannullamento. Laddove si respirerebbe una qualche aria di totalitarismo. 

La teoria del bipolarismo si spiega semplicemente col fatto che in una società complessa o in un sistema politico articolato non si può parlare seriamente di bipartitismo perché si sa che, con la eccezione dei regimi totalitari, il numero dei partiti è irriducibile a due come a uno (e l'equivalenza credo non sia priva di senso). Il bipartitismo «secco» o perfetto è insostenibile e impraticabile e la regola, nelle forme di Stato liberali o liberal-democratiche, è che vi siano almeno tre partiti. Sapendolo, i politicians possono sempre sfruttare un’altra chance, quella appunto del bipolarismo, non rinunciando mai al desiderio che i poli siano realiter partiti ovvero che questi si celino dietro quelli. Potendosi in questo modo coltivare vieppiù il senso di prossimità del partito allo Stato e creando così condizioni di chiusura (cosiddetti «sbarramenti», o «zoccoli duri») verso terze forze, necessariamente più sociali (accusa di populismo), o considerate «minori», tali per cui si sfiori una sorta di monopartitismo in sé differenziato. 
Non ci si può nascondere quindi che il bipolarismo in una società di massa - altra rispetto a quella prona e sottomessa della sua prima fase e cioè quella dei totalitarismi - sia sostanzialmente un «superbipartitismo» che è il tentativo dei partiti di autoconservarsi rispetto alla loro crisi di credibilità-rappresentatività. Dunque in questo modo le parole tradiscono la volontà politica di riprendere con una mano ciò che si è dovuto cedere con l’altra soprattutto a causa degli scandali; arginare con qualunque mezzo la propria crisi traducendola in una rinnovata condizione di potenza; e tutto questo come suol dirsi ‘con gli interessi’, se è vero che più è grande numericamente e burocratizzato il partito, più cioè esso è un superpartito, maggiore sarà la sua tendenza a occupare il posto che competerebbe solo allo Stato, anche necessariamente allo Stato-amministrazione; dunque a egemonizzare, forzando la cultura, la dialettica e il confronto politici, rimescolando le carte, formando mediaticamente l’opinione pubblica - che magari lo chieda essa stessa, di essere raggirata. Si tratterà pertanto di approfittare di qualsiasi occasione o condizione, anche giuridica oltre che di fatto, per attingere ai limiti e debolezze dello Stato, sino incidendo sull’ordinamento giuridico e i suoi principi, non ultimo quello della certezza.

Dunque se oggi si parla di bipolarismo è perché il bipartitismo secco non lo si può realizzare, soprattutto ora; ma si dice negandolo il contrario e questo avviene, almeno nel caso italiano, nel contesto di una crisi crescente dei partiti, ridotti esistenzialmente a clientele. Sfiducia nella politica e «antipolitica» possono significare anche: «due partiti sono meglio che dieci, o mille» - e «i governi debbono essere stabili e duraturi, debbono poter governare» -; laddove, essendo che la democrazia chiede pudore nei toni, nelle parole e nella fraseologia, il numero due rischia di equivalere nella realtà al numero uno più di quanto non si creda e laddove divenire uomini e donne di Stato o delle istituzioni risulta più facile e pone nella condizione di sentirsi liberati così dalla minaccia delle terze possibilità - soprattutto in senso sociale - di soluzione dei problemi, come dai controlli di legalità e sostanzialmente dai doveri derivanti dal munus publicum.
Così il popolo soprattutto al momento del voto ma già nel suo stesso sentire dovrà essere bipolare, e il bipolarismo assomiglierà a una pianta da coltivare, con sollecitazioni retoriche costanti, tam tam propagandistici e forzature, in nome di una nuova dèa, la necessità - nemmeno di decidere ma - di agire o come si sente ripetere da tempo «del fare», in qualche modo sempre indotta. Così se è vero che un cattivo sistema può reggere anche per anni (penso a questo o a quel ventennio; ma non solo), è anche vero che ogni cosa ha una tendenza al logorio e limiti di durata. Basta, lo si dica per chi sa sperare, che il suo tempo non giunga nel momento sbagliato. 

