lunedì 16 giugno 2014

L’anima e la macchina (Su Cartesio e la "sua" epoca), versione riveduta, primi paragrafi



  
§ 1.- Cartesio per me è significativo, nel mondo e storia della filosofia, per avere dato alle macchine, avendone constatata la effettiva possibile autonomia nel funzionamento e certa complessità e variabilità nella organizzazione, la dignità di oggetto del pensiero.
Ovvero io ritengo che attraverso Cartesio la filosofia abbia contribuito efficacemente a riconoscere alle macchine, certo non meno che storicamente, quella dignità che a esse era mancata per lunghis­sima umana tradizione. Che mancava ad esempio nella opinione di un Archimede, per il quale la tecnica non era una nobile occupazione (il che comunque non vale a escludere che la filosofia se ne occupasse e se ne occupi); o in generale di quanti, nelle varie epoche, avessero ritenuto la natura non imitabile (mediante l’artificio), o considerato le macchine - e gli strumenti della tecnica in generale -, atte semplicemente ad opere servili, o ai divertimenti.
Cultura questa, della distinzione e gerarchia fra arti liberali (nobili) e arti meccaniche (servili), che è stata consacrata scolasticamente - come si sa - dal medioevo; ma che non può ritenersi, sic et simpliciter, cultura medievale, ché si è trascinata anche successivamente, nei preconcetti. 
Ritengo inoltre, in questo mio modo di riflettere, che quella virtù che voglio ravvisare nella filosofia di Cartesio possa essere ricollegata tanto a un’epoca specifica - che egli è chiamato a rappresentare nella nostra memoria soprattutto simbolica - la quale va dalla seconda metà del cinquecento al primo settecento, quanto alla natura stessa del suo pensiero.
Nel quale, in fondo, che cosa avvenne? Avvenne, in un modo singolare e storicamente importante, che il mondo “esterno”, il mondo delle cose, crebbe parallelamente alla crescita del mondo interiore, venendosi a costituire entrambi, nel loro sviluppo, come mondi osservabili, e come res. E ciò fu possibile (anche) perché l’interiorità messa in luce, positivizzata, esposta al mondo, iniziò un suo cammino di esteriorità.
 
Il che significa: il cosiddetto “dualismo” (cartesiano) fra anima e corpo può essere interpretato costruttivamente prima ancora che gerarchicamente (schema, in fondo abbastanza agevole, della superiorità dell’anima sul corpo) o in termini di negazione, dell’una nei confronti dell’altro.
Cartesio, si sa, non ideò quel dualismo, che risaliva invece alla filosofia degli Antichi laddove aveva raggiunto livelli notevoli di elaborazione; egli piuttosto ebbe a porlo, e a svilupparlo, mettendolo nella condizione di dare frutti scientifici positivi - che si possa dire o non, come è stato detto, che quel dualismo ha mostrato assai presto il suo fallimento.

In altre parole: il dualismo fra anima e corpo, con Cartesio, si pone in un modo filosofico tale per cui esso viene contestualmente a incidere sull’ordine scientifico delle cose. Ciò per cui insomma, raccogliendo le impressioni, la filosofia stessa entra nel circuito scientifico positivo. Presentandosi invece, le soluzioni date da altri filosofi al problema, ad esempio da Malebranche o da Spinoza, come non inerenti in modo diretto agli sviluppi della scienza fisica.

Questo significa, ancora, che proprio a quel processo di disincarnazione del pensiero, che Cartesio condusse nelle sue riflessioni e sul quale c’intratterremo, va ricollegata la possibile sensibilizzazione del pensiero occidentale al valore delle scienze positive ed alla realtà fisica (o) esterna in generale. Che proprio nel contesto di quel processo, legato profondamente a una mentalità matematica e anatomica, può essere riconosciuta una prima liberazione di spazi culturali in favore delle macchine, segnatamente quelle dotate di organizzazione, e in ciò liberazione della tecnica. 


