domenica 29 settembre 2013

I diritti del tiranno (giochi e volti della politica)




Chiunque ha diritto ad avere i suoi diritti. Dunque alla fine anche il criminale ha diritto a essere rappresentato in parlamento: ecco un’affermazione resa dall’avvocato di un celebre primo ministro, che certo è da approfondire, perché si viene a dire così che il criminale può essere eletto democraticamente. 
Abbiamo allora diritti o non piuttosto eccessi di libertà sino alla irrisione della legge, spacciati per democrazia, secondo la descrizione fornita da Platone (Rep., VIII. 106)? Già: è che si tratta di chiunque, giacché questo è radicato nell'animo. 
Ritratto di creonte tiranno greco
Creonte, re di Tebe
E il discorso a questo punto si fa apertissimo: si va dal tiranno (egli non si dichiara tale ma lo è; non si sa fino a che punto egli lo possa essere effettivamente, ecc.), che impone i suoi dicta e i suoi iura con ogni mezzo (e dunque anche con retorica e soavità, non solo in modo autoritario e criminale), al popolo, ai cittadini - e non - che dal canto loro vivono con mitezza o quasi nel quotidiano, all’immigrato, lo straniero poverissimo, che reclama i suoi diritti, sapendo di essere l'altro da sé mai amato e di avere poco da perdere: questo è il copione; nel quale si legge molta biologia, poca ragionevolezza, ancora minore razionalità. E aggiungerei: il tiranno è colui che sempre vorrà esserlo e il suo potere, per essere stato costruito come reazione alle minacce dei nemici, sempre sarà minacciato; sempre egli quindi dovrà ricorrere a ogni mezzo; e ancora: naturalmente il tiranno di Alfieri non è lo stesso di Tocqueville, il quale parlava della tirannide della maggioranza. 

Dunque i diritti dei criminali; non il diritto criminale? Possono esservene di vario grado, di criminali; i quali prima di essere tutti eguali di fronte alla legge ma anche di fronte a Dio, sanno meglio di altri come e perché rivendicare i loro diritti, e qui, data la contrapposizione, il sospetto cade sulla sacralità della persona: forse che una persona è resa sacra e inviolabile per sottrarla alla giustizia umana, il che non costituisce l'ultimo dei profili? Ecco a che cosa equivale la tesi che nessuno può conoscere sino in fondo il criminale (già: che cosa  possiamo saperne noi di ciò che prova una leonessa dopo essersi avventata sulla preda?), o che non ci si può sostituire a Dio nel ruolo punitivo; o che la difesa viene sempre umanamente prima della pena. Ecco dunque un bell'intreccio; ecco, aggiornato nel tempo, che cosa significa spesso rimettersi all'ordalia, laddove può sorgere l’accostamento divertito (?) dell’avvocato dei potenti al camphio, di germanica memoria (: sì, io sono colpevole; ma se il mio campione, che mi rappresenta a costo della sua vita, è imbattibile?). 
Tempi andati? Nient’affatto, per certi versi. Anzi rieccoci sempre allo stesso punto di partenza: chiunque, compreso il criminale (e più il grande, l’uomo istituzionale, che non il piccolo, il quivis de populo), può asserire che solo Dio lo può giudicare; ma con la differenza che tutto ora è ammantato del, e si nasconde dietro il, mito borghese dei diritti, che però appaiono come assoluti, illimitati: non è che il nesso crimine-pena sia razionalizzato in senso egualitario (diritto criminale e non solo) ma è che si giungono a postulare i diritti umani del criminale. Si vuole negare all’ordalia sino il risultato di far morire il colpevole e laddove Dio non si mostrasse infinitamente misericordioso, lì subentrerebbe il popolo, incredibilmente. Dunque siamo un po' senza volerlo confessare al di là del bene e del male, che è la parte peggiore dell'ateismo, o del laicismo o meglio ne è un pessimo pretesto senza essere la medesima cosa. 

