sabato 7 settembre 2013

L’èra “dell’occhio” (nascita del mondo tipografico)





L’uomo “dell’occhio”.- “Il cubicolo di lettura del monaco medievale - recita un titoletto della Galassia Gutenberg - era di fatto una cabina di audizione”[1].
Poi, invece, con la nascita dell’uomo tipografico si sarebbe avuto il “passaggio di una società da moduli audio-tattili a valori visivi”[2]; ovvero, più in generale: il carattere tipografico “assicurò la supremazia della propensione visuale e infine suggellò la fine dell’uomo tribale”[3].
Parlando dell’origine dell’età gutenberghiana, la mediologia insiste su due aspetti: la forte crescita delle esperienze visuali - la “intensa vita visiva stimolata e favorita dalla scrittura”[4] - e la fine dell’uomo tribale. Come, parlando del medioevo, essa focalizza l’attenzione sull’udito, e altrove sul dominio delle esperienze audio-tattili, così, parlando dell’uomo tipografico, essa teorizza l’avvento di un’èra visiva.
Chi è allora l’uomo di Gutenberg, secondo chi ne ha teorizzato l’esistenza specifica perché ne ha intuito il declino, o il compimento? È l’uomo che viene sottratto al mondo delle suggestioni dell’orecchio - della parola subito pubblica, tribale, sociale; della magia della parola e dei suoni; del verbum e della recitazione dal vivo - ed è tradotto in quello della vista (più freddo, neutrale, silenzioso...), nel quale la parola si fa mentale, privata, quanto riproducibile visivamente, all’infinito.
Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, nella lezione luhaniana, l’occhio si è potenziato, si è separato nel suo esercizio dagli altri organi di senso, assumendo una supremazia, semplificando la complessità dei sensi, dissolvendo “l’intreccio tra le diverse proprietà di tutti i sensi” [5]; proiettandosi e moltiplicandosi nei caratteri di stampa e venendo a incidere così sul corso storico delle cose.
In certo modo è un’epoca di silenzio, quella tipografica, proprio laddove è la lettura non acustica che si afferma: lectura in silentio. Ed il fatto che questo avvenga mentre la lettura diventa merce, valorizza il discorso sulla sensibilità, non lo comprime.
Che l’uomo sensibile conquisti la ribalta, come uomo dell’occhio, non dovrebbe essere ritenuto eccessivo: non appartengono al solo McLuhan certe intuizioni storiche sulla sensibilità; ed egli si riallaccia, nell’esporle, agli studi di autori come Carothers[6], o Chaytor, il quale già descriveva il “progresso dalla scrittura a mano alla stampa” come “la storia della graduale sostituzione di metodi visivi di comunicare e ricevere le idee al posto di metodi uditivi”[7].


La specularità tipografica.- Èra dell’occhio, èra visiva, significa: la pagina, i caratteri di stampa, diffondendosi e facendo il mercato, producono un mondo di sensazioni visive; questo, per il lettore, per l’uomo “letterario”, equivale ad un poter abbracciare tutto con lo sguardo; a spingersi oltre, con lo sguardo. Il che dà luogo a una certa quale specularità, o forse prima specularità, della cultura.
Il literate man può essere considerato così anche un uomo speculare, e parimenti: nella realtà letteraria un intero popolo può vedersi[8], specchiarsi; catturati la storia e il tempo, è agevolata la formazione di una “moderna” coscienza nazionale; ad esempio: non vi sarebbe stato sentimento di una nazione germanica senza la stampa della Bibbia tradotta da Lutero. E forse si può ritenere sia così anche con la nascita del romanzo storico. Ma più in generale è il romanzo stesso che può farci pensare ad uno specchio.
Specularità tipografica significa: io sono per ciò che vedo, sono per ciò con cui m’interfaccio; sono per ciò in cui ho modo di specchiarmi e riconoscermi leggendo e interpretando. Ed anche: se io sono per ciò in cui mi specchio leggendo, io tendo a somigliare a ciò che così vedo. Così gli ideali di libertà ed eguaglianza possono essere ricollegati alla forma tipografica di omogeneità, eguaglianza e ordine; ed anche: gli eserciti degli Stati moderni - secondo McLuhan - tesero a riprodurre nella loro organizzazione la pagina stampata, con il suo ordine[9].