§ 2. - Il fatto che con Cartesio ciò che è macchina venisse ad acquisire dignità filosofica può essere ricollegato a motivi (A) di ordine storico e a motivi (B) di ordine filosofico - che qui intendo considerare, per quanto ciò si renda possibile, separatamente. 
(A) Proverei a sintetizzare i primi nell’immagine generale, da associare quasi in termini defi­nitori all’età moderna, dell’incontro culturale dell’anima (occidentale, che si stava rifondando o comunque trasformando, in un suo nesso di contemporaneità con la nascita della metafisica moderna) con la macchina. Avvio cioè di un comune possibile percorso e di possibili convergenze, tra la fondazione della moderna metafisica dell’essenza e la teoria meccanicistica della realtà, ovvero di tutto ciò che sia osservabile e misurabile come esteriore, secondo quanto si ha nelle opere cartesiane.
Questo incontro può essere giudicato significativo, dal punto di vista storico, perché in fondo qualsiasi strumento è macchina e la macchina, si sa, è antica - e quando dico questo penso alla leva, allo sviluppo che essa ebbe presso gli Egizi; al carro; ai dispositivi bellici - .
Antichi sono anche gli automi (autòmata, ovvero macchine “che s’istruiscono da sé”, “si muovono da sé”), come dimostrano il sistema per l’apertura del tempio, ideato da Erone Alessandrino, o la ra­ganella (plataghè) musicale e la colomba in legno in grado di volare che il filosofo Archita avrebbe costruite, come si narra, per amore dei bambini[1]. Oppure gli orologi idromeccanici del medico Ctesibio. - Penso anche, in generale, al valore degli automi greci, provato - fra l'altro - dal loro influsso sulla tecnica degli Arabi. -
La macchina dunque è antica, e lo è, parimenti, l’intuizione del legame che unisce la matematica e la meccanica, o la meccanica alla natura; e la raffigurazione del mondo come una grande macchina (così era ad esempio per Vitruvio Pollione, il quale nel De architectura sosteneva che la natura stessa contiene i principi della meccanica, insegnandoli agli uomini), immagine che siamo usi associare in un modo caratteristico al materialismo settecentesco (a Cartesio, appunto, come al matematico De Monantheuil); che, evidentemente, non risale a questa epoca ma che in questa trova un significativo sviluppo culturale.
Questa antichità, nella esistenza, si spiega con una certa istintività della macchina, ovvero con un suo fondamento naturale. Istintività o fondamento naturale significa che da sempre la macchina, in quanto artefatto, è chiamata a compensare i limiti umani, essenzialmente nell’applicare la forza (o il pensiero, in generale) agli oggetti (io penso così ancora alla leva, per il rapporto che in essa si ha: fra l’efficacia e la semplicità); perché da sempre l’uomo vi ha trasposto il corpo o l’intelletto, in varia misura, per quelle che sono le radici della umanità stessa della cultura tecnica.
Da una parte dunque si può ritenere che la macchina è antica per le medesime ragioni per cui essa è medievale o moderna. Essa lo è in quanto non-inessenziale, ovvero in quanto prossima all’uomo, essendo inscritta nella sfera dei bisogni; dunque per un fatto quasi naturale. Ma dall’altra parte essa è moderna per le medesime ragioni per cui moderno - per quanto avvenne a decorrere dalla fine del cinquecento - può essere considerato il riconoscimento dell’importanza scientifica, economica, sociale (ed il deciso sviluppo ed affinamento, nella prassi) degli strumenti per le misurazioni ed il calcolo. Oppure il tentativo di riabilitazione sociale degli inventori o meccanici e delle loro opere (lo fece l’abate Baldi nella “Premessa” alla sua traduzione dello scritto di Erone sulle Machine Se Moventi, pubblicato sul finire del cinquecento). Oppure l’avvio di una sensibilizzazione senza precedenti nei confronti, soprattutto, degli automi. Ovvero per la diversità che è - secondo gl’insegnamenti della storia - nel fatto.
