lunedì 17 marzo 2014

Una rivoluzione possibile? (ma parlamentare, necessariamente)




Di questi tempi la sensazione è che si stia andando verso una (o si versi già in un clima di) impasse istituzionale, e l'opposto se vogliamo dell'armonia, a causa dei troppi interessi torbidi che i vari governi si sono impegnati e s'impegnano a tutelare; a causa sostanzialmente della corruzione che soccorre in un modo determinante le forze della conservazione e del privilegio, le quali sempre rivelano di essere più estese e di avere più radici di quanto si pensi. E certo la medicina della revisione costituzionale, addirittura con il ventilato attacco all’articolo 138 (“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”, laddove sottolineerei anche quel "ciascuna Camera"), è di quelle di cui nella più rosea delle ipotesi non si conoscono ma si possono temere gli effetti collaterali. 
Lo stato attuale delle cose è di generale frattura, generale lacerazione, abbandono, confusione e indecisione (o cattivo decisionismo), di amicizia-inimicizia (un po’ tutti contro tutti) e questo lo sente o lo sa bene chi promuove la filosofia della "semplificazione" e la riforma della Costituzione, a rischio di uno snaturamento della stessa. E quando i vincoli alieni che impegnano i governi prevalgono su una qualsivoglia conduzione politica normale o sana e ragionevole, o necessitata, allora due sono le strade percorribili: quella di una rivoluzione, prima necessariamente parlamentare, o quella di uno o più colpi di Stato. E anche qui, a leggere i fatti, sembra dominare la confusione e la situazione è per così dire "mista", o di drammatica contestualità, poiché da una parte si susseguono una serie di violazioni più o meno evidenti (non ne è sempre agevole la valutazione, ché basta una piccola norma, o una clausola nascosta in un decreto, moltiplicandosene l’effetto, a sconvolgere le cose) dell'ordine giuridico e costituzionale (dal cosiddetto "lodo Alfano" e affini, all’aggressione legislativa dei diritti quesiti, ai governi nominati e non eletti, come accadeva per i - più 'giuridici'? - dictatores dell’antica repubblica romana), dall'altra vi sono atti anche legislativi o di condotta partitica e anche plateali che per contrasto mirano a generare il tessuto di una democrazia sostanziale. Evidente come un nodo importante a questo punto sia la legge elettorale, che può valere - Mortati docet - tanto quanto una Costituzione "materiale": se la cosa non funziona in un modo allora essa deve funzionare nell'altro. 
File:Oliver Cromwell Gaspard de Crayer.jpg
Oliver Cromwell
E qui dunque dovrebbe essere combattuta presumibilmente la battaglia decisiva. Del resto gli esempi storici non mancano, come insegna la via elettorale che consentì di giungere alla instaurazione del Fascismo; e si profilano dunque i contrasti, simili a quello degli anni 1922-1925 in Italia, fra un polo della conservazione a ogni costo nel quale vengano inevitabilmente a confluire molti rappresentanti “democratici” per definitionem non sospetti (si prenda a esempio anche la storia della socialdemocrazia tedesca), e un polo della democratizzazione sociale, il quale è osteggiato sul fronte della rappresentanza e al quale pure sia dato commettere o non gli errori dei nostri "aventiniani". 
Perché è nel Parlamento la cui funzione e centralità siano rafforzate e non indebolite, come insegnano Cromwell e la Rivoluzione francese (quest'ultima dalla sala della pallacorda in poi), che viene a formarsi la testa o il primo nucleo di un moto rivoluzionario in senso economico e sociale. Ed è in questo contesto storico che obiettivamente la riforma del Senato al pari del rafforzamento dell’Esecutivo, della sospensione del diritto di voto e dei famosi “paletti” o “soglie” elettorali per l’ingresso dei partiti (“partitini”) in Parlamento sembra rispondere a una logica di rafforzamento massiccio della conservazione, contro la cultura della rappresentanza. Un analogo dell’ancien régime, che se è democratico lo è solo in modo autoreferenziale e perché le parole alle volte non costano nulla. Già, forse Luigi XVI di Francia avrebbe saputo fare di meglio ...

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