martedì 29 ottobre 2013

L'antiStato




L’equivalenza alla fine c’è ed è la seguente: l’antiStato è come lo Stato o quanto meno esso mira a indossarne gli abiti, assumerne il look; fa di tutto per somigliare a quello e anzi per compenetrarvisi ed esserlo, certo a modo suo. O forse anche, osserverebbe un maligno, se l'antiStato è indistinguibile dallo Stato allora la differenza alla fine conta poco. Mi fa pensare a queste cose, non proprio di passaggio, un libro interessante (Legalità costituzionale e razionalità legislativa, Napoli 2009), che metterei fra quelli che sanno penetrare e percorrere la realtà, ragionando sui particolari, autonomamente dalla teoria letteraria che governa i testi a stampa.
La cultura insegna che lo Stato nella sua esistenza è piuttosto una idea che non il suo contrario: esso è valido per tutti, inestirpabile o quasi dalla mente e costituisce una entità astratta e necessaria; l’esperienza suggerisce che l’antiStato cosiddetto è interessante non solo quando esso è ostilità aperta e/o violenta a leggi e istituzioni ma anche quando pacificamente le condiziona con il danaro, o quando tenta di confondersi con lo Stato, d’insinuarvisi, riuscendo nel tentativo.
In questo terzo caso (l’antiStato che è penetrato nello Stato), non facilmente scindibile dal secondo, esso è presente potendo anche ripetere politicamente, attraverso i suoi uomini e donne, lo Stato consuetudinario, lo stile dei suoi governi, dando continuità grosso modo a certe linee politiche: liberismo, protezionismo, controllo sulle banche, aumento di tasse, imposte e balzelli, finanziamenti alle imprese, ai partiti, ecc. E se in questo modo ad esso il gioco riesce è perché le condizioni storiche obiettive lo consentono. Questione di momenti, di opportunità, magari e non poco d’ingresso nella rappresentanza parlamentare ad ogni livello e/o d’infiltrazione istituzionale, impiantando superpartiti. Certo è che in questo caso si può anche asserire, avendone la certezza: l’antiStato governa lo Stato; laddove se è uno Stato ideale che si ha in mente, allora ciò che potrebbe rendere realisticamente ardua la diagnosi politica alla fine la facilita.
Lo Stato per definitionem è migliore dell’antiStato (già: per definitionem); nella rappresentazione moderna che se ne ha esso vuole il governo delle leggi, il rispetto della divisione dei poteri, delle disposizioni costituzionali, dei diritti, la certezza del diritto, ecc.; nella forma repubblicana una sana politica del lavoro e una ripartizione della ricchezza la più equa possibile.
L’antiStato che s’insinua nelle strutture e nella macchina statuali sostiene, con il suffragio della credulità popolare, di essere il vero Stato, e si guarda bene dal sostenere di essere o voler essere pari ad esso. Proclamando, nel tentativo di costruirsela, che la sua fonte di legittimazione è più vera ed evidente e credibile di ogni altra; che prima di una Costituzione formale ovvero scritta, iscritta come tale nell’ordine delle fonti, viene una Costituzione materiale. E laddove tutto questo non avesse una sua visibilità, lì il sospetto potrebbe farsi più profondo e potrebbe porsi la questione se l’antiStato non si annidi anche ma prima in una opposizione parlamentare omogenea alla maggioranza. 
Agli albori del novecento, quando Santi Romano parlava di crisi dello Stato moderno, qualcosa già emergeva in proposito, in Italia e non solo: vi erano gruppi, formazioni, associazioni (: «raggruppare gli individui col criterio della loro professione»), che originavano dalla società (sindacati e partiti certamente ma anche debbo supporre imprese) e che non avrebbero non potuto non influire sullo Stato, magari sovvertendone l'ordine. Era che lo Stato era ora chiamato a conciliare i vari interessi (valga il rimprovero mosso al Savigny, nelle prime pagine del saggio); ma era questo un primo modo semplificato - credo - di distinguere fra Stato e antiStato, d’introdurre il concetto, laddove una vecchia nozione di ordinamento giuridico (era lo Stato quale entità astratta e impersonale, astrazione e spiritualità giuridica, che ora si voleva mettere in dubbio nel ricondurlo materializzandolo a una dimensione 'puramente' umana e 'concreta') era destinata ad andare in frantumi. Non è detto infatti che si trattasse semplicemente della lamentela di un uomo di studio nemmeno troppo d’indole conservatrice, che riteneva il modello statuale liberale comunque successivo alla rivoluzione francese il migliore fra quelli possibili. La questione forse era di più ampio respiro, non strettamente empirica, più grande di chi ne esprimeva alcuni sintomi.