Moderno quindi nella macchina è qualcosa che appartiene e non appartiene alla macchina, ovvero, oltre la prossimità all’uomo, la diversità del fatto di per sé stesso; ed in ciò, nel nostro caso, pesa molto il dato nuovo, cinquecentesco: di un rinnovato costume del calcolo, con la sua necessità ed i suoi effetti.
Il calcolo in generale, si sa, prende piede, nella vita quotidiana, nella società, del cinquecento, allorquando vengono vinte le remore legate alla utilizzazione dei numeri romani, al calcolo mostratisi non congeniali per la loro scarsa praticità; ovvero allorquando si avverte l’insufficienza dell’àbaco.
Ed è importante, con riferimento sempre a quell’epoca, il legame e meglio la corrispondenza fra la matematica, che diviene modello per la riforma del pensiero (tale è l’interpretazione ricorrente del Discorso sul metodo) ché essa sola dà certezza, e quella che è l’affermazione, sociale, della matematica, la quale allora “cominciava ad entrare [era meglio entrata] nella vita della gente”. Essa allora usciva dall’ombra, “Non era il mistero esoterico che era stato prima del decimo secolo in Occi­dente [...] né riservata in esclusiva a dotti molto specializ­zati come nei secoli che seguirono Gerberto”[2].
Tutto questo può significare più cose: a causa o nei termini - se così si preferisce dire - di quella corrispondenza. Significa in generale che con l’età moderna, con l’abbattimento - per così dire - dell’àbaco, il calcolo entra nella vita del pensiero, nella sua economia vivente. Il pensiero si scopre calcolante - come ha insegnato efficacemente Hobbes; tanto quanto il pensiero come tale entra, più profondamente di quanto non fosse mai accaduto prima, nella tecnica, organizza un suo discorso sulla tecnica, in quello che potrebbe essere ritenuto (anche) come un destino, per il pensiero stesso.
Questo avviene - anche e cioè non separatamente rispetto alla importanza del calcolo - perché storicamente in quell’epoca della quale si parla sorgono nessi significativi fra macchina e pensiero. Ovvero perché questi nuovi legami si possono spiegare con l’invenzione ed uso di dispositivi o macchine che possono dirsi significativi, che entrano nel circuito della vita. Fra i quali nessi meritano di essere posti all’attenzione quelli emersi con l’invenzione della stampa a caratteri mobili e quelli avutisi sul piano della navigazione e dei commerci.
Da una parte la espansione dell’attività di calcolo può essere osservata - e questo costituisce ora più che una mera supposizione e dovrebbe essere trattato alla stregua di un importante argomento da approfondire - come una evoluzione del segno grafico (la lettera dell’alfabeto, i numeri, ecc.), del carattere e del suo simbolismo costitutivo, che muovendo dalla invenzione della stampa giunge gradualmente sino ai valori algebrici. Essa per certi versi può essere così ricollegata al fatto, alla teoria del fatto,  che sia stata la macchina per la stampa a produrre una condizione favorevole alla numerazione, o alla rappresentazione simbolica del pensiero.
Sotto questo profilo si può cogliere un legame: fra la nascita dell’epoca cosiddetta “gutenberghiana”, la quale per definitionem ha introdotto la potenzialità ripetitiva della tecnica ed in questo la “omogeneizzazione visiva” dell’esperienza, l’attività - il lavoro per così dire dell’animo, o il bisogno - di numerazione e la meccanizzazione[3].
Dall’altra parte il nesso: tra numero e macchina, matematica e macchina,  emerge in una maniera significativa con la intensificazione dei traffici marittimi commerciali, laddove viene in luce nel cinquecento, in relazione alla stima del cosiddetto “punto nave”, l’importanza della strumentazione di bordo: nascita, in ciò, della cosiddetta “navigazione aritmetica”[4].
Quel nesso, nell’epoca che andiamo considerando, giunge all’approfondimento ed alla sintesi. Dice la cronologia: fu allora che Gunter ideò il re­golo logaritmico, Schickard il suo “orologio calcolatore”, Pascal la sua addizionatrice (la cosiddetta “pascalina”), Leibniz formulò i suoi progetti di macchine, con ruote dentate e pulegge, in grado di dividere e moltiplicare, oltre che di addizionare e sottrarre[5].

