sabato 28 settembre 2013

Una costituzione moderna eppure "posmoderna"? (La spiegabile insofferenza dei costituzionalisti seri)




Il professor Paolo Grossi, storico del diritto, attualmente membro della Corte costituzionale, in una lezione dottorale del giugno 2013, inquadrava la nostra Carta fondamentale del 1948 nella cosiddetta età “postmoderna” (o “pos-moderna”, come egli preferisce dire). Laddove l’idea critica che scorre sotto il postulato è l’astratto individualismo delle costituzioni borghesi. Ma si tratta di una esatta cornice o non piuttosto di un contesto? 
Ciò per cui l'insigne giurista viene a parlare di postmoderno è la fine della modernità quale individualismo delle carte dei diritti, quelle americane e francesi del settecento per intenderci, e il fatto, in ciò, che mai, come durante l’epoca di cui da tempo si celebra la fine, «si è avuta una separazione tanto netta e una distanza tanto estesa tra Stato e società. La società era concepita come il regno della irrilevanza giuridica nella sua ripugnante magmaticità fattuale, una sorta di basamento amorfo sepolto ben al di sotto dell’apparato statuale e ad esso estraneo nella sua imprescindibile materialità; una materialità socio-economica che, agli occhi del giurista moderno, non aveva qualità differenti da una struttura geografico-fisica o geologica» (La costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno, in Riv. trim. dir. pubblico, n. 3/2013, p. 609).
Dunque si aveva in quelle carte il «lucido progetto giuridico borghese», ovvero: «la concezione di un diritto voluto in alto e che dall’alto piove sulla società» (ivi). L’uomo dei diritti, il moderno soggetto giuridico, era in quelle carte presente/immaginabile solo in un uno stato di natura a-storico, non era il pover’uomo «in carne ed ossa», o il povero cristiano, lasciato solo con sé stesso nelle pene e nelle pieghe della vita quotidiana, ecc. ecc.
Caratteristiche, quelle di tale costituzionalismo, che non si sarebbero ripetute nella nostra Costituzione repubblicana - ai cui lavori preparatori il professore fa specifico riferimento in modo incoraggiante -, secondo la quale, per riprendere le parole di Giorgio La Pira, «esiste una anteriorità dell’uomo rispetto allo Stato; l’uomo ha valore di fine e non di mezzo» (ivi, p. 615).
Lavori dell'Assemblea Costituente
Dunque - pur non volendo tralasciare la valenza liberatoria delle déclarations e carte borghesi e ritenendo che l'anteriorità dell'uomo sia più concreta di un astratto individualismo - personalismo della nostra Costituzione; affermazione in essa, in un paese a forte vocazione cattolica, del principio personalista, prima ancora che di quello lavorista (cui pure diedero valore uomini come Fanfani e Moro); e su questo punto qualificante direi che si può aggiungere ben poco. Insomma personalismo cattolico, non marxista, non lavorismo marxista; ma su cui marxisti come Togliatti e socialisti come Basso non poterono non convenire, per fondare una repubblica per così dire umano-democratica. Anteriorità - va sottolineato - della persona non astratta ma, oltre che in carne ed ossa, nelle sue espressioni/formazioni sociali: enti, persone giuridiche, e persone fisiche; ecc. Il che può dirsi in qualche modo rivelatore. 
Se vogliamo, sul piano delle differenze in quanto all’oggetto delle disposizioni della Carta, una siffatta impostazione ci riparla della differenza specifica tra costituzioni brevi e costituzioni lunghe: aspetto anche questo di una evidenza generale acquisita. Ma è la componente della storicità, l’aver voluto i costituenti rispettare quel determinato momento storico, che il professore tiene a sottolineare (ivi, p. 618), che mi ha incuriosito. Ovverosia: una Costituzione in senso personalista e/o personalista-e-sociale, può dirsi postmoderna? In altre parole: un Togliatti quanto poteva comprendere del postmoderno: non aveva forse egli a che fare con il capitalismo classico? 