Ma che cosa significa ancora specularità? Ad esempio: che cosa - mi domandavo giorni fa seguendo una intervista televisiva - corrisponde al fatto che la locuzione macchina dell’uomo ha preso piede nelle nomenclature tecnologiche o scientifiche[10]?
Era l’intervista ad un noto fotografo, il quale sosteneva cose di buona suggestione: che la fotografia ferma immagini ma che sono in movimento, che essa mette a nudo la persona, ne rende manifesta l’anima laddove aggiunge un “occhio” che veda cose che altrimenti non si vedrebbero; che se togliamo dal nostro sguardo una fotografia, togliamo la contezza della realtà, che altrimenti non vedremmo, ecc.; parlando, sempre, di arte da un lato e di realtà come un che di unico dall’altro.
Notavo insomma che si veniva ad argomentare di fotografia come di un universo, in cui ogni aspetto fosse da sempre appartenuto ad altra cosa, rispetto alla stessa fotografia, ma che la macchina fotografica soltanto avrebbe potuto rivelare. Specularità dunque che viene così a significare: cogliere, fermare la realtà ma come se la sua essenza fosse di moto, non statica, con uno strumento che solo tale di volta in volta la rivela.
Quindi, per ricollegare questo al nostro discorso, direi che speculare è ciò che è dovuto ad uno specchio; ma anche nel senso di uno strumento non semplicemente riflettente e che invece consente di vedere cose, realtà, che altrimenti non si potrebbero vedere. Questo per dire che una tecnologia successiva può aiutare a capire di più di altra, che l’abbia preceduta; ma per dire anche che la prevalenza di tale tecnologia ha necessariamente i suoi ragionevoli effetti.


Gli alfabeti fonetici.- Che nasca e si affermi nell’età tipografica l’uomo “dell’occhio” in certo senso è conseguente, se già l’alfabetismo “ha estromesso l’uomo dalla sua tribù, gli ha dato un occhio al posto dell’orecchio [...]”; se “amplificando e intensificando la funzione visiva, l’alfabeto fonetico diminuì il ruolo dei sensi dell’udito, del tatto, del gusto e dell’olfatto; permeando la cultura discontinua dell’uomo tribale, trasformando la sua armonia organica e complessa sinestesia in quel modo di vivere visuale, uniforme e logico che noi consideriamo ancora la norma della esistenza ‘razionale’“[11].
Dunque il fatto: che si affermi nell’età tipografica l’uomo “dell’occhio”, è legato all’altro, che gli alfabeti rispondono già ad una forte istanza visiva; essi sono la traduzione in oggetto visivo, e rappresentativo, delle molteplici sensazioni causate dall’esperienza, per cui garantiscono, alla coscienza sensibile, una continuità. Che in altre parole la scrittura quale tecnica, la tecnica quale scrittura, è una estensione della vista, estensione data su spazio e tempo[12], ovvero è un guadagno, una espansione del campo di azione dell’organo della vista, il quale in forza degli alfabeti, delle prime scritture alfabetiche - pittografiche e geroglifiche -, ha ottenuto, per sua utilità, la traduzione del fatto e della sua descrizione orale in immagine; poi, con gli alfabeti fonetici, la traduzione anche dei suoni in immagini (“un occhio che si dà, in cambio di un orecchio”[13], ma nello stesso tempo: scissione di segni e suoni “dai loro significati drammatici e semantici”[14]); venendo l’alfabeto fonetico ad occupare appropriandosene il campo riservato tradizionalmente all’udito e più in generale a “diminuire l’importanza degli altri sensi”[15].


La storia del libro.- L’uomo tipografico, l’uomo letterario, nasce nel quattrocento; ma si scopre, attraverso la sua teorizzazione, che la storia del libro - un sistema di azioni, bisogni, cultura, orientati in un certo modo - è assai radicata: essa dura in fondo dai tempi di Cicerone, per ritrovarsi già in quell’epoca abitudini essenziali che sarebbero state medievali prima e poi moderne: abitudini a scrivere, a trasmettere, a volere e a volere far leggere, ad istituzionalizzare.
La storia del libro lo è, molto, della memoria e della sua artefazione, o messa in opera; è una storia legata a secoli di manualità, di trascrizioni; è, prima che libro scritto o stampato, la storia stessa della cultura scritta. Ed è ancor prima, in ciò, altra storia: del linguaggio, degli alfabeti, della memoria, della sensibilità, nella quale essa s’inscrive, non potendo identificarvisi pienamente.


L’uomo “universale”.- Dire “uomo dell’occhio” non è lo stesso che dire uomo “universale”; ma la proclamazione dell’uomo universale, l’occidentale uomo “dei diritti”, è fatta dall’uomo dell’occhio, allorquando la carta, la cultura scritta, attraverso le moderne dichiarazioni dei diritti, assumono un valore positivo, trainante, fortemente retorico, compensativo; si addice a un mondo oltre-che-nazionale (come dire: Diritti universali, catechismo nazionale[16]) tanto ambizioso quanto assurgente (nella psicologia) a una vita sua propria.
Solo in questo senso e in questi termini, solo cioè a causa del fatto che l’uomo moderno occidentale - l’uomo del “Terzo Stato” - proietti la sua immagine oltrepassando gli stati e le nazioni e la diffonda dovunque con la “carta” stampata, in un modo ripetibile all’infinito, più spendibile, commerciale e produttivo, si può ammettere che l’uomo dell’occhio è anche - o diviene chiaramente a un certo punto - l’uomo universale.