La macchina "aritmetica" di Leibniz









[1] Cfr. Archita, ne I presocratici, a cura di H. Diels - W. Kranz - trad. it. - Milano 1991, p. 505 nt.
[2] V. Pratt, Macchine pensanti. L’evoluzione dell’intelligenza artificiale - trad. it. -, Bologna 1990, p. 55. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[3] M. McLuhan: Dall’occhio all’orecchio - trad. it., Roma 1986 -, p. 37, e La galassia Gutenberg - trad. it. -, Roma 1995, pp. 37 e 211.
[4] Pratt, Macchine pensanti, pp. 42 e ss.
[5] Per una storia evolutiva delle macchine si veda in generale il libro di Pratt. 


§ 3. - “Moderna” per quanto si coglie nella diversità del fatto, è inoltre la sensibilizzazione a favore delle macchine, e meglio a favore degli automi, di un pubblico.
Ovvero: non si ha sotto gli occhi semplicemente l’abitudine degl’inventori e costruttori, di esibire sui campanili delle chiese, o nei giardini più importanti delle città, le loro opere - che fossero complessi ad orologeria o fontane -, oppure a fare dimostrazione di automi[1] dotati del sembiante di animali o persone (automi per così dire “naturalistici”); abitudine quanto meno già sorgente in epoca medievale. Ma il fatto proprio che venga a formarsi, in questo mostrarsi, ma al di là di tutto ciò, un pubblico.
Si può dire dunque che agli automi, in quella che qui si considera epoca di Cartesio, viene dato, illuministicamente (cioè anticipando una idea illuministica, la temperie illuminista), un pubblico.
Ovvero in primo luogo: (a) presso le “genti grosse” gli automi suscitavano meraviglia per risultare a quelle il principio del moto in modo insensibile: “Nel carro, e nel molino, i motori sono manifesti, onde veduti da tutti non può cadere altrui nel animo che quelle macchine per se stesse si muovano; il che non avviene in queste se moventi, nelle quali il principio del moto che è il contrapeso, se ne stà nascosto, e non veduto da niuno”[2]
In queste parole, dell’abate Baldi, si conia un po’ una teoria del motore occulto; e si avvia storicamente, sul finire del cinquecento, la prima riflessione moderna sul valore intellettuale della tecnica. Riflettere, come egli fa, sulla meraviglia provocata dalle macchine semoventi, significa riflettere sul fatto che l’arte, “la quale è principio estrinseco, dia à le cose inanimate un moto intrinseco, e simile à quello, che à le cose naturali de la natura medesima”[3]
La riflessione dunque investe il rapporto fra l’automa e il pubblico, dice a noi in qualche modo che cosa significa "pubblico", promuovendo l’unità. In ciò essa investe il rapporto fra ciò che è nobile e ciò che è servile o puramente dilettevole, testimoniando in generale la trasformazione, moderna, del rapporto fra ciò che è interiore e ciò che è esteriore. Servile sì; ma accettabile, accettato proprio per questo. 
Sempre secondo un siffatto tenore della riflessione il pubblico è colpito dal non vedere, ma forse anche è importante il gusto analogico quale si ha sul piano del sentimento delle arti. Nel quale è tale, l’evoluzione, per cui è come se la scultura si traducesse in meccanica. Preludio, questo, alla traducibilità del corpo in meccanismo ad orologeria. Imitazione di un principio di animazione secondo quella che ad esempio è la filosofia del movimento delle membra. 
L'automa cavaliere, di Leonardo
Negli automi naturalistici la sensibilità coglie dunque la trasformazione delle sculture in figure che si muovono o che sono animate. Coglie la differenza fra le statue classiche, nella loro staticità, e l'animazione. La prima cosa che accade, nella esteriorità, la prima cosa che dice il fascino della macchina, è che ciò che s'immagina fermo invece si muova: Cellini, che con un espediente mobilizza una statua in argento di Giove facendola sospingere da un fanciullo verso il re, Francesco I, dà il senso di quella differenza e di quella trasformazione[4]
Si apre in questo modo alla fusione dell’arte meccanica con l’arte figurativa, alla sintesi, possibile, di ciò che è organico con ciò che è meccanico, perché è animato.

