venerdì 6 settembre 2013

Lo Stato del conflitto perpetuo tra i poteri dello Stato (cenni sull'anticostituzionalismo politico)




Il conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato - ad esempio fra esecutivo e giudiziario, fra legislativo e giudiziario, fra lo Stato e certe sue riconosciute, volute articolazioni territoriali che però ambiscano a una certa quale autonomia legislativa - forse è un modo elegante, colto, per esprimere qualcosa che appartiene alla natura dell’uomo: è una realtà ineludibile, che fa parte non solo dell’ordine giuridico - e per meglio dire giuridico-costituzionale - evoluto ma anche dell’ordine sociale naturale delle cose. Che in qualche modo le tiene legate, in un modo anche - bisogna riconoscerlo - non tranquillizzante.
È la storia che lo dice, e più precisamente la storia costituzionale, la quale lo è realiter dei rapporti di forza fra poteri, o stati, o territori, o classi: il re unitamente al suo Consiglio contro il Senato, i parlamenti o le assemblee legislative rivoluzionarie contro i re, per dire però anche, in un modo più oggettivo e guardando alla economia e al sociale, i borghesi contro i nobili, o contro il clero; il clero povero contro quello ricco; il proletariato contro la borghesia. Ed è in generale nel contesto di tali conflitti, per quanto provato da quel compendio storico che è la storia della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica ma non solo, che le costituzioni s’impongono, quali patti (e comunque condizioni scritte, dettate) intervenuti tra quelle forze o poteri (se vi sono stati patti, allora sempre potranno esservi conflitti). O quali strumenti adoperati da alcuni contro gli altri.
Ora, ciò che, quale sua condizione, fa la salute di uno Stato è che il suddetto ordine sociale naturale, in quelle che si pongono come questioni assai rilevanti per la generalità dei cittadini, non incida troppo, sminuendolo, sull’ordine giuridico; che questo, quale Stato di diritto, riconosca i conflitti, li ipotizzi e preveda quale fattispecie ma nel preordinarne la soluzione; che insomma li disciplini (così la nostra Carta del 1948 si occupa della questione all’art. 134 comma 3, laddove si parla della Corte costituzionale), per non esserne travolto.
“Una società bene ordinata - così Paul Ricoeur ricordava una espressione di Hannah Arendt - non è quella in cui non ci sono conflitti, ma quella in cui ci sono regole per dirimerli; in questa prospettiva consenso e conflitto possono coesistere” (L’idea di giustizia, in Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche).
In altre parole, e vorrei tornare brevissimamente sul pensiero di Thomas Hobbes ma dovrei anche ricordare l’immagine kantiana dello “Stato di angeli, popolo di diavoli”,  ogni Stato per essere tale deve tendere alla pacificazione sociale; ed è così condizione di un ordinamento giuridico sano ed equilibrato - con la sua separazione dei poteri e i suoi checks and balances - che una norma suprema garantisca, prevedendolo, che in caso di “conflitto tra” quelli che sono riconosciuti come organi costituzionali vi sia comunque la soluzione decisionale, giuridica, la quale faccia salvo, dicendo autorevolmente: “questo è ammissibile”, “questo no”, lo Stato nella sua solidità. Che insomma detti conflitti facciano parte dell’ordinamento costituzionale stesso, in modo necessario, e dunque per organizzarlo, farlo funzionare, confermarlo, non per indebolirlo. Che i poteri anche economico-finanziari, per corollario, e parimenti i partiti politici, se è all'ordine giuridico e alla pace sociale che affermano di mirare, debbano dimostrare una coscienza e responsabilità costituzionale e legalitaria.
