domenica 13 ottobre 2013

Fra misticismo e capitalismo (a proposito di un fiume sotterraneo)




Siamo abituati a immaginare l’uomo da una parte e la scienza e tecnica dall’altra, come se la verità si fermasse alla contrapposizione, prima ancora che ad essa sia dato il tempo di disporsi su una scacchiera. 
Mentre è anche che - e lo spunto mi viene da certa filosofia mistica d’ispirazione cattolica, per la quale la cosa è da condannare teoricamente/moralmente - scienza e tecnica pur nella contrapposizione sono l’unica chance che l’uomo ha o sente di avere a disposizione per "insidiare" la potenza divina. Ma qui l’uomo non deve osare, secondo quella filosofia, e dunque l'antitesi più che ancestrale fra ciò che è come è in natura (fùsei) e ciò che è tecnico risulterà sempre decisiva. 
Resta però un contrasto: fra la necessità e/o il fatto per sé che le cose avvengano, che la tecnica si affermi per iniziativa dell’inventore o dello scienziato e l’illusione che in ciò si sia padroni. Nel qual caso quella opposizione si può risolvere alfine solo con una ineludibile soggezione umana. 
Siamo lontani, con il pensiero mistico, e dal calvinismo e dall’idealismo industriale; pure ci muoviamo entro l’antico schema della lotta per il dominio sulla natura (cacciare, pescare e coltivare per mangiare e vivere; disboscare per edificare; edificare ma stravolgere così con il paesaggio le cose e il significato degli oggetti); ma vi è anche nel progresso tecnico una qualche essenza metafisica alla cui realizzazione si è spinti o si contribuisce, oltre ogni coscienza e volontà; e qualcuno avrebbe dovuto esprimerla.
La cultura tedesca in questo ancora una volta ci viene in aiuto. Heidegger critica la concezione antropologica e strumentale della tecnica, alla quale oppone la identificazione di tecnica e metafisica: l’essenza della tecnica è “l’essere”; la tecnica moderna altro non è che uno stadio della storia dell’essere (essa quanto meno è sempre inscrivibile in questa storia); «La tecnica, la cui essenza è l’essere, non si lascia mai sopraffare dagli uomini. Altrimenti l’uomo sarebbe il signore dell’essere» (La svolta, Genova 1990, p. 11).
Sempre Heidegger, rivisitando la nozione di causa, a un certo punto scrive: «Là [...] dove domina la strumentalità, là anche domina la causalità» (La questione della tecnica, Milano 1991, p. 6). E se Gadamer definisce per suo conto l’essenza come l’«essere del mezzo» (Il linguaggio della metafisica, Genova 1988, p. 72), allora possiamo dire che questo e quel pensiero sono un po’ il nostro tempo, tradotto in pensiero. 
La concezione antropologica e strumentale della tecnica è l’idea - la più semplice, tolto il fatalismo -, del mezzo che è semplice mezzo, contrapposto e volto a un fine; laddove il fine è il centro ed è l’uomo per la sua presenza (l’essere «in presenza» della ontologia ne è la fedele testimonianza o il miglior riflesso). Questa prospettiva Heidegger la rovescia; ma - mi domando - quello di cui egli si occupa in modo critico è solo un antropocentrismo vecchia maniera, vissuto ancora con superficialità, o non piuttosto nasconde un fiume sotterraneo?
File:Martin-heidegger.jpg
Martin Heidegger
Ciò che egli critica è qualcosa che l’uomo afferma nonostante il, ma a causa del, progresso della tecnica; il che fa pensare - per lo star del sentimento come un viluppo - a quel «gli oggetti sono dispettosi» di cui parlava se non erro Baudrillard, sempre in un classico sentire, congeniale a un capitalismo maturo.
Un flumen absconditus? La temuta identificazione dell’uomo con l’uomo tecnico può essere ravvisata nelle concezioni mistiche che condannano l’ambizione a mettersi al posto di Dio. Ma allo stesso tempo la condanna così espressa sembra legata a un elemento insopprimibile, che tende a nascondersi.
Lo esprimerei così - anche se questo sembra un sentimento assai lontano dalle argomentazioni -: la paura di non essere, di non riuscire ad essere, pari a Dio; il che tradisce da parte dei mistici una profondissima ambizione, che deve cadere prestissimo però, preda del super-io censore, su cui troppo si regge.
Ma anche: perché quell’elemento mi appare insopprimibile? Poiché esso è ravvisabile, in un modo tradotto e trasfigurato, nella idea che la realizzazione - piena totale affermazione - della essenza della tecnica segna il primato di qualcosa di non umano o di non propriamente umano.
Dunque allora Heidegger scinde ciò che il misticismo tiene unito: l’uomo e la tecnica; ma egli opera nel cuore dell’uomo tecnico (prova secondo l’idealismo industriale - Dessauer - della grandezza di Dio).
Se insomma per entrambe le concezioni la tecnica non è umana, ché essa ora non deve opporsi a Dio, ora appartiene a una essenza estranea che si realizzerà in qualcosa come la fine della storia, tutto si gioca attorno al peso del prometeismo. Quanto conta in altre parole la tentazione di rubare il fuoco agli dèi?
Se il misticismo tiene viva la fiammella della colpa e del peccato e condanna il prometeismo - trasparente invece nell’idealismo industriale -, ciò esso fa considerando unitamente alla esistenza di Dio l’uomo figlio di Dio; Heidegger per contro condanna la concezione antropologica, nella quale non possiamo non inscrivere anche quella religiosa. Insomma non si ha nel filosofo tedesco alcuna pronuncia forte di un pregiudizio morale.
La tecnica heideggeriana è per così dire atea e squalifica quell’ambizione che l’uomo possa dire appartenergli; la tecnica si serve dell’uomo come pretesto vivente per realizzare la sua essenza; e non importa in nome di chi o di che cosa ci si possa illudere che i mezzi siano solo mezzi da adoperare e che i fini umani e/o i piani divini siano superiori.
Dunque se ammettiamo che Dio trovi alimento o riscontro nell’uomo, allora oggetto della critica è anche il misticismo che condannando l’ambizione umana a eguagliare Dio mostra di ammettere con Dio l’esistenza di quella ambizione, o addirittura di temere che essa possa realizzarsi. 

Da una parte il misticismo nel discorso heideggeriano non trova alcuno spazio ed è fuori discussione; dall’altra se ciò è vero è perché esso fa parte di quella stessa concezione che egli critica. Insomma, se vogliamo, il popolo che ascolta il filosofo che pronuncia il suo sermone parlando dell’èra atomica - ciò che avviene nella Svolta -, non è importante che sia affetto da misticismo. Può esserlo come può non esserlo; ché la tecnica s’inscrive nel fato. Laddove al di là delle molte parole ciò che è messo in gioco è la terra, prima ancora che l’uomo. Anche se l’immagine di una qualche fine della storia cara all’idealismo tedesco nuoce alla identificazione di una realizzazione della essenza della tecnica. 

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