In secondo luogo (b) sensibilizzazione di un pubblico in senso moderno significa circolarità del pensiero e stimolazione filosofica, ovvero anche: grande fu, in generale, nell’età di Cartesio, la curiosità del pensiero per le potenzialità degli automi, soprattutto per quelli ad oro­logeria: “Né l’automa greco né quello magico si trovano sulle principali linee di sviluppo della macchina moderna, né sembrano avere avuto molta influ­enza sul pensiero filosofico. Ben diversa è la situazione per l’automa a orologeria. Questa idea ha svolto una funzione molto importante e originale agli inizi della filosofia moderna [...]”[5]. Nel seicento, così, Dio poteva essere paragonato ad un Orologiaio (oppure si poteva dire, con De Monantheuil, in modo corrispondente, che Dio fosse sia “mechanikòs”, sia “mechanopoios”[6]) .
Il "Turco che gioca a scacchi", di von Kempelen, 1770.
Il filosofo dunque fa parte del pubblico, ovvero: ottenendo il suo pubblico, così, la macchina ottiene la condizione per il suo effetto filosofico. Essa può essere, su questo piano, oggetto di osservazione, o valore di riferimento e anche modello, per il pensiero: poté esserlo per Cartesio, come si verrà esponendo, ed anche per Hobbes. 
Il quale paragona, nell’introdurre il Le­viatano, l’uomo ad una macchina, il cuore umano ad una molla, i nervi a ruote, sottolineando in generale il valore di vita artificiale (dunque di autonoma vitalità) degli automi, “macchine [nella sua definizione] semoventi per mezzo di molle e di ruote, come un orologio”[7]. E soprattutto, infine, per Lamettrie.
Si ha in questo provocazione di nuova filosofia ovvero si ha come filosofia vivente, perché questi fenomeni investono, materializzandone gli oggetti, il discorso filosofico stesso. Inducono nuova riflessione, o meditazione, sull’umanità dell’uomo, avvicinano il pensiero al senso trasformativo insito nelle realizzazioni della tecnica. Ponendosi, o in un modo critico, o in un modo costruttivo, sul terreno dell’origine della metafisica moderna.

§ 4. - Parlando di “vita artificiale”, artificial life, Hobbes si riferisce al movimento delle membra.
E di fatto, sotto il profilo storico, con riferimento agli strumenti per il calcolo e agli automi, considerando il loro valore funzionale, il loro valore esteriore piuttosto che interiore, si potrebbe parlare - a volersi esprimere con una formula usata nel nostro tempo - di artificializzazione del corpo.
Ma il senso della cosa è tale per cui è vero che è difficile dimostrare che l’artificializzazione non fa parte del modo come il corpo viene vissuto: quale complesso di organi ovvero, secondo l’etimo, di strumenti, e dunque che essa, nel senso, non è la naturale prosecuzione di qualcosa che già esiste e ci è dato.
Le macchine in altre parole - in questo si ha anche la prossimità all’uomo - possono essere ritenute strumenti perché esse altro non sono che nuovi ulteriori organi di una realtà, quale il corpo, vissuta dall’uomo, nella storia e nell’esistenza, in un modo strumentale: concezione aristotelica, ad esempio, della mano come strumento degli strumenti, ricordata significativamente da Zschimmer agli inizi del nostro secolo nella sua Filosofia della tecnica[8]. Anche per un qualche suo legame con la teoria di Kapp[9], detta “della proiezione degli organi”, per la quale ogni strumento prima della sua realizzazione è stato prima vissuto dall’uomo in modo naturalistico essenziale.
La considerazione di Hobbes sulla vita artificiale - il che significa: le considerazioni che lo stesso Cartesio svolge sulla macchina del corpo - si riallaccia dunque ad un contesto di riflessione naturale sulla tecnica. Per cui se si parla di artificializzazione del corpo lo si fa perché il corpo è stato, è, vissuto (anche) artificialmente.
Si potrebbe dire anzi essere questo il nocciolo del problema, per cui sempre è in piedi, è presente, il sentimento dell’artificialità del corpo, per come esso, quale esteriorità, realtà, è vissuto rispetto a una interiorità. Nel che si ha in fondo il valore dello schema dualistico in relazione al discorso sulle macchine.
E anche, di séguito: la vita artificiale, di cui parla Hobbes, è omogenea in fondo con qualcosa che avviene nel rapporto con il corpo e consiste in ciò nello stesso sempre mag­giore - storico, necessitato - arricchimento strumentale del nostro rapporto con la realtà[10].
Ciò ha un qualche suo riscontro, su un piano oggettivo, con la teoria della “estensione”, enunciata nel nostro tempo dalla sociologia o psicologia della comunicazione. In cui per così dire il passo ulteriore rispetto alle tematizzazioni seicentesche consiste nel riconoscere negli oggetti strumentali prodotti dalla industria umana estensioni (o traduzioni) di specifici organi del nostro corpo. La ruota così ad esempio, secondo McLuhan, prende il posto, sviluppa, estende, velocizza il piede; l’indumento estende la pelle, ecc. Così la macchina è - semplificando - estensione del corpo e segue in questo le regole della evoluzione or­ganica e il principio per cui ogni estensione genera nuove estensioni[11].
Ma, se è vero che l’artificializzazione di cui parla Hobbes è omogenea con qualcosa che da sempre avviene nel rapporto con il corpo, è anche vero che la questione nell’epoca di Cartesio si pone in termini diversi.
Qualcosa viene come rovesciato: non s’impone più un modello naturalistico ad un mondo artificiale, ma si fa il contrario. Così ad esempio Cartesio sostiene che gli animali sono automi.