Si prevedono così, per quanto riguarda il nostro ordinamento, conflitti di attribuzioni sollevati come tali, in modo diretto (“spettava all’organo X e non all’organo Y decidere relativamente a …”, oppure “legificare relativamente a …”), e ve ne sono di impliciti o indiretti, che assumono la forma di questioni di costituzionalità cosiddette “in via principale”, nei quali l’oggetto vuole essere la legittimità di una norma positiva ma lo è sempre in qualche modo l’attribuzione, nel caso specifico, dell’autorità che l’ha emanata. Laddove però gli uni e gli altri debbono valere ad alimentare o se si preferisce a “ripristinare” con continuità - per dire secondo l’ordinario corretto flusso istituzionale - l’ordine costituzionale, non a fiaccarlo.
Sennonché, e questa situazione non avrebbe potuto essere disciplinata dai nostri padri costituenti, vi è un terzo modo di essere del conflitto di attribuzioni e/o di poteri ed è nel fatto che si possa fare di esso qualcosa di tendenzialmente non sanabile, che faccia leva sugli istinti della gente in nome di libertà naturali e selvagge; risolvibile sì ma solo provvisoriamente, ipocritamente; usando gli strumenti offerti dall’ordinamento costituzionale attuale; laddove si sappia solo lasciare intravvedere la eventualità che cambiando le regole attualmente poste dalla Carta quei conflitti - e la loro supposta cattiva incidenza sulle sorti politiche - possano essere evitati, ovvero sanati preventivamente in radice. Può accadere che non tanto si chieda alla nostra Consulta di decidere quanto s’intenda tenere in apprensione o sotto pressione, mostrandone lo squilibrio, non l’equilibrio, l’assetto costituzionale vigente; fissando il dualismo, suggerito presso di noi da teorie del tipo “costituzione materiale”: fra iter risolutivo e procedura previsti dall’ordinamento e realtà “pratica” e meglio: paese reale; soprattutto se è il peggior pratico che assume il comando.
È evidente che i nostri costituenti non avrebbero potuto prevedere (ovviamente nell'animus e) nei suoi termini storici questa condizione, proprio perché essi l’avevano prevista, e meglio: l’avevano data per implicita, con perfetta sensibilità storica, e cioè per negativum, nel tessuto normativo costituzionale e per averne - così affermandola e negandola allo stesso tempo - fornita, secondo un chiaro principio di tolleranza e per lo stesso principio di forma, la soluzione. Ed è altrettanto evidente che chiunque intenda risospingere le costituzioni scritte, pur predicandone il rispetto, verso condizioni immediatamente precedenti il momento pattizio o convenzionale (trasformare la costituzione “materiale” per poi cambiare quella “formale”, come era stato fatto osservare da un nostro parlamentare), può sempre ricondurre sempre tutto al fatto che vi sia patto laddove vi siano rapporti di forza; ma delegittimando in questo modo le norme positive. Ponendo il fatto di contro al diritto.
Un ritorno alla cultura hobbesiana, o a un modo interpretativo del ius naturae? Sia pure; ma è vero che il pensiero della natura pattizia può atteggiarsi non solo al modo di Hobbes e per così dire sino di Darwin ma anche al modo di Grotius o di Kant. Per dire in generale che esso può condurre su lidi opposti l’un l’altro, a seconda di come s’interpreti il patto costituente. Se nel senso di un contratto civile (contratto sociale, civilmente definito) e della legge, che sia posta al di sopra delle teste e degli egoismi degli uomini (e anche qui bisognerà vedere sempre bene quanto e come) o della legge del più forte, più o meno ingentilita con retorica rassicurante. Sta di fatto, in altre parole, che il ricondurre tutto all’origine sembra essere un dato obiettivo, storico, prima ancora che arbitrario. Nel quale contesto i conflitti sono ricondotti sul piano essenziale della storia per la spinta prodotta da vecchie classi che si trasformano o da nuove emergenti; ma in questo a causa di condizioni storiche nuove, dettate prevalentemente dalla economia e meglio dagli interessi e dagli affari. E anzi sembra, su questo punto, che le interpretazioni - che si moltiplicano - siano tutte insufficienti e parziali, prima ancora che rassicuranti, rispetto a un’antropologia imprevedibile (quale si ravvisa ad esempio nella evoluzione delle psicopatologie e del crimine) e a una realtà storico-oggettiva che comunque avanza.
