venerdì 6 settembre 2013

Diritto … “esistenziale”?




Che in questi ultimi anni ci si sia discostati vieppiù, in tema di responsabilità civile, dallo schema strettamente patrimonialistico (il danno inteso solo come danno “patrimoniale”; il guadagno come “parametro del danno alla persona”: Gentile, 1962) e parimenti dal nesso fra danno non patrimoniale e lesione penale - ex art. 2059 c.c. -, è provato dal fatto che s’incontrano oggi, nello spazio argomentativo e linguistico del giurista, espressioni quali “abitudini di vita”, “vita di relazione” (distinta addirittura da taluno dalla dimensione strettamente esistenziale), “libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana”, “progetto di vita”, “colloquialità con le persone e con le cose”; laddove ricorrono le parole vita e persona.
Negli ultimi tempi il diritto - e segnatamente i contenuti della giurisprudenza - si è accostato alla psicologia e alle scienze medica e chimica (si pensi al mobbing, alle fattispecie di inquinamento, alla salubrità ma non solo dell’ambiente di lavoro e, appunto, in generale a problematiche del danno sempre più inerenti alla persona); ma fra gli aspetti innovativi della cosa è e non è questo ciò che qui voglio qui evidenziare. Nelle nuove tipologie di danno non patrimoniale, che mettono a dura prova la tenuta del sistema aquiliano classico, vanno ricompresi valori inerenti alle disposizioni costituzionali - nel nostro caso l’art. 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità […]”) e anche l’art. 32 comma 1 (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività […]”, attenti al principio personalistico) - alla norma civilistica, alla regola morale che sottintende, in parte la occupa e/o corregge quella giuridica, al comune modo di sentire, ed è in questo contesto che si è considerato in positivo il contributo giuridico delle suddette scienze. Ma a mio giudizio in questi aspetti, pur sempre necessariamente compresenti in sede di giudizio, ora non può più dirsi risolta l’essenza della questione.
Ciò che risulta manifesto, nella evoluzione della fattispecie risarcitoria (e forse ci si potrebbe domandare perché prima non era così), è che nella storia della economia del danno, nel mentre il diritto si è radicato nella persona (sino a tramutare in diritto il to be let alone della privacy, o il darsi-farsi dare la morte della eutanasia) il corpo, come personalità e come sofferenza in generale, si è aggiunto, affiancato, sostituito alla ricchezza patrimoniale, quasi a installare una immagine difensiva o di sofferenza. E questo è avvenuto seguendo un indirizzo generale dei tempi, nei quali sempre più il corpo come bene, quale persona non solo fisica ma anche morale, è venuto alla ribalta, non sic et simpliciter sotto il profilo della medicina e delle patologie (danno biologico) ma di più sotto quello della condizione esistenziale della vita.
Su questa strada, nel clima rinnovantesi di valutazione dell’illecito civile, dopo che il danno “biologico” ha per così dire aperto il varco - vi è chi ha parlato di “archetipo” e chi continuerà a parlare di “contenitore” - e ad esso hanno fatto séguito il danno “alla salute” e quello “psichico”, ed ora anche quello - controverso ma significativo - “da lesione dell’interesse d’affezione”, figura “estrema” per dire anche riassuntiva è il danno cosiddetto esistenziale. Ovverosia: è giusto che paghi chi si è reso responsabile di un fatto lesivo che ha inciso negativamente, e cioè procurando sofferenza, disagio e difficoltà, sulla esistenza dell’offeso; è giusto che paghi chi si è reso responsabile di un fatto lesivo che ha inciso negativamente sulla esistenza dell’offeso e di quanti vivano in relazione (comunanza di vita e/o di affetti) con lui, ecc.
Il bene tutelato - se l’esistenza, per quelle che ne sono le condizioni, cambia in peggio - è ora il “sistema di vita” quale condizione materiale e morale, vita fatta di relazione e dunque, se anche biologica, non strettamente biologica; ma appunto tale cambiamento va apprezzato per quanto esso dipenda dall’incidenza prodotta nell’animo ovvero nella mente/psiche del soggetto, danneggiato nel suo essere persona (fisica, sensibile, morale, normale) tanto quanto nel suo essere soggetto più direttamente giuridico, titolare di situazioni giuridiche.
Si tratta dunque essenzialmente in questi termini di disagio esistenziale, che viene prodotto, che giuridicamente va ad arricchire nella casistica - se vogliamo - il frame “lucro cessante-danno emergente”. E va subito aggiunto, storicamente e sociologicamente: in un mondo in cui comunque per i più il disagio è esperienza di vita. Il che se è sostenibile - ma lo è - spiega le resistenze opposte alla nuova figura da certa giurisprudenza e in ciò in qualche misura dall’ordinamento giuridico stesso, con un atteggiamento comprensibilmente conservatore.