Resta infatti da provare, per rispondere a certe interpretazioni, che nel discorso del Romano le insidie o le istanze profondamente trasformative dello Stato venissero solo dal sociale delle folle, dei braccianti agricoli o degli operai organizzati e mossi dal socialismo, quale si era mostrato nell’epoca crispina e sarebbe proseguito in quella giolittiana, e non anche dal sociale delle società (opportune o ad hoc). Non è detto - e la critica del Romano delle concezioni realistiche lo dimostra un po' - che attraverso la società e le società non trovassero l’opportunità di condizionare lo Stato quei ceti benestanti, benpensanti e conservatori che sanno ben navigare attraverso il mutare dei regimi politici. O che non la trovassero quanti già erano nella condizione di controllare lo Stato.
Si usciva dall’ottocento ma ancor prima dalla rivoluzione francese e un elemento clou che entrava nel gioco era la ricchezza pubblica nazionale, l’economia delle nazioni. Dunque la diagnosi del Romano chiedeva di essere completata, forse corretta: era chiara lotta di classe, come avevano dimostrato i Fasci Siciliani sul finire dell’ottocento e come avrebbe confermato l’occupazione delle fabbriche del novecentoventi ma anche obiettivamente le prime manifestazioni di massa. E la partita si giocava al tavolo della distribuzione della ricchezza, del possesso e controllo delle fonti di ricchezza. Dunque da una parte vi era il sociale dei poveri e dei poco abbienti, dall’altra il sociale dei potenti e dei benestanti.
E come avrebbe potuto il vecchio Stato liberale non essere appannaggio di alcuni piuttosto che di altri? Era sostanzialmente in questo che il vecchio Stato si sentiva minacciato dalle masse, ché tra otto e novecento nasceva la società di massa. E il problema non avrebbe tardato a trovare una soluzione nel modo indicato dai totalitarismi: nazionalsocialismo, fascismo, stalinismo.
L’ottocento era stato l’epoca romantica e della nascita delle nazioni; ma nella seconda metà del secolo, almeno in partibus occidentis, sarebbero emerse - unitamente al colonialismo ed espansionismo degli stati  europei, patrocinati dal Bismark - società multinazionali ed economia finanziaria. Caratteristica questa che presumibilmente non può dirsi in contrasto con l’altra, delle economie nazionali e dell’espansionismo.
Se certe immagini possono ritenersi esplicative ed essere cristallizzate nel pensiero, allora si può giungere a una prima definizione, con riferimento al nostro tema: si ha antiStato quando il privato, il rentier importante, l’associazione corporativa, la spregiudicatezza economica e la corruzione prevalgono sino a gravare troppo e ingiustamente su ciò che è pubblico; lavorano a suo detrimento.
Il pubblico non necessariamente è il solo povero o il solo lavoratore ma se necessariamente li ricomprende allora il senso cultural-morale delle cose è abbastanza chiaro. Chi è avvantaggiato rispetto ai meno abbienti perché dovrebbe cedere il suo potere, o i suoi vantaggi, nel rapporto col potere? Ma se il potere è tale ('Sua Maestà non ha piedi', sosteneva Mirabeau; e niente più 'lo Stato sono io'), in uno Stato costituzionale, esso non dovrebbe essere assoggettato alla egemonia dei poteri forti.
Credo che il patto fra cittadini e Stato sia più verosimile di quello fra cittadini per far nascere uno Stato. C’è sempre una fase che precede, una che segue e certe spiegazioni restano pura retorica.
In uno Stato costituzionale, che spiega nella sua natura e nei contenuti che cos’è il pubblico - ché le moderne costituzioni sono patti limitativi dello strapotere del privato e dei gruppi corporativi o di una istituzione rispetto alle altre -, la garanzia per il cittadino e la generalità e in ciò per lo Stato viene solo dal rispetto della Carta fondamentale e dal riconoscimento della imperatività delle sue disposizioni normative. Questo è grosso modo lo Stato e qualcuno (P. Perlingieri per tutti) non a caso osserva che in un Rechtsstaat la legalità va pensata necessariamente come legalità costituzionale. Laddove per contrasto, sia esternamente allo Stato legale in quanto associazioni per delinquere, sia travestendosi da Stato, quelle forze danno vita all’antiStato.
Il che significa: la civiltà, la cultura vuole che la politica non sia l’appannaggio del più forte e che piuttosto vi sia un governo delle leggi che non degli uomini: oggi dunque si ha il dovere di parlare diversamente.
E significa anche: bisogna sempre analizzare le leggi e i decreti nella loro formazione e contenuti, l’azione politica e amministrativa, bisogna sempre osservare la condizione operaia, artigianale e piccolo borghese, bisogna guardarsi dalla istanze di modifica della Costituzione formale, ecc. Alle volte esse sono stolte e prevedibili, mescolano e inquinano le supreme norme con la pura empiria, ecc., simulano male insomma il senso dello Stato, sono dalla parte della ricchezza con ogni mezzo. È il capitalismo se vogliamo, come sempre nuove forme di produzione della ricchezza, meglio nuovi modi di accumulazione.