Questo terzo modo di essere dei conflitti di rilievo costituzionale è riconoscibile, anche, ogniqualvolta non si faccia questione di costituzionalità di una norma, non si ricorra cioè al verdetto della Corte costituzionale e invece s’instauri una prassi diversa, si identifichi molto ciò che è normativo in ciò che è materiale, si novellino articoli di codici, di leggi importanti (e meglio fondamentali, come quella del lavoro) o di regolamenti (come quelli parlamentari), si producano con procedura ordinaria (la procedura è importante e la democrazia è nella procedura) disposizioni normative che avrebbero richiesto, per incidere su materie costituzionali, una procedura aggravata, e si cerchi in questo giocando anche d’anticipo sulle distrazioni dei giuristi, di contribuire alla trasformazione della costituzione cosiddetta “materiale”, per consentire lo sviluppo di quella prassi.
Bisogna così ammettere, per quanto suggerisce l’esperienza attuale del nostro Paese, l’esistenza di due partiti e/o movimenti: quello delle soluzioni nel rispetto della costituzione e quello dei conflitti di fatto, selvaggi, irresponsabili istituzionalmente, il quale ultimo si contraddistingue per voler cambiare la forma di governo invece che la forma di Stato; ma laddove non si escluda che la prima possa equivalere all’altra, al di là delle definizioni e delle distinzioni dottrinali.
Vengono allora a formarsi nello Stato due stati (e per meglio dire due partiti o fazioni): uno di fatto (Hobbes, Darwin; ma anche Schmitt) e uno di diritto (Grotius, Kant; ma anche Kelsen), che riescono però a coesistere, laddove nessuno dei due, non riuscendo a spacciare la sua ideologia per ideologia della generalità, riesca a prevalere veramente; che addirittura a causa di ciò possono risultare a tratti intercambiabili o confondibili. È un processo sottile, insidioso, complesso, che nella sostanza sfugge ai molti, o forse ai più, non a coloro che hanno autentiche sensibilità e cultura giuridiche e in questo cultura morale; ma che al di là dell’autentica coscienza giuridica debbono essere ragionatori per principio, o addirittura free-thinkers. E la condizione generale (: civile, politica ed economica) è tale, per cui si può anche vivere e governare in parallelo, per prassi appunto, rispetto allo Stato di diritto, facendo credere con utili e teatrali scimmiottamenti, instaurando un regime di similitudini, immagini, approssimazione e confusione, che si versa in pieno Rechtsstaat e in democrazia, che ce n’è per tutti (ed è la scaltrezza che sarà così premiata) e che solo per questo si possa avere e richiedere - ma cambiando gli equilibri dell’ordinamento - più democrazia.
Paradossalmente, la debolezza del cosiddetto “partito dei conflitti di fatto” si mostra allorquando esso attacca la città fortificata del diritto frontalmente, pubblicamente. Mentre la sua forza consiste nel fatto che essa non tanto cinga d’assedio la città e civiltà giuridica ma che vi stia già dentro con il suo cavallo di Troia (quella mutazione, quella prassi, ovvero quelle leggi e quei regolamenti da novellare e addirittura da produrre ex novo, di cui si diceva), inoculando virus per infettare e mettere nella patologia - espandendola o minacciandone l’espansione - un organismo apparentemente sano; cercando di sostituire alla fisiologia la patologia dei conflitti.
E dunque a chi non si avveda, non scorgendone la portata storica, del gioco sottile, fatto ora di chiasso ora di silenzi, spesso di opportunismi, molto d’immagini e di realismo mediatico, molto d’inquinamenti della scienza politica tali quali il togliere con l’immagine la libertà alla vita reale, a chi non percepisca di vivere fuori dalle regole e meglio del valore dell’altrui, dall’impegno della cultura giuridica, dagli equilibri e dalla ragionevole morale, si sostituiscono i veri rappresentanti di quella città, preferibilmente i membri dell’organo maggiormente assediato, aggredito, sul piano dei suoi rapporti con gli altri organi costituzionali.