§ 5.- (B) Proverei a sintetizzare il secondo ordine di mo­tivi nell’immagine  della costruzione filosofica di una (nuova) casa per l’uomo; che può essere definita come “autoconoscenza” oppure - per quella che è la nostra prospettiva - artificializzazione della mente - includendo, nella mente, l’attività del pensiero in generale. E meglio: disincarnazione del pensiero e sua artificializzazione.
È ragionevole ricordare Cartesio e la sua epoca (considerata qui essenzialmente come sei-settecento; ed avrei potuto dire anche “Leibniz e la sua epoca”; ma la cosa avrebbe assunto forse un altro significato, volto maggiormente ad una finalizzazione), la quale è come se da Cartesio prendesse l’avvio per non poter essere pensata indipendentemente da lui, perché a quel tempo l’anima ebbe bisogno per così dire di una nuova costituzione; epoca detta solitamente moderna, che dunque forse può definirsi come tale perché in essa l’anima (vita, o conoscenza, o memoria, ecc., problematicamente) dovette ricostruirsi e (nuovamente) ricono­scersi.
Si può dire così: l’anima razionale, post-copernicana, per non sentirsi più al centro del cosmo scruta in sé o comunque in qualche modo si riconosce. Ma ciò, in quale modo? Con quale maggiore profondità,  rispetto alle parole?
Ovvero: nella nostra età moderna, contemporaneamente alla evoluzione e valorizzazione delle macchine - che voglio ricondurre, pur nella loro “esteriorità”, al profilo dell’anima razionale -, prende l’avvio un lavoro filosofico importante - vari  motivi del quale sono presenti nello stesso pen­siero cartesiano - che mira  all’autoconoscenza non solo in una chiave definitoria generale ma anche nei termini della filosoficità del simbolismo e del calcolo.
Qui, trattandosi di profili interni della filosofia, bisogna riparlare di quel concetto centrale dell’ingresso del calcolo nel pensiero. E si potrebbe aggiungere: ingresso del calcolo secondo la sua essenza nella sfera morale dell’utile.
Ciò avviene nell’epoca alla quale si fa riferimento in un modo tale per cui con il calcolo si astrae: rispetto a questo o quell’oggetto, ris­petto a questa o quella specifica attività umana (commercianti, ispettori, geografi, navigatori, astronomi, ecc.) unificandole, e rispetto allo stretto uso matematico.
Si pongono su questo piano - in generale -, le intuizioni di Hobbes, secondo cui l’uomo, pensando, calcola (egli sottrae e addiziona, cioè, ma si può dire che questo egli faccia, anche quando egli non sembra farlo) e secondo cui il simbolismo corrisponde alla universalità del calcolo. Ovvero: “Quando una persona ragiona, non fa altro che concepire una somma totale risultante dall’addizione di parti o un resto derivante dalla sottrazione di una somma da un’altra. Fare la stessa cosa con le parole significa concepire in succes­sione conseguente i nomi di tutte le parti fino al nome dell’intero oppure il nome dell’intero e di una parte fino al nome dell’altra parte. Anche se, relativamente a certi og­getti (come i numeri), oltre all’addizione e alla sottrazione, si parla di altre operazioni, quali il molti­plicare e il di­videre, queste sono la stessa cosa, perché la moltiplicazi­one non è altro che addizionare insieme cose uguali e la divisione non è altro che sottrarre una cosa tante volte quante è possibile. Queste operazioni non riguardano sol­tanto i numeri ma ogni specie di oggetti che possano essere addizionati e sot­tratti gli uni dagli altri. Come gli aritmetici insegnano l’addizione e la sottrazione con riferi­mento ai numeri così i geometri insegnano la stessa cosa in ordine alle linee, alle figure (solide e piane), agli angoli, alle proporzioni, ai tempi, ai gradi di velocità, di forza, di potenza, e così via; lo stesso insegnano i logici a proposito della successione dei termini, addizionando due nomi per ot­tenere un’affermazione, due affermazioni per ottenere un sillogismo e più sillo­gismi per formare una dimostrazione; dalla somma o dalla conclusione di un sillogismo sottraggono una proposizione per trovare l’altra”[12].
Laddove al centro delle attenzioni si pone ogni anima, per così dire, non più protetta da pregiudizi.
Sono noti, sempre in tal senso - di aversi in quell’epoca con il calcolo un’attività di astrazione, e di finzione per la mente -, gl’interessi di Leibniz per il sistema matematico binario, ed in generale i suoi studi in tema di “caratteri” o simboli (cosiddette ars combinatoria e ars characteristica), laddove il filosofo analizza il valore convenzionale del linguaggio, dei numeri e dei segni: per stu­diare la mente umana[13]. E sarebbe meglio dire: per studiare l’anima razionale.
Tale lavoro filosofico sembra possedere questa caratteristica: che esso non necessariamente è volto direttamente alla creazione ed affinamento di macchine, ma esso è siffatto per cui in qualche modo comunque vi si riconduce. Se gli studi leibniziani sono diretti alla realizzazione di calcolatori (progetto, ovvero “sogno”, in fondo in qualche modo avveratosi, di una cosiddetta “meccanizzazione della ragione”), con Cartesio (il quale - è stato osservato - non è riuscito a vedere come il pensiero possa  essere meccanico[14]) quel lavoro non prende le mosse dal legame - essenzialmente di riproducibilità - fra mente calcolante e macchine e reca in sé, profondo, il segno del dualismo considerando in ciò il lato - non per questo non pensato, anzi ritenuto degno di grande crescente complessità - della esteriorità.
L’analisi della conoscenza e della mente si svolge in Descartes, contrariamente a quanto accade a Leibniz, all’infuori della progettazione di macchine da calcolo; dunque l’epoca, che potremmo definire dei filosofi-scienziati, e la questione erano tali per cui anche il fatto di voler meccaniz­zare il calcolo non dissipava il dualismo (fra l’anima e il corpo) e per cui certe differenze nella sostanza rilevavano e non, e cioè: il pensiero che non fosse volto direttamente alla creazione o all’affinamento delle macchine si rendeva obiettivamente e storicamente com­plice di sempre possibili creazioni ed affina­menti di automi per il fatto stesso di osservare l’intelletto umano. Sono state ritenute infatti favorevoli al mondo delle macchine la critica di Locke delle idee innate, la sua teoria della tabula rasa e la sua critica del sillogismo[15]. E ancora - secondo quanto ora accennato e come si vedrà meglio in séguito - anche l’idea di un Cartesio “anticibernetico della mente” è inscrivibile nella storia della cibernetica. Essendo che il difetto cartesiano consiste in una teorizzazione non diretta, non in una in senso contrario, rispetto a Hobbes; ovvero l’asserita debolezza filosofica della tesi della ghiandola pineale - se ciò anche fosse - non indebolisce il discorso né le incisioni che esso ha sulla teoria dell’anima in generale. Che dire?: l’osservazione ha sempre i suoi limiti ma non per questo va necessariamente contro la imitazione.

