domenica 17 novembre 2013

Per una teoria delle "più economie"




Può esservi crescita economica in un paese pur aumentandovi la disoccupazione (ovvero: più soldi vanno al paese legale-istituzionale e/o alle banche, meno ne vanno al paese reale, meglio ai cosiddetti consumatori): ecco la lucida affermazione di un ministro del governo, cui bisognerebbe riconoscere un valore scientifico positivo. Perché in fondo la questione è la seguente: di quale economia si parla, parlando di economia? Comunque sia, essa così già non è più una; e se appare retorico opporre semplicisticamente il paese reale a quello legale o istituzionale e del pari lo è parlare di crisi economica generalizzando, è anche bene che quella contrapposizione, pur simbolica o idealistica se vogliamo, non sia mai messa da parte o rimossa. 
Che cos'è in fondo l'economia se non solo essa è riconoscibile in atti o gesti semplici quali l'antica traditio, l'azionamento di un aratro per la coltivazione di un campo, il cambio della dimora o la nascita di un figlio; e drammatici, quali un furto, una lite, l'appropriazione violenta di un territorio, un omicidio, un sequestro, un episodio di cannibalismo; ma in fondo ogni atto, per dire una qualsiasi azione, può essere letto come economico? 
Questa sensazione del molteplice e del reciprocamente irriducibile indica che nella interpretazione di azioni o situazioni economiche non tanto varrà la reductio ad unum dogmatica quanto la irriducibilità dell'una all'altra e il conflitto, sia pure latente, che sempre deve poter essere individuato. 
La teoria che è qui suggerita, delle più economie, se può esservi letta una regola - una fra le tante che si possono scoprire con la onestà scientifica e l’intelligenza di un crescente realismo storico -, dimostra o suggerisce fra l'altro che tanto le istituzioni cosiddette «democratiche» possono divenire indifendibili se occupate da persone corrotte e immorali, quanto è astratto e parziale parlare di economia come se essa fosse una e una sola e quella e solo quella. 
Forse - meglio - è il caso di ammettere entrambi i principi, dell'uno e del molteplice, invece di ospitare nella propria cultura solo una idea unitaria di quella «scienza»; essendo comunque che alla sintesi, quando essa sia pervicace, ostinatamente dogmatica, conservatrice e potenzialmente ingannevole, è preferibile per necessità l’analisi. 
Esiste così una economia del nord e una del sud, una della rendita e una dell'impresa, una finanziaria e una cosiddetta "reale", una e meglio più dei tributi (che sono posizioni creditorie e fonti e ragioni di profitto) e una (e più) delle regioni, una degli operai, una dei professionisti, una degli impiegati, una dei manager, una degli industriali privilegiati, una delle piccole imprese, una dei parlamentari e ministri, una dei giovani e nuovi titolati, una dei disoccupati, ecc. In altre parole: l’idea unitaria può ma può anche non essere un principio, o un apriori. Il monismo economicistico premia inoltre troppo il principio del calcolo puro, che può incorrere in astrattezza e miopia; laddove il calcolo non ha morale e l'economia può essere accostata - come suggeriva di fare un vecchio professore di università - alla teologia. 
Del calcolo e della morale si danno spesso da parte dei calcolatori e «immoralizzatori» immagini amicali, famigliari, dolci e di profonda conciliazione. Chi ad esempio sa fornire le prove della esistenza di basi solide e credibili per la teoria del «risparmio»? Il consumatore è un risparmiatore? sia pure ma in che senso? E anche: non esiste, per stare alle cronache relativamente recenti, se non nell'effetto ipnotico/pittorico del linguaggio, una cosiddetta «casa degli italiani», secondo un motto confortevole e fortunato che sa un po' di evocazione ingentilita del solidarismo corporativo; ma esistono molteplici case degli italiani e anche per equivalenza non-case, anche non d'italiani, assenza di proprietà che spiega così il desiderio di averne costi quel che costi e l'effetto ipnotico di una campagna pubblicitaria. Esistono più patrie, più terre, più patrimoni immobiliari, ecc., per dire anche di gente priva delle une o degli altri; laddove la situazione si dimostra tale per cui chi lo può fare ora si finge povero anziché ricco, ora si sente autorizzato dal suo dio a sacrificare al proprio, mors tua vita mea, l’interesse degli altri (magari i bisogni elementari, esistenziali dei già sofferenti e indeboliti) e in cui ciascuna economia è chiamata incessantemente da una legge invisibile, quasi di assuefazione e accettazione delle diseguaglianze, a non turbare gli equilibri degli squilibri.
L’economia monistica è cioè, sempre di più man mano che si sale nella scala gerarchica della distribuzione della ricchezza, una filosofia di vita conservativa, l'oìkos nòmos, la legge e/o filosofia della casa, interna e di controllo, dove magari la conservazione e il suo istinto superano la realtà storica.
L’economia calcolata degli economisti è dunque sostanzialmente monismo. Essa, alla fin fine sempre comfortableè disposta ad aiutare le disparità nella ricchezza, sapendo giocare per sua natura con le illusioni, che saranno lasciate al popolo e al suo istinto di conservazione: vi sono state e vi sono les illusions de progrés (secondo la espressione fortunata di Georges Sorel) e vi sono le illusioni della economia, cui quelle non possono ritenersi aliene. Illusione per dire: il contenuto illusorio di una scienza con la relativa efficacia ma soprattutto l'effetto conservativo (delle illusioni come dei sogni) che si sposa bene con le disparità di condizione materiale. 