Da noi la vicenda è tale per cui l’organo assediato è la magistratura, per cui cioè il conflitto alla fin fine è nell’attacco condotto dall’esecutivo nei confronti sì del legislativo e del valore democratico tuttora insito nel principio del suffragio universale, finanche nei confronti della presidenza della Repubblica; ma in primis del giudiziario. E la partita è tale, per cui si ha a tratti la sensazione di essere tornati alla monarchia; ma le cose dopo si può comprendere che non sono poi così semplici e lineari e che molteplici e di varia profondità storica sono le condizioni che possono essere evocate.
In questo modo il paese reale è indotto a distaccarsi da quello legale; ma ciò accade nel momento stesso in cui il paese reale - e come dimenticare per ciò che essa sempre significherà la storia italiana postunitaria del non expedit e quanto ad essa ha fatto séguito? - è diviso ma  tenuto alla coesistenza e ad esso non è dato più usare il suffragio per puntellare in modo partecipato la legalità e le sorti della res publica.
In tutto ciò il diritto e il bene pubblico naturalmente ne risentono, laddove a quanto accade all’ordine costituzionale corrisponde necessariamente qualcosa che accade al diritto civile o al diritto penale.
Laddove se si è risospinti verso forme pregresse e ritenute superate di rapporti di potere, verso vecchi istituti, allora si può parlare dal punto di vista storico di regressione giuridica. Che ha le sue cause di giustificazione, i suoi motti: a mali estremi estremi rimedi, se la criminalità si espande ci vogliono leggi esemplari, e per fare tutto questo ci vogliono pieni poteri a favore dell’esecutivo.
Gli interpreti della regressione ricorrono così al canone trito, povero, ignorante del cosiddetto realismo o della concretezza o della pura azione; che tanto non può essere bocciata in modo assoluto quanto va valutata nel singolo contesto, muovendo dal principio che il realismo provocando regressione non si mostra amico della cultura e del progresso.
Il diritto, sia come diritto oggettivo, sia come scientia iuris, così ne soffre, inevitabilmente; esso deve pur sempre fare i conti con la politica, come arte del potere; e si fa strada nuovamente, come questione, quella di cui negli anni novecentosettanta Francesco Mercadante si occupava, con chiaro intuito, nel suo libro sulla Democrazia plebiscitaria, ripensando l’esperienza del fascismo e parlando dei regimi à la De Gaulle, incontrando sempre la difficoltà, di stabilire un confine chiaro fra dispotismo e democrazia, o repubblica.
Evidentemente dunque la questione resta, ciò che sembrava sepolto riaffiora, e il ri-pensare equivale al vero pensare. Il fatto cioè che l’esecutivo combatta il legislativo o il giudiziario, non appartiene a un’epoca superata, isolabile e facilmente masticabile, digeribile, attraverso la politologia; esso fa parte invece della stessa natura degli uomini che, riuniti in gruppi, debbano stabilire delle regole, garantendone l’osservanza.
E viene in mente a riguardo del nostro tema qualcosa che può sembrare ad esso estraneo, ma è parte invece di quella natura. Ed è che, pur trattandosi di regressione, a uno stadio storico assai difficilmente si potrebbe tornare, e cioè a quello augusteo, laddove Ottaviano in certo senso aveva fornito dei conflitti fra istituzioni la sua personale soluzione, che recideva alla radice il problema: giungendo a riunire in sé attraverso l’imperium i poteri esecutivo, legislativo e militare e ottenendo attraverso la tribunicia potestas di controllare mediante il diritto di veto le deliberazioni del senato. Ma tutto questo, attraverso la condizione delle armi, avrebbe richiesto un animo eroico.



(articolo del 2009)

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