Di più, mi domando ora sulla base delle mie letture: quando si ha nella cultura occidentale la percezione del tramonto della modernità (ne scriveva Vattimo anni or sono con riferimento alle arti figurative, all'architettura e alla letteratura in un libro divenuto un classico - ed eravamo negli anni ottanta)? Quando s’inizia a ritenere, da parte di pensatori insospettabili, che Nietzsche avesse ragione, su tante cose? E ancora: quando il capitalismo, per come esso si sarebbe sviluppato nell'ottocento, iniziò la sua parabola discendente, ovvero quando si sentì che esso non era più lo stesso, o sé stesso? Quando si avvertì l’insufficienza sul piano interpretativo della idea di progresso, o si fece eco alla celebre locuzione «fine della storia»? O quando l’idea di superamento di matrice hegeliana fu investita da una critica robusta, non infondata? Perché si poterono imputare a Cartesio e agli illuministi addirittura i campi di sterminio, come ha fatto la scuola di Francoforte? Da quando - ancora - si ebbe la sensazione di certi ritorni storici del o al medioevo, con la teoria ad esempio del New Medievalism? Tutti tratti che sono quelli, raccogliendo le testimonianze di filosofia, sociologia ed economia, caratteristici del postmoderno?
Sembra, alla luce di queste domande, che il postmoderno sia piuttosto alieno che non congeniale alla nostra Costituzione repubblicana. Postmoderno è l’exploit, la spinta fornita dal neoliberismo, anche se questo aspetto va colto nel suo forte contrasto con una cresciuta coscienza universale dei diritti dell’uomo: questa che dice di quello. Postmoderno (ma già hitleriano prima che neoliberista o volgarmente liberale) è l'abbattimento del principio di solidarietà. Postmoderna può ritenersi la debolezza degli stati nazionali nati col romanticismo ottocentesco, a fronte di un sociale, che però non ha nulla di una totalità lineare, e che non necessariamente esprime un che di positivo. Ma - mi domando - è tale debolezza scambiabile facilmente con un diritto personalista, se le forze che mettono a morte la persona e l’individuo sono quelle stesse che sottraggono potenza agli stati nazionali? Insomma: i totalitarismi europei del novecento, che Ernst Nolte volle riunire in un famoso volume - su i tre volti del fascismo -, sono già o sanno già di postmoderno? O il fatto che gli stati forti avessero negato l’individuo nelle sue libertà ed esistenza tentando di sterminarlo depone decisamente in senso contrario?
Dico “sembra” perché non ne sono certo sino in fondo; per il semplice fatto che è incauto tuttora attribuire alla parola postmoderno una valenza univoca.
Dunque pur non nascondendomi qualche dubbio sul conto delle tesi del professor Grossi, sono convinto che egli abbia il merito di averci ricordato che la diagnostica del postmoderno è tuttora incompiuta. Essa si è soffermata piuttosto su alcuni tratti nuovi, non esaltandoli come positivi; ma parimenti bisogna rilevare, come dimostrano Häberle da una parte e la revisione della teoria delle fonti dall'altra, che è il diritto a necessitare di una sua definizione più confacente all'èra postindustriale. Una sua rilettura, anche filosofica. Magari un diritto per così dire "schierato"? 
E qui entra in gioco la possibile immagine del postmoderno come lotta, contrasto fra il bene e il male. Cose vecchie e cose nuove messe assieme ma che confliggono; a meno che non si vogliano forzare un po’ le definizioni, per approdare a una interpretazione voluta (un appello, un impegno morale) del postmoderno quale anche epoca del sociale e dell'umano di contro alla immoralità-antigiuridicità del potere costituito, meglio incessantemente costituentesi. Dunque una immagine di conflitto, anche violento, non facilmente analizzabile, tra forze contrapposte. Laddove se ci si schiera dalla parte del bene, il problema è sempre quello di dove collocare l’irrazionalismo postmoderno del pensiero e delle potenze economiche che si dice lo contraddistinguono

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