domenica 15 settembre 2013

Le "bonnes mœurs" (ovvero se la morale popolare sia elevabile a criterio della giuridicità)



Le bonnes mœurs «sont les habitudes, les usages conformes à la moralité, à la religion et à la culture d'un pays ou d'un peuple. Elles constituent un ensemble de normes, le plus souvent coutumières, en partie formulées dans les traités de civilité et dans les règles de droit civil et pénal. Elles varient selon les peuples et les époques, et constituent l'un des objets d'étude de l'ethnologie et de la sociologie comparative historique».
Definizione complessa, non v’è dubbio, questa che mi è dato trarre da Wikipedia; e così dev’essere, perché ogni ordinamento giuridico avrà le sue lacune fino a quando vi sarà qualcosa nella morale che il diritto non riuscirà mai a prendere, così come accade all'evento che esso sia irriducibile a fattispecie
La questione è tale per cui se essa è morale allora è giuridica
Come tale essa fu posta nel code civil napoleonico, nel suo clima formativo, laddove si trattava di salvaguardare congiuntamente, secondo la Présentation di Portalis (cfr. G. Terlizzi, Il contratto immorale tra regole giuridiche e regole sociali, Napoli 2012, p. 19), morale e legislazione. E bisognerebbe capire bene dove si giunga con quel “congiuntamente”.
Prima la clausola «buoni costumi e ordine pubblico», riferita ai contratti, era apparsa nella Encyclopédie, alla voce Convention: dunque doveva trattarsi di un prodotto o cammino di razionalizzazione.

In tal senso, da una parte non ci si deve stancare di notare come il principio delle bonnes mœurs, meglio della non contrarietà ai buoni costumi, sia stato pensato in contrapposizione al potere e arbitrio dei giudici, al loro rigido moralismo e/o spirito settario. I giudici erano la corporazione protettiva della monarchia - e della cultura giuridica medievale - e se erano ritenuti intrisi di moralismo religioso, ciò va posto in relazione col fatto che essi erano uno dei grandi ostacoli all’affermazione prima illuministica poi rivoluzionaria del primato delle leggi sugli uomini e così della laicità dello Stato sul suo carattere confessionale; laddove l’un effetto era insomma destinato a travolgere l’altro.

Ma dall'altra parte è anche vero: il contratto, l’obbligazione, sono parte integrante del sociale nel diritto. Il diritto pubblico come la politica non debbono essere pensati troppo remotamente rispetto alla dottrina e disciplina dei contratti, laddove le obbligazioni hanno sempre pesato nel rapporto tra le classi sociali (si pensi alla vicenda romano-antica dei patrizi e plebei). 

Già, la politica. Sul tema in generale la spiegazione di Napoleone credo sia la più eloquente: non vi sono buoni costumi se non in subordine all’ordine pubblico; perché in certo senso sono solo il diritto e lo Stato a poter garantire. E Téophile Huc, epigono o quasi della scuola della esegesi, riteneva le bonnes mœurs inutili come categoria per sé stante e che comunque esse fossero valide «en tant qu’elles sont protégées ou déterminées par le droit positife» (Commentaire théorique et pratique du code civil).

Ma la questione non si sarebbe conclusa lì e il progressivo allentamento nel tempo della presa rivoluzionaria, il riflusso insomma (: romanticismo, storicismo, positivismo), spiega alcune posizioni, di giuristi, che ritengo interessanti.

Che cosa dire, in un modo più incisivo del formalismo e tecnicismo giuridici, delle bonnes mœurs? Nell’orientamento sociologico di René Demogue, la identificazione di un siffatto criterio valutativo della giuridicità di un atto o della legittimità di un contratto è rimessa alla non condannabilità da parte dell’opinione pubblica: «seront donc valables des actes en eux-mêmes à desapprouver si l’opinion publique ne les condanne pas»; ovvero: «Les bonnes mœurs ne se déterminent pas d'après un idéal religieux ou philosophique, mais d'après les faits et l'opinion commune» (Traité des obligations en géneral, Sources des obligations, t. 1, p. 30)

