domenica 6 ottobre 2013

Eutanasia, questione ENORME




Il medico e filosofo inglese Francis Bacon - siamo agli inizi del seicento - riteneva altamente desiderabile che i medici imparassero «l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità»; insomma il medico nella sua qualità avrebbe dovuto aiutare non solo a sanare ma anche a morire, in caso di insanabilità.
Francis Bacon
Già, è la cosiddetta «dolce morte»; ma il trucco umanitario per sé non spiega sino in fondo la questione - comprensibilmente essa è stata definita un tabù (Alagna, in Riv. it. medicina legale, 3/2012) - e forse l’invito baconiano va meglio apprezzato, secondo il nesso medicina-filosofia.
La eutanasia è una questione importante, credo quanto lo è l'esistenza stessa, o quanto lo sono le condizioni materiali di vita, soprattutto se precarie. Ed è una di quelle grandi questioni che sono state trascurate dal pensiero; laddove per contrasto con l’intelletto medio e ordinario è ancora una volta un medico-filosofo ad avere qualcosa da insegnarci.
La questione può valere quella dell’esistenza di Dio, pur non condividendone la natura. Essa investe gli ordinamenti giuridici - pur quelli che sono avanti nella soluzione del problema - i quali come il Dio “politico” hanno bisogno disperato di esseri viventi e di mitizzare la vita, pur in presenza di malattie. Hanno bisogno, per sussistere, di riferirsi alla vitalità, considerando colui o colei che muore quasi un’ombra, un riflesso, o qualcosa che sfugge e non si può possedere. E comunque qualcosa di cui volentieri non ci si occuperebbe dovendolo invece fare, amministrativamente e ritualmente.
Ora mi domando: l’uomo che muore vale l’uomo che vive? O quanto l’uomo che soffre? In fondo sono sempre lo stesso uomo, la stessa donna, lo stesso vecchio e lo stesso bambino, sovrastati dal male fisico, dalle condizioni dettate dal corpo, da un male di vivere fattosi insostenibile.
La vita dunque è un mito, legato alla biologia, né basso né alto in quanto a profilo culturale e morale. E il vitalismo filosofico esprime bene l’umano affanno, le umane paure, derivanti dalla malattia e dalla mortalità. La questione eutanasia riassume tutto, in un modo incomprimibile, per certi versi impensabile. Il che non legittima moralmente una presa di posizione predeterminata e irrazionale, oscurantista o freddamente progressista; ma vuole tolleranza, riflessione e cultura.

Si può pensare, con riferimento all'età contemporanea, a una eutanasia cosiddetta “politica” e a una eutanasia “negoziale”, come ho scritto altrove. Nel primo caso chi ha il potere di decidere, fatti due conti reputa che la uccisione dei sofferenti aiuti il resto della umanità, o per ragioni di economia o di fanatismo; ma è così che si ammazzano anche persone che non sono condannate dalla malattia. Nel secondo si ha che il malato sceglie egli stesso di non continuare a vivere, che la continuazione debba avvenire o artificialmente o in grande sofferenza.
Pure non stiamo parlando di due epoche o concezioni completamente estranee, l’una priva di sentimenti umani e rozza, congeniale all'omicidio politico, l’altra invece civile; bensì di una condizione psicologica unica ma duale. Laddove il politico omicida come parte del sé si rovescia, nella personalità, nell'uomo della civiltà, il quale si trova ad ammettere, sostenendo l’eutanasia, effetti mortali che sono contrari ai suoi principi. Perché l’uomo civile è anche questa lotta fra inclinazione all'omicidio politico (si pensi anche alla pena capitale) e rispetto e conservazione della vita, che sia vita umana.
Allontanare da sé la sofferenza, il dolore, la malattia e insomma rimuovere quanto si può - comunque e sempre la paura - è parte della natura di ogni essere vivente; l’uomo civile in realtà non è alieno a quel capo politico che ritiene la morte-eliminazione (mettiamo di un condannato a morte o di una persona affetta da carcinoma al fegato) come terapia sociale o “economica” di una comunità. Meglio una cosa è l’inconscio - ma qui è il preconscio -, altra cosa ciò che si dichiara in televisione o si scrive nel web o sui giornali, o per cui ci si batte politicamente. La questione quindi è enorme e lo è poiché chiede di essere pensata.

La frase di Bacone forse conferma quanto emergerebbe da un confronto attuale con il paganesimo, che ammetteva e praticava il suicidio, almeno quanto la morte eroica in battaglia.
L’ordinamento positivo attuale, ben lontano dalle culture pagane forse confonde; ma l’eutanasia non equivale al suicidio o all'aiuto e assistenza al suicidio, o all'omicidio. Sono figure ben diverse e ci si arrangia giuridicamente in paesi influenzati da cultura religiosa ipotizzando un «suicidio assistito», che è una figura contorta, laddove da una parte si parla di suicidio e dall'altra si condanna chi nei fatti aiuta altri a suicidarsi.
Il suicidio però è altra cosa; ha per sé un’arma in più, rispetto alla eutanasia, intesa come morte che libera dal male irreparabile della malattia e libera la natura, contro il dolore, prima ancora che contro il male fisico scientificamente osservato.

Le etimologie vanno guardate con prudenza ma credo non meritino la nostra disattenzione: morire dopo avere ben vissuto, è questo lo eu thànatos secondo un concetto greco-antico, che è se vogliamo il punto di vista del saggio. In fondo Socrate aveva scelto di morire; non era fuggito di prigione e aveva bevuto la pozione di cicuta, aveva pronunciato la sua apologia; e il concetto giustificativo finale era che il filosofo non teme la morte perché l’anima è immortale. Una parodia forse dell’eutanasia negoziale? La cui nascita viene fatta risalire al 1967, anno in cui Luis Kutner coniò l’espressione living will, testamento biologico, rispetto per l’autodeterminazione del malato. Potremmo anche considerarla tale; e questa idea appunto non è da bandire.
Se in séguito la parola è andata assumendo altri significati presumibilmente qualcosa di quel nocciolo socratico è rimasto. La differenza - e di qui può derivare un certo spiazzamento - è che il problema ha investito lo Stato e il popolo. I quali entrambi hanno spesso mostrato di credere semplificando che l’omicidio sia sempre eguale a sé stesso e che lo stesso debba dirsi del suicidio. Dunque è un po’ come se avessero rimosso e costruito sulle rimozioni forme di potere opposto ai diritti umani.

Ma forse che anche quella di Socrate fu condotta rimozionale, poiché l’immortalità dell’anima poteva essere scambiata con l’autoillusione e a Sparta e ad Atene si praticava la eugenìa? Anche se solo i più piccoli ne erano le vittime? 

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