Le cause e le fattispecie concrete evidenziate dai giudizi nel merito (la cattiva informazione nei servizi pubblici di trasporto di persone, la mancata diagnosi di malformazioni fetali, la ritardata attivazione di un servizio telefonico, la sottoposizione ad immissioni acustiche intollerabili, la perdita del feto in conseguenza delle lesioni subite a seguito di sinistro stradale nel quale sia rimasta coinvolta la gestante, la lesione dell’identità personale, ecc.), peraltro necessariamente affetti da oscillazioni e le valutazioni della dottrina, in cui all’autonomia della nuova ipotesi viene opposta ora l’arduità del profilo risarcitorio (filosofia in fondo riduttiva della “duplicazione risarcitoria”) ora la riconducibilità di ciò che appare esistenziale a quanto vi è di sostanzialmente biologico (probabilmente la ricollegabilità alla valutazione del medico funge anche da argine contro il nuovo diritto), proprio perché dicono - tentando un’opera di assimilazione al danno morale soggettivo e a quello biologico -, del grado d’ingresso del nuovo tipo di danno nel nostro sistema, non ne negano il diritto di cittadinanza e nello stesso tempo, data la varietà delle ipotesi, valgono a dare una misura della consistenza della questione, che mostra di essere effettiva e non immaginaria.
La quaestio juris - per riprendere nomenclature care alla duecentesca Scuola bolognese - attiene alla persona e ai diritti della personalità, laddove la persona, costituzionalmente protetta, tanto è apprezzabile socialmente e psichicamente quanto la valutazione non si ferma né al danno in sé, né a una intervenuta nuova patologia procurata o indotta, né alla sofferenza fisica o allo stress, né a una dignità lesa da ingiuria o diffamazione, né a un danno da esaminare sotto il solo profilo sociale, né alla sussistenza di un fatto costituente reato.
Ovvero il male procurato dev’essere risarcito, è giusto che lo sia; ma non perché il danno sia fermo al concetto di danno, né quindi quale solo danno alle condizioni e sistema della vita, o al corpo o alla psiche o al bene della dignità; ma in quanto offesa alla personalità vivente considerata prevalentemente sotto il profilo della condizione esistenziale, personalità che - con le sue paure ed ansie ed inquietudini - in certo modo non è più quella di una volta.
Incuriosisce in tutto questo e induce a pensare, e ha spinto la giurisprudenza a resistere sino alla quasi-vittoria negando l’autonomia al danno esistenziale, l’aria di psicologismo che così sembra essersi insinuata nel corpo stesso del diritto; fa riflettere, di più, certa quale caduta della separazione o contrapposizione culturale tra anima e corpo (ciò che la dottrina non ha mancato di segnalare); ma incuriosisce ancor più, perché sembra che qui scorra la linea di confine tra danno psichico o biologico e danno esistenziale, l’aria vera e propria di esistenzialismo (esistenza socialmente misurabile, certo, ma “esistenzialismo”, nell’accezione filosofica della parola, riguardante il soggetto che è lì, l’ “esserci”, la cui nascita è associata all’angoscia, al problema del tempo e della morte) che così sembra voler penetrare nell’area strettamente, propriamente giuridica, volta a valutazioni orientate all’effetto, dilatando, rendendo più ampia e discutibile, la natura della prova e del nesso eziologico; e sembra in questo poter invadere il diritto dei giuristi. Da cui nulla però in fondo - venendo ad essere ogni cosa fatto o persona oggetto - è separabile.
In altre parole: si pone il dubbio se con l’ingresso nel nostro ordinamento del danno esistenziale il diritto, conservando peraltro e difendendo (alle volte salomonicamente) certe sue posizioni e istituti classici, abbia voluto intraprendere la strada di certo quale “esistenzialismo giuridico”.
Incuriosisce, anche, il fatto singolare che ci si trovi così al cospetto di una necessaria conseguenza di quelle stesse fraseologie costituzionalistiche o più semplicemente di quello stesso costituzionalismo, che avevano aperto in tempi storici diversi varchi di legittimazione e ai ceti borghesi emergenti della Rivoluzione francese e ai diritti inviolabili dell’uomo e della donna, in primis al diritto alla vita. Se dunque si argomenta di danno esistenziale quale oltrepassamento del confine del valore periziale classico o superamento di un connubio diritto-medicina da ritenersi comunque tradizionale, necessariamente si argomenta del confine del fatto giuridicamente rilevante; ovvero se dovesse imporsi il danno esistenziale, allora si potrebbe dire che il diritto non finisce mai di sorprendere, soprattutto oggi in una temperie in cui la sua capacità pur connaturata di assimilazione di valori non giuridici sembra accentuata.
Ma tale è il danno identificabile, quale il disagio, che prescinde in certo modo dal danno; che dunque non dipende strettamente o in modo determinato da condotte giuridicamente rilevanti, come in un rapporto di causa ed effetto. Sembra che il diritto, per il fatto elementare di essere volto al mondo, di doverne tradurre realtà, situazioni e trasformazione nel suo linguaggio, quasi di esserne copia normativa, risenta di fattori esterni, e parimenti tanto del progresso della scienza quanto della mutazione del soggetto, che è, o è tornato ad essere, il soggetto del disagio e dei conflitti perenni tra persone.

(rielaborazione di quanto già pubblicato in D&G, nell’anno 2002)

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