Accade nella politica come nella vita che la forza economica prima ancora che risolverli sia alla radice dei problemi; essa non tradisce questa regola delle regole e dire che gruppi più o meno occulti o potentati prevalgono troppo nel pubblico sacrificandolo e arricchendosi a suo discapito equivale a dire che essi - al di là delle blandizie elettorali, della retorica buonista e della demagogia - cospirano contro gli interessi della nazione e meglio del popolo che in quella si riconosce, violando le leggi o emendandole nel tentativo di rimodellarne la ratio. Essi parimenti cercheranno sempre di identificarsi con il potere esecutivo ostentando con coerenza strategica, pragmatismo e decisionismo, intraprendendo nei riguardi degli altri poteri - il legislativo e il giudiziario - una politica di svuotamento/depotenziamento.
La definizione di antiStato così sta in piedi perché viene a configurarsi il contrasto fra due fazioni: l’una che professa fedeltà alla Costituzione formale e al suo spirito, l’altra che ne sancisce la vecchiezza e parla di sue necessarie modifiche, ecc. Ma non è sempre così e può accadere che le fazioni non siano quelle annunciate o sbandierate, che non sia insomma la diversità di nome e simbolo a dire la verità. Può essere, in quanto ai partiti politici, attraversanti come sono oggi una condizione di crisi, che l’antiStato non s’identifichi con l’uno e non con l’altro ma sia come un “sentimento” condiviso e trasversale. Laddove è presumibile che ai partiti ufficiali, orfani della ideologia, non resti che essere la chiara manifestazione di qualcos’altro. La sociologia politica insomma è sì una materia di studio interessante ma essa è materna e salottiera, o quanto meno non è una scienza.

Forse un indice chiaro dell’antiStato che è penetrato nello Stato è quando aumenta a dismisura il divario tra le classi sociali, ché questo tradisce lo spirito delle costituzioni, soprattutto di quelle del secondo dopoguerra e repubblicane. O come si dice: quando il divario fra le classi è eccessivo vuol dire che qualcosa nella economia non funziona. Il pubblico essendo, e non solo negli stati costituzionali, ciò che attiene al popolo. Al quale bisogna pur garantire margini di giustizia effettiva, o margini di libertà.
In altre parole: l’antiStato non è necessariamente qualcosa di esterno e facilmente individuabile e invece la questione si pone quando esso occupa o conquista le istituzioni, si mescola al loro formalismo (per questo ha bisogno di risorse e durerà finché ne avrà). La storia dimostra che la crisi dello Stato avviene nello Stato. Come dire? Lo Stato comprende anche la sua negazione, il suo contrario, che ne è ritenuta la parte degenerativa. L’antiStato sono così corpi o poteri che tentano di trasformarlo (si parla spesso di golpismo o colpo di Stato), prima ancora che terroristi e guerriglieri in armi o camicie nere.
Le forti trasformazioni politiche avvengono anche perché una classe, un partito, si divide per ragioni d’interesse al suo interno. Una borghesia che va contro l’altra, una parte del proletariato che va contro l’altra, una parte dei ricchi che va contro l’altra. E allora se i giochi riescono si ha anche il cambiamento e successione della forma politica, di governo e meglio di Stato.
E allora, come metterla? Forse ciò che oggi è negativamente l’antiStato sarà forma positiva e storica di Stato in un futuro non lontano? Forse che sovvertire lo Stato non significherà altro che una successione di stati? Di più: in che senso si viene a parlare di rivoluzione francese, di rivoluzione bolscevica o di rivoluzione fascista come di espressioni storiche positive? Quante forme della necessità si hanno?

La questione dell’antiStato è interessante perché non corrisponde alla semplice modellistica degli stati. Né il livello della filosofia di Platone o Aristotele, né l’insegnamento del Machiavelli né la materna sociologia del potere possono distoglierci dall’idea che una forma di Stato non vale l’altra e che il termometro della giustizia, ancor prima che dei diritti individuali, non va mai abbandonato. 

Nessun commento:

Posta un commento