Ci sta e non è da oggi che si venga a parlare di «morte delle ideologie», che però realiter non si potranno dire davvero estinte finché si avranno interessi in conflitto (come infatti scindere le ideologie da interessi materiali e bisogni?) e ci sta che in questo avvenga che nei fatti i risultati pratici siano più importanti delle proclamazioni di principi, il che quanto meno può avere un duplice significato (al che è intuibile come quella che è stata definita politica «del fare» - dunque del non pensare, del non eccepire, ecc. - possa essere una certo non voluta semiconfessione).
Con questo però intendo escludere - contrariamente ad alcune sempre possibili definizioni - che nella storia d’Italia il centro-sinistra fosse un polo, perché se questo è vero è vero anche che dovette esserlo non solo il PCI ma anche l’MSI (escluso dal cd. arco costituzionale) - e a questo punto qualcosa continua a non tornare. Voglio invece credere che la definizione sia attuale e voglia designare un assorbimento o coacervo di forze entro un polo ma non nel senso di un annichilimento di quelle forze (e anche qui qualcosa sarà tenuto nascosto dai politicians). Ovvero anche che questo si presti all’ingresso nella politica, e attraverso la politica nelle istituzioni, di forze e interessi ben estranei a un rapporto repubblicano di rappresentanza e trasparenza, che possono anche spacciarsi per partiti e partitini o gruppi puramente parlamentari (ma: basta dare ad essi un nome) e che in fondo sono lobbies o lobbisti. 
Se tutto questo è ammissibile, allora in uno Stato repubblicano i poli al pari dei partiti politici sono irriducibili a due. Dice il presente che i poli in Italia non sono due ma almeno tre: uno conservatore e liberista, uno social-riformista, uno popolar-giovanile. Per giunta, alla idea di un centro, dimostratasi negli anni debole e fallimentare, ma ciò non deve nemmeno sorprendere date le condizioni economiche e culturali delle classi socio-economiche, se n’è aggiunta una di destra oppositiva rispetto ai due poli cui tutto si vorrebbe o si sarebbe voluto ridurre, e questa denota però ben altra efficacia. Se non che quella destra nelle cui fila militavano convinti assertori del sistema bipolare, altro non è che il frutto della scissione del polo conservatore. Come a dire, tutto sommato: molti fautori del bipolarismo piuttosto con i fatti che con le dichiarazioni si sono smentiti da soli o se si preferisce hanno gettato la maschera.
Possiamo parlare dunque di un vecchio polo conservatore che si è indebolito, laddove quel vecchio polo raccoglieva personaggi della cd. Prima Repubblica, appartenenti a un centrosinistra demolito dalla stagione cd. di Mani Pulite, ovvero i partiti politici condannati per corruzione dalla magistratura.
È accaduto così che a sua volta il polo che abbiamo detto social-riformista si è scoperto più che mai paladino del bipolarismo e anzi, a fronte dei facta concludentia posti in essere dalla destra, esso sembra esserlo più di quella.
La natura della cosa vuole forse che il superpartito più si sente forte e vincente più tende a sostenere il bipolarismo; e sembra così che il polo social-riformista, più di quella destra scissionista, si riproponga di realizzare il bipolarismo, orientando in tal senso fra l’altro la riforma elettorale. Sembrando verosimile che questa apparente volontà di restaurazione nasconda altro e cioè la paura che una scissione, se sembra aver rafforzato la destra, possa indebolire la forza di sinistra.
Ma nel suo complesso, a quanto mi è dato comprendere, la situazione partitica in Italia non è così lineare: infatti ciò che la destra scissionista viene a dimostrare è che i due vecchi superpartiti, PD (già FI) e PDL, teorizzassero il bipolarismo quasi divenendo complici per necessità e che ora quella complicità non può non essere - salvo ripensamenti - infranta o messa a nudo, in questo modo avallando una vecchia tesi, tenuta in piedi per molti anni dall’IDV e poi abbracciata dai popolar-giovanili del Movimento Cinque Stelle.

È anche vero poi che la destra scissionista si spiega con la forza carismatica del capo che la tiene unita e che quindi alla morte di costui le truppe potranno sbandare o ritirarsi o trasmigrare. Il che potrebbe in qualche modo ridare vigore se non alla teoria alla idea del bipolarismo, oppure aprire a scenari tuttora indecifrabili; e il problema a questo punto è forse altro ancora e cioè: che senso ha il terzo polo e cioè quello popolar-giovanile? Il quale nella sua azione ha trovato agio nello smentire la veridicità della teoria del bipolarismo, mostrando come in esso vi fosse complicità ancor prima che diversità e che tutto fosse una messinscena. Ora così esso funge da opposizione poiché i due poli si erano riuniti in un governo che solo a parole sarebbe dovuto essere provvisorio e tale dunque è la forma oppositiva di questo schieramento che i due poli sono indotti a essere lo stesso polo.
Dunque poiché il giudizio si è rafforzato anche nei banchi e nelle commissioni parlamentari, pare confermata la tesi per cui nel bipolarismo si anniderebbe una certa quale complicità fra partiti e meglio fra superpartiti, che il senso funzionale sia questo e non vi sia molto altro. Sennonché a questo punto la tentazione potrebbe essere anche quella: di considerare che il Cinque Stelle sia un polo e i due partiti di maggioranza l’altro, se non fosse appunto che la destra scissionista vale ancora una volta a dimostrare altro.

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