Diritto ha significato a suo tempo anche privilegio - e così è tuttora, se si riflette bene, anche freudianamente - e come insegnano storia ed esperienza, il principio di eguaglianza non è uguale a sé stesso. Magia della parola, suo impiego strumentale? Che cosa significa che il tiranno è innocente?
Il tiranno riconosciuto colpevole asserisce con forza o in lacrime (ma come piange egli ride) che egli è uguale all'immigrato poverissimo, che se l’ultimo dei cittadini ha i suoi diritti anch'egli li ha - a fortiori? Pure in quel momento c’è chi - innamorato e ipnotizzato - è disposto a vedere in lui un povero immigrato e una vittima -. Che egli come chiunque altro ha diritto a essere difeso, con ogni stratagemma, e che è naturalmente innocente per ogni suo delitto sino a condanna definitiva (il che a quanto mi è dato comprendere non corrisponde perfettamente al motto: in dubio pro reo).
Il problema, fra gli altri, ora è il seguente: che quello stesso tiranno che non molto tempo fa ci aveva insegnato quanto meno nei fatti che i poveri cittadini non hanno diritti e che egli solo godeva del diritto pieno, ora ci racconta di avere gli stessi diritti dei semplici e degli umili. 
Ora, mettiamo per un attimo che il passato conti poco e che certe esternazioni abbiano un fondamento; appunto nel principio di eguaglianza. Noi giusti, noi miti, gridiamo allo scandalo, ché quel tiranno non può essere posto alla stregua del povero cittadino e dunque sembriamo sconfessare quello stesso principio egalitario che sino a poco fa avevamo sostenuto con convinzione. Parlare a questo punto di paradosso del tiranno? Potrebbe essere un modo elegante di chiudere il discorso, sennonché s’incorrerebbe in questo modo nel medesimo errore psicologico commesso dal tiranno stesso.
A questo punto può emergere un dubbio, o una paura: che il semplice cittadino, o il povero, prenda esempio dal tiranno e che il pericolo stia in qualcosa che si nasconde nel povero, ovvero da quei poveri cittadini che sostengono di avere diritti. Il che può essere vero oggettivamente: ogni povero se cesserà di esserlo, ogni povero pur di cessare di esserlo, farà come quel tiranno. Ma anche a questo punto, poiché la morale è individualistica, non è garantito il circuito politologico. Perché alla radice del problema vi è che il tiranno trae esempio dal povero, o che lo sia stato veramente, povero. E gli è rimasta la fame, o la sete … e interpreterà anche la giustizia in questo modo: essa sarà un suo diritto, quello stesso che gli è stato negato quando egli era povero e che a questo punto è come gli fosse negata sempre («Io sono colui al quale sono sempre negati diritti!»). 
Vi è diritto laddove esso sia negato: ecco un apoftegma - postrosminiano? - interessante, forse però più per ciò che esso nasconde. E comunque l’importante per noi è il profilo della observation. Ovvero non è che chiunque ha eguali diritti ma è che il criminale o il despota possono ritenere e non farne mistero che ad essi siano negati diritti.

A mia memoria, il tiranno platonico non era necessariamente un uomo ricco, proveniente dalle classi agiate; anzi egli doveva essere originariamente un uomo del popolo che si proponeva, e riusciva in tale suo proposito, per rappresentare e gestire gli interessi non solo del demos ma della intera comunità, presso la quale aveva saputo distribuire con opportunismo e abilità concessioni e privilegi. Forse che aveva facilità di carriera proprio perché il popolo s'identificava in lui e i ricchi e potenti avevano poco da invidiargli?
Dunque il paradosso esprime questa paura, che chiude insieme in un labirinto democrazia e oclocrazia tanto quanto democrazia e oligarchia, se al potere sale un personaggio popolare e privo di scrupoli, che ripeterà sempre alla bisogna - e certo anche fra sé e sé - la filastrocca della eguaglianza e dei diritti negati e non saprà fare altro che trasporre nei suoi discorsi di “politico” quella sua metamorfosi, da semplice povero cittadino a capo politico, nella fiaba della democrazia come potere derivante direttamente dal popolo, attraverso il consenso o il voto.
Il popolo me lo ha dato - ecco l’animus - e guai a chi me lo tocca! Laddove il popolo se è dei senza-Dio, è allora che equivale a Dio. Il tiranno è nella sua radice quello stesso popolo che lo ha eletto: vi è legame organico, non più differenza e sino a che punto il popolo dei diritti negati sarà disposto a condannare sé stesso? 

Anche il folle ha i suoi diritti, come li hanno il povero, il potente, il criminale. Abbiamo imparato a conoscere la follia del tiranno in certi regimi politici del novecento (nuova tirannide, invece che totalitarismo?), epoca - e certo altre ve ne erano state - degli homini novi, dei novelli equites, privi di scrupoli; ma che sapevano come tradurre il consenso popolare in partiti, movimenti, ecc. Rappresentanza popolare o di classe istintuale, corrosione e rovina di un mito liberale, quello dei meriti a prescindere dalla classe (o forse che questo non fosse altro che la fabulizzazione di una realtà che si ripeteva troppo spesso?), continuazione ideale invece della psicologia dei parvenus. Degli uomini fatti dal niente, in breve tempo, anzi in un tempo troppo breve; che hanno “lavorato duro” per ottenere agi e ricchezze e potere.
È l’individualismo la malattia mortale, anche del diritto, anche della morale, anche dell’estetismo. E l’individuo è categoria astratta e pericolosa quanto l’eguaglianza è formale sino a prova contraria.
Non è saggio rivendicare la libertà dell’individuo laddove questa abbia condotto a quei risultati ai quali teorizzando l’individuo si crede di poter porre rimedio. Non è così che funziona.
Individuo è il tiranno, individuo è il povero… anche quando si dice cattivo cristiano, cattivo cristianesimo - ricordo il giudizio di un giurista del seicento - è questo che si viene a dire. 

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