Certe complicità del lavoro filosofico con l’evoluzione moderna delle mac­chine, al pari del legame che unisce gli automi ai semplici strumenti per il cal­colo, sono state messe in rilievo dalla storiografia (contemporanea) delle mac­chine “pensanti”. E sono riconoscibili, quanto all’aspetto rappresentazionale, quasi come regola natu­rale, per cui si potrebbe sostenere, ad esempio, che l’uomo “Imparando ad allontanare da sé l’occorrenza fisica diretta del mondo fenomenico, la sua inevitabile compresenza spazio-temporale, mediando e sostituendo questo rapporto con modelli, artefatti, “rappresentazioni”, ha intra­preso quel lungo cammino che lo ha portato alle odierne con­quiste tecnologiche”[16].
Si potrebbe dire quindi di una quasi-naturalezza tec­nologica che è insita nel moderno simbo­lismo rappresentativo, ovvero nella logica simbolica. O di una migrazione,  importante, dal segno grafico come segno esteriore (: visibile, scrivibile, supportabile, realistico) al segno mentale, simbolico.
Ciò che prende rilievo e valore è dunque sostanzialmente, nell’epoca, la rappresentazione. Ma essa non deve far dimenticare l’utile (economico, morale, culturale) del calcolo. L’esteriorizzarsi - secondo le riflessioni di Hobbes - o il positivizzarsi, di un segreto meccanismo del cervello.