Siamo nel primissimo novecento e il posivitismo del prof. Demogue poggia sulla pretesa inidoneità e della ragione (ma esiste anche una raison cristiana) e della verità religiosa a decidere della moralità o immoralità di un contratto. Ciò che sarebbe dovuto contare, in sede di giudizio civile, era dunque la morale corrente, la pubblica opinione: non vi sarebbero dovute essere interferenze né dell’autorità religiosa né dei razionalisti. Così sarebbe stato ad esempio anche per il prof. Beudant (Cours de droit civil) ed è bene prendere nota delle analoghe posizioni assunte in Italia da Filippo Longo e Francesco Ferrara (Il contratto immorale, pp. 40 e ss.), i quali tenevano a sottolineare i cambiamenti della morale corrente e insomma il suo carattere evolutivo. Già: più evolutivo o più instabile?
E qui la prima domanda che si pone è la seguente: e se l’opinione pubblica o la morale popolare fossero corrotte e/o ammettessero o fossero inclini a perdonare questo e quel delitto, che cosa si otterrebbe? Una legge ingiusta è sempre possibile, secondo l’insegnamento cristiano e non solo; ma fino a che punto è pensabile una legislazione positiva integrata da norme non scritte immorali? Esse invece dovrebbero sempre essere morali, per definitionem; la morale dovrebbe essere sempre eguale a sé stessa; e allora? Presumibilmente quei contratti che alcuni riterrebbero morali, dovrebbero esservi necessariamente altri che li ritenessero immorali: solo in questi termini si potrebbe versare nel dubbio, che il diritto in fondo vuole, sulla legittimità di un contratto. Dunque credo, per usare una immagine, che al nostro tavolo manchi una gamba.
Alla sociologia nel nostro caso va riconosciuto non so se il merito di avere tentato di emancipare il giudizio e dall’autoritarismo religioso e dal confessionismo giuridico, ancor prima forse che dalla morale; essa però incontra il limite, ché è ad essa che si affida, della morale popolare reale, che è a sua volta, nella sua complessità strutturale, psicologica, mutevole, religiosa e/o superstiziosa.
Il limite della sociologia è in ciò, che essa allontana dalla essenza dei problemi, che chiedono razionalità: nella specie, se un popolo è corrotto, esso lo è sia di fronte a Dio sia di fronte a una morale razionale, segnatamente se questa si è sviluppata in senso universale. Eppoi qualsiasi condotta per avere rilevanza giuridica va sempre pensata, o tradotta teoricamente.
Se oggi, per stare al diritto delle obbligazioni, da una parte si segnalano conquiste civili quali il cosiddetto «contratto del consumatore», o la tutela della parte contrattualmente debole, dall’altra vi è dietro l’angolo una psicologia popolare la quale può essere vista come fragile, oscillatoria, insicura, troppo emotiva, inaffidabile, pretestuosa. Una cosa insomma è il popolo se con questa parola s’identifica un criterio che si vuole popolare per dire generale, o come riferimento alla ragione e al buon senso, altra il popolo reale, grigio, immediato, impulsivo del «crucifige!». E la sociologia se non è a quest’ultimo che sembra volersi rimettere in modo totale, nella sua ricerca della immediatezza allenta un po’ i legami assai forti fra morale e diritto. Sociologia che alle volte richiama la demagogia.