La cultura moderna ha avuto una sua fisica e una sua metafisica. Parlo delle culture occidentali; almeno per ciò che noi siamo abituati a considerare, con riguardo alla storia moderna.
Derrida parla della metafisica d’occidente in termini di “mitologia bianca”: il pensiero occidentale si fonda come il pensiero degli uomini bianchi che pretendono di universalizzare il loro peculiare modo di filosofare[17].
Quando si parla di uomo universale dunque si parla anche di mitologia, di pretesa, d’illusione; pur supportate bene dai fatti, nell’età moderna. Ma si parla di questo come potestà ideologica (far apparire l’uomo particolare come uomo universale, cambiare la geografia) per dire anche di proprietà tecniche, possibilità legate sottilmente ad aspetti materiali e tecnici. Laddove appunto la storia insegna che molto è lotta per l’ideologia universale; distinzione assai radicata fra il bene e il male, forma del Bene - che oggi, per scivolare all’oggi, con internet (essere “dentro” ed essere “fuori”) sembra riscuotere un grande successo.


Universale - secondo quanto possono trasmetterci i dibattiti filosofici dell’età di mezzo, là dove la filosofia era sganciandosi dalla teologia che avrebbe poi potuto mettere le ali -, è ciò che “precede il reale”. E l’insegnamento, se esso è tale, può essere ritenuto prezioso, se si pensa che ogni segno, ogni traccia di universalità, reca in sé l’allontanamento da qualcosa, per non dire l’inganno.
Salvo considerare in positivo, ovvero seguendo la regola della “libertà-necessità”, il caso che questi universali si dimostrino tecnicamente pregevoli, o comunque utili ad un mondo vieppiù tradotto in tecnica che valorizza la produzione industriale, come sistema - anche - della economia della vita, finanche di umanamento.


(tratto dall’e-book Crepuscolo dell’uomo di Gutenberg)




[1] La galassia Gutenberg, p. 134.
[2] Gli strumenti del comunicare, p. 157.
[3] Dall’occhio all’orecchio, p. 35.
[4] La galassia Gutenberg, p. 74.
[5] Utilizziamo qui alcuni brani di G. Kepes, The Language of Vision, citati da McLuhan, alla p. 177 della sua Galassia.
[6] La galassia Gutenberg, pp. 42 e ss.
[7] Ivi, p. 129. Ma, più in generale, cfr. della medesima opera le pp. 119 e ss. (Il brano, di Chaytor, è tratto da From Script to Print).
[8] La galassia Gutenberg, p. 288.
[9] Ivi, p. 295; cfr. anche Dall’occhio all’orecchio, p. 35.
[10] La macchina dell’uomo ha preso piede nelle nomenclature, laddove non si parli più del corpo come di un insieme di “ruote e pulegge” (Lamettrie) ma ad esempio - nella psicologia del linguaggio - di switches, files, ecc., volendo indicare alcune funzionalità del nostro sistema nervoso.
Il nervo, sosteneva ad esempio Neumann, è un interruttore binario. È solo un postulato, è cioè una verità superabile, integrabile; ma è suggestiva, se si può individuare nel nervo l’origine della condotta come dei concetti ma anche del motoscooter, o del  romanzo. Dunque molto, che dipende dal nervo, deve condividere qualcosa di essenziale col sistema binario; come si dice: aut-aut.
Così forse anche se noi oggi siamo più nervosi, dev’essere perché siamo più binari. Siamo in ogni momento nell’ansia di dire sì e no, come fossero sentenze irrevocabili. Sulla stessa linea logica e problematica si può porre mutatis mutandis la famosa affermazione di Hobbes, per cui l’uomo quando pensa calcola (cosa che presumibilmente poteva scandalizzare allora…); o anche la questione, relativamente recente, se i meccanismi del cervello operino per via di rappresentazioni o di computazioni (K. Pribram, Contributi sulla complessità: le scienze neurologiche e le scienze del comportamento, trad. it. in aa.vv., La sfida della complessità, Milano 1991, p. 260. Laddove è assai importante considerare la irriducibilità di ciò che è nell’uomo computazionale a ciò che invece in lui è rappresentativo).
[11] Dall’occhio all’orecchio, p. 32.
[12] Gli strumenti del comunicare, p. 95.
[13] Ivi, pp. 93-94.
[14] Ivi, p. 97.
[15] Ivi, p. 94.
[16] Articolo, in D&G - Diritto e giustizia, anno 2005, fasc. n. 29, i.f.
[17] Cfr. J. Derrida, nel sito intitolato forma mentis.  

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