Che economia sia sinonimo così di diseguaglianze e meglio della produzione di diseguaglianza? Anche questa può essere considerata una legge, o almeno ciò la storia dà per vero: altrimenti, ad esempio, perché la schiavitù, perché le rivoluzioni sociali, o perché le guerre, che nell'antica Roma valevano a produrre situazioni debitorie e a definire in un certo modo i rapporti di classe? Ma non è propriamente qui per me ora il problema: il quale attiene all’ammissibilità di una idea di economia plurale, legata a più corporazioni o settori o antropologie, con i relativi necessari conflitti e/o disarmonie. Economia plurale tenuta in piedi dalla possibilità di cambiamenti ma che si traduce in rischio, paura buia che ciò possa accadere, ovverosia paura di un nemico comune, minaccia estensibile in cambio di governabilità sino a chi non abbia nulla da perdere. Laddove quella delle «più economie» è una versione differenziata - e forse anche non troppo in linea - della teoria della lotta fra le classi sociali nella sua espressione più intelligente e cioè quella oggettiva, non quella soggettiva e laddove si può dimostrare che il medioevo, con la sua ricchezza distribuita territorialmente e il suo regime di ingiustizia sociale è o può rivelarsi - pur in certa smaterializzazione di territori e spazi - qualcosa se non d’intramontabile certo dotato di radici robustissime.
Colpa, nel caso italiano, dello scarso e forse inesistente giacobinismo storico, di gramsciana memoria: giacobinismo come alleanza fra classi oppresse? Colpa di una mai avvenuta rivoluzione borghese nazionale (quale la ebbero francesi, tedeschi, olandesi, ma prima ancora gli inglesi, ecc.), laddove i ceti della unificazione non vera ma imposta prevalsero su quelli inclini a una unificazione effettiva? Effettiva per dire borghese, piccolo borghese, agraria ed economica? Forse che già allora, nel nostro ottocento, vi fu una economia più forte della unità nazionale, ancor prima che una economia della unità nazionale?
Se da una parte la pluralità delle economie con il predominio dell’una sull’altra o di talune su altre prevale in assenza di grandi riforme borghesi (viene quasi voglia di evocare lo spirito di Giuseppe II d’Austria, essendo il principio di legalità da noi scivolato verso un certo quale relativismo; e il «presidenzialismo» può ben essere questo, quanto meno nei fatti!), dall’altra viene il dubbio sulla esemplarità totale delle rivoluzioni che vi furono. Ma di questo qui non mi sono ripromesso di parlare.
Certo è che il medioevo sembra avere avuto e avere nel nostro paese per così dire una vita ininterrotta. La moderna rivoluzione in Italia fu solo napoleonica, ammettiamolo pure; ma poi… fu questo un errore, o qualcosa di addirittura improvvido? Idealmente la nazione reagì con spirito romantico: le nostre tradizioni contro l’imperialismo napoleonico, che ad esse recava violenza. Già allora libertà come idea confusa. 
Ma non è semplicemente che i nodi vengono al pettine e non per caso nascevano a quel tempo e fioriscono tuttora istanze centrifughe rispetto alla unità nazionale: conflitti oggettivi e soggettivi fra economie, come dimostra il cosiddetto «leghismo»; ma come già mostrava la Sicilia all’epoca dei moti del 1821. L’Italia come pura espressione geografica: scorrono le immagini e quella che si associa al principe di Metternich non è una boutade né un ens rationis ma è cosa vera.

Dunque per riallacciarci al dibattito attuale, le camere parlamentari (laddove vige il principio  della immunità e quello degli interna corporis, riprovato già a suo tempo da Santi Romano) hanno la loro economia e quando si dibatte sui privilegi e non solo su quelli del parlamento nazionale ma anche di quelli regionali o in generale dei parlamentini, allora si comprende quale sia il senso storico e morale dell’abolizione dei privilegi: non un correttivo e invece un mattone necessario per la costruzione di una repubblica e per la tenuta della stessa economia nazionale, perno della unità di un popolo.
Le cose possono anche essere messe in questo modo: non è che oggi assistiamo a un nuovo medievalismo ma è che il nostro paese vive da tempo (forse da sempre o quasi?) una lotta perenne tra feudalismo e democrazia borghese e anche fra irrazionalismo e ignoranza e illuminismo e in periodi di crisi la democrazia perde o perde i pezzi. Il che naturalmente non significa che negli altri paesi la cosa non avvenga. Ma le culture regrediscono, come insegnava Freud; conquiste della civiltà maturate nei secoli che sembravano imbattibili, possono andare in frantumi in poco tempo e dunque ogni popolo ha il suo arcaico, che dovrebbe riconoscere. E certo è che i tam-tam informativi e cioè i media non aiutano e con il loro chiasso impediscono di sentire. 

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