Alla teoria di Demogue, che alla fine sarebbe prevalsa nella opinione - e dovremmo domandarci come questo sia potuto avvenire, anche pensando alla sociologia giuridica italiana -, si sarebbero contrapposte le tesi di Georges Ripert (La régle morale dans les obligations civiles; cfr. Il contratto immorale, cit., alle pp. 31 e s.), favorevole a una positivizzazione giuridica dei principi della tradizione cristiana (il libro, alle pagine 51 e ss., parla della vicenda del Québec), consolidata e portatrice di virtù (così sarebbe stato anche da noi nelle valutazioni di Stefano Trabucchi: ivi, pp. 45 e ss.). La regola morale, per penetrare nelle obbligazioni, sarebbe dovuta consistere in qualcosa non di mutevole ma di consolidato e affermato, universalmente condivisibile, dotato di una sua rigidità. Perché il popolo ha sempre avuto una visione egoistica - per non dire, aggiungo io, antigiuridica - del diritto, noncurante del valore dell’altro da sé. Il popolo non ama l’altruità come fonte di doveri e diritti e giustifica per lo più gli atti egoistici, il personalismo, dei quali il suo sentimento (anti)giuridico è impastato.
Georges Ripert
Da una parte dunque è forte il sospetto che una visione sociologica delle bonnes mœurs tolga qualcosa al costrutto morale che sempre dovrebbe alimentare il diritto positivo (se non proprio scongiurare, secondo quanto riteneva Ripert, che la regola morale s'imponga al mondo giuridico); dall’altra è che la rigida imposizione di una morale religiosa potesse e possa fare torto alla partecipazione del popolo alla vita e crescita giuridica in senso sociale di una nazione. Dunque le risposte sono sempre politiche; fanno parte del linguaggio favorevole al potere.
Opportunamente recita un titoletto del libro in questione: «teoria idealista di Ripert», come dire: teoria ingenua; che a me personalmente ricorda quella di un ex direttore di banca, persona squisita, mite e sincera, che asseriva candidamente che la banca lavora perché il denaro collimi con il bene dell’umanità.
E allora il punto è: se Ripert accusa la teoria sociologica della moralità dei contratti di debolezza, allora che dire del suo pensiero, che si fa forte (a questo punto direi realisticamente) della tradizione e dunque è debole in certa sua quale difficoltà di elaborazione teorica? La quale consiste sostanzialmente nel confessare la impossibilità di una morale razionale e di una morale razionale universale? Questioni e limiti di pensiero presumibilmente soggettivi, però, se furono altri cattolici francesi di fine ottocento a fondare una disciplina chiamata diritto internazionale o se il personalismo filosofico ammette e sostiene il valore di una moralità razionale, razionale secondo i principi della ragione universale (e necessaria), della ragione in sé, di contro a morali parziali (Rigobello).
Ma è poi la omogeneità lì per lì insospettabile delle due teorie contrapposte a colpire l’attenzione. Perché l’elemento comune è il popolo che comunque resta tale. Il popolo dei gretti egoismi personali, lontano da quel senso del dovere che è fondamento di ogni morale e alimento di ogni diritto. Ma è anche il popolo per dire la difficoltà di progressi teorici accettati e di non so quale concezione del diritto, segnatamente penale. Persino un popolo di diavoli secondo Kant si sarebbe potuto governare bene con la forma repubblicana di Stato ma soprattutto in questo con buone leggi. E dunque? Giocarsi il popolo ai dadi?
Il discorso quindi inevitabilmente (ma la cosa è fondata, altrimenti perché Napoleone avrebbe parlato di ordre public quale fonte delle bonnes mœurs?) trascorre dal tema dei buoni costumi in quanto a causa del contratto a quello dell’ordinamento giuridico. E investe, poiché diritto civile e diritto pubblico si dimostrano inscindibili per lo meno qualora si argomenti di diritto e morale, questioni che si presentano con una frequenza maggiore di quanto superficialmente non si veda.
Ciò che è in discussione nel confronto fra gli orientamenti sociologico e confessionale forse è più l’elemento popolo che non quello del - per così definirlo - confessionismo giuridico. Perché ad esempio - mi domando - il popolo plaudiva alle esecuzioni capitali in piazza e credeva poiché le tollerava a ciò che vedeva?
Perché per la stessa rivoluzione francese il nesso popolo-potere trovò il suo luogo e rito simbolici nelle esecuzioni e nel carattere innovativo della ghigliottina? Una prima risposta al quesito è: il popolo ama ciò di cui ha paura, sino a trarne simpatiche sofferte filastrocche - è il caso lampante della ghigliottina. E già questo non ne fa forse un buono strumento di valutazione.
Inoltre: perché quello stesso popolo che applica rigorosamente e rispetta le leggi democratiche si innamorò di Hitler? E potrà amare sempre nuovi tiranni? 
È insomma il popolo della Hitlerjugend o il popolo mistico-romantico di una grande nazione che ama fare guerre "umanitarie", o il popolo dei referendum ciò che la sociologia consiglia al diritto? O non si tratta magari di una mediocre politologia? O non è ancora che ci si aggrappa alla idea che usi comuni possano essere disapprovati dalla psicologia popolare (Coviello), quasi questo potesse sistemare le cose una volta per tutte? 
Se il popolo dunque come criterio giuridico può lasciare perplessi, allora bisognerà trarre altrove le fonti della morale quale criterio integrativo della giuridicità. Anzi direi che la questione del fondamento della giuridicità del negozio qui passa quasi in second’ordine, rispetto a quella di una giustificazione di ordine pubblico.
Oggi se la questione della moralità e/o giuridicità dei contratti e della lex mercatoria è questione assai scottante, forse decisiva, ciò va interpretato nel senso che quella contrattualistica ha esiti nel diritto costituzionale e in quello penale e contabile. Dunque se spostiamo l’attenzione dal confronto Demogue-Ripert a quello più generale e meno tecnico del rapporto vivo fra diritto privato e diritto pubblico siamo nel tema.
Mi domando dunque conclusivamente: è ammissibile dire che un popolo è fonte di criteri morali solo perché popolo (la dottrina canonica del populus Dei sembra meno rigida)? È ammissibile dire che il popolo è immorale e se sì in forza di quali principi? E ancora: se lo è, è possibile che si abbia un diritto immorale? ecc. E anche, alla base di tutto questo: che cosa si ottiene svuotando con zelo positivistico la morale di ogni sentimento umano-sociale o caritatevole per consegnarla alla sua equivalenza con il costume? Perché a quel punto si ha nuovamente ma solo come pregiudizio ciò che si era voluto negare perché contenuto religioso; chi infatti ci dice esattamente in che cosa alla luce della migliore sociologia la religione si differenzia dal pregiudizio o dalla superstizione?
Personalmente credo, per semplificare, che ogni diritto oggettivo sia sempre in parte morale in parte immorale; e che le dosi rispettive varino, ché nulla è perfetto. Credo per connessione che tale sia la provvidenza giuridica per cui ciò che è pensato come regola per i molti o per i più valga a condannare e sanzionare i pochi o i singoli che siano stati autori di delitti, quasi nel diritto scritto il bene morale fosse non azzerabile. 
Potrei dire a questo punto, pensando alla elaborazione dei contenuti giuridici, che credo negli illuminati, anche nel cattolicesimo illuminato, se non fosse che l’affermazione andrebbe a cozzare contro le immagini mentali sia di quei populisti che non fanno mistero di esserlo, sia di quelli che invece per difendersi accusano gli altri di esserlo. 

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