[1] Per quanto riguarda la storia degli automi si rimanda, oltre che al libro di M.G. Losano, Storie di automi, Torino 1990, a testi quali I robot nel mito e nella scienza (di J. Cohen) o I falsi adami. Storia e mito degli automi (di G.P. Ceserani).
[2] Considerazioni del Baldi proposte in Losano, Storie di automi, pp. 6 e s.
[3] Ivi, p. 7.
[4] Episodio riferito da H. Bredekamp: Nostalgia dell’antico e fascino della macchina, trad. it., Milano 1996, pp. 11-12).
[5] Il brano di N. Wiener, comparso in una delle edizioni del suo Cybernetics, è tratto dal libro di G. L. Linguiti intitolato Macchine e pensiero (Milano 1980), p. 84.
[6] H. De  Monantheuil, Aristotelis mechanica, emendata, Latina facta, et Commentariis illustrata, Paris 1599.
[7] Th. Hobbes, Leviatano, Introduzione (consultato nella trad. it., Bari 1989), p. 5. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
Cfr. inoltre il primo capitolo del testo di J. Hooper e D. Teresi, L’universo della mente - trad. it. -, Milano 1987, pp. 21 e s.
[8] E. Zschimmer, Philosophie der Technick, Berlin 1917 (consultata nella traduzione parziale in italiano in AAVV, Tecnica e cultura, Milano 1987: pp. 214 e s.).
[9]  E. Kapp, Grundlinien einer Philosophie der Technick, Braunscweig 1877.
[10] Cfr. l’articolo di T. Maldonado dal titolo Corpo tecnologico e scienza, in aa.vv., Il corpo tecnologico, Bologna 1994, p. 79.
[11] Cfr. McLuhan, Gli strumenti del comunicare (trad. it. di Understanding Media), Milano 1995 (ad es. le pp. 182 e ss.; 129 e ss.).
[12] Hobbes, Leviatano, cap. V: “La ragione e la scienza (trad. it. cit., p. 35). Si veda anche Pratt, Macchine pensanti, p. 92.
[13] Ad esempio: G. W. Leibniz, Dissertazione sull’arte combinatoria (1666), Elementi di filosofia (1675), Cosa è un’idea (1678), Elementi di calcolo (1679). 
[14] P. Churchland, in Hooper-Teresi, L’universo della mente, p. 28.
Il che però, a ben riflettere, sarebbe dovuto o potuto emergere - soprattutto in Cartesio - in forza di una regola di reciprocità, per cui se il pensiero pensa il suo oggetto come meccanismo, allora...
[15] Cfr. Wiener, Introduzione alla cibernetica - trad. it. -, Torino 1982, pp. 93 e s.
Per quanto riguarda J. Locke, si vedano il “Secondo abbozzo” del Saggio sull’intelligenza umana (trad. it., Bari 1968) ed il Saggio sull’intelletto umano (trad. it., Torino 1971).
[16] P. L. Capucci, Il trionfo del corpo, in aa.vv., Il corpo tecnologico, p. 33. 

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