domenica 22 dicembre 2013

I prigionieri del palazzo




Ora sembra quasi in Italia che chi si era installato nel “palazzo” - e cioè la classe politica, in grado di risolvere solo i problemi (immaginati, irreali?) che essa aveva ideato per sé stessa e anche contribuito a procurare - rischi di restarvi chiuso dentro. Che insomma per i suoi occupanti il palazzo o se vogliamo il castello (palatium, castellum: latini che trasudano entrambi sensi medievali, tanto quanto il nostro sistema dei tributi) possa tramutarsi in una prigione. Da possesso dunque a trappola, o labirinto. 
Ancora il palazzo, dunque. Oggi però la situazione appare un po’ più complessa, rispetto a quando l'immagine fu coniata da Pasolini, anche perché i numeri dicono che parte del popolo arrabbiato è entrata in certi edifici del potere, in modo legittimo, formale; ma senza volersi fare coinvolgere dalla filosofia abitativa ivi invalsa, rifiutando cioè sino alla ostinatezza pura ogni compromesso con i suoi dimoranti tradizionali. E questo mentre fuori ora si accendono qua e là i primi fuochi d’insurrezione, si fa pressante e a tratti cieca la intolleranza nei confronti di una sorta di riedizione in tono minore dell’ancien régime: un regime politico parassitario, avvolto nella corruzione, nel lusso e nello spreco.
Naturalmente bisogna mettere nel conto la eventualità che il palazzo possa essere abbandonato dai suoi occupanti tradizionali, frammista all’altra, che è forse più una speranza di molti: che esso possa essere messo a ferro e a fuoco in occasione di un qualche tumulto. Scenari grosso modo non nuovi, caratteristici del tempo che viviamo ma non solo; laddove l’economia sia intenta a produrre la sua merce più congeniale, ovvero nuova povertà, nuovi debitori e nuove censure - e lo faccia spudoratamente con la forza.
Sappiamo degli aspetti socio-economici della Rivoluzione francese, grazie soprattutto alla indagine del compianto professor Soboul; sappiamo, per averle viste in teletrasmissione, delle rivolte recenti nel Nord-Africa; della insofferenza nei confronti di regimi autoritari. Sappiamo degli scricchiolii dei vari sistemi economici, o del loro tentativo di rimodularsi; sappiamo della storia della lotta fra le classi sociali e parimenti che l’impoverimento di una nazione non è l’impoverimento di una intera nazione. 
Nell’Italia politica attuale la sensazione che il palazzo si stia tramutando in prigione nasce da una duplice constatazione: che la legge elettorale dà sempre più l’impressione - tale ne è la paura nelle stanze del potere per cui la indecisione e la confusione su di essa sono crescenti - di essere una legge “costituente”, e che le manifestazioni di piazza non sono quelle stesse di qualche tempo fa. Il “fallimento della politica”, o se si preferisce dei partiti, ovvero la questione morale che attanaglia uomini e istituzioni rappresentativi da tempo, è anche in questo che traluce, non dovendo mai tralasciare nella sua centralità il problema del lavoro, inteso come mondo. 
Se i vecchi abitanti del palazzo (che tentano da tempo di riqualificarsi e rifarsi il look, attraverso liste "pulite”, volti nuovi e concessioni fatte alla nazione, tardive e frammiste a inganni) mettono da parte le diversità ideologiche e si coalizzano per non perdere i loro scranni, i loro privilegi e le loro vecchie configurazioni (tale sembra essere oggi nella sostanza la ideologia del cosiddetto “bipolarismo”, mentre si profila l'idea del 'partito della nazione'), ciò avviene nel momento stesso in cui le manifestazioni di piazza cambiano la loro psicologia e antropologia venendo ad  attingere un carattere o toni più aggressivi. 
Ora la piazza non sono più folle pacifiche che attraversano sfilando le città; ora essa riunisce più fonti umane, le più disparate, e ciò accade nello stesso tempo in cui le classi per così dire minacciano di “rompersi”: imprenditori impoveriti vessati da un fisco medievale e vampiresco che si uniscono a studenti, lavoratori autonomi, disoccupati e senza tetto; gruppi della cosiddetta “destra” estrema che trovano convergenze, in forza di comuni istanze radicali, con gruppi della “sinistra” extra sistema; poliziotti che fraternizzano con i dimostranti, togliendosi platealmente il casco e mettendosi in testa ai cortei, tutti “tradendo” i loro padroni, i quali se corrono ai ripari con elargizioni ex lege fatte dai loro procuratori allora escono allo scoperto.
Per spiegare le cose che avvengono si parla molto di “fallimento della politica” ed è che questo discorso è coinciso con il volgere al tramonto del cosiddetto “ventennio berlusconiano”; cui è ragionevole addossare molte colpe, se non fosse che tanto quel tramonto è reso clamoroso dai fans e dai media quanto esso non è dovuto ad azione politica, almeno a quella che invece poggia su retoriche di opposizione che tali erano state proprio durante quel ventennio. Laddove il berlusconismo ora sembra troppo facilmente identificabile con la persona o il totem da cui esso trae il nome quanto riducibile a una zavorra di cui gli abitanti del palazzo hanno convenuto di liberarsi per non perdere quota - un po’ come poteva accadere che poco prima tutti quanti parlassero di “liste pulite”.
È che il palatium in Italia oggi sembra definitivamente spiazzato; troppo proteso nel tentativo di autopurificarsi pur di salvarsi, facendo molto rumore e attirando l’attenzione popolare oltre che su persone specifiche anche su alcune “lodevoli” decisioni dei nuovi governi, tentando a sua volta di distrarre la gente; ma esso non riesce a nascondere tutto e l’informazione ne rivela in continuazione imbrogli e malefatte. Dunque l’accerchiamento c’è, nelle piazze e nella informazione; ma v’è anche contrappeso, ossia forza di conservazione del vecchio regime, legata molto più di quanto comunemente non si dica all’individualismo e materialismo di un popolo e a un anticostituzionalismo politico, figlio di ignoranza giuridica.
I media non dicono tutto, forse più per incultura che per cattiva volontà; pur tuttavia i social networks e i giornali on line smascherano quotidianamente, per un bisogno naturale di rivelare e scandalizzare, i politici e gli amministratori, autori d'illeciti. Ma che cosa ne sarebbe alfine di tutto questo se non vi fossero i tumulti e le nuove manifestazioni di piazza; non cioè oceanici rituali consensi ai grandi partiti o ai sindacati - ciò che è quasi sempre valso a cambiare poco o nulla fungendo invece da sedativo - ma tumulti, episodi violenti di rabbia?
Il rischio - ma può essere un semplice rischio o pura immaginazione - è paradossalmente che ipotetici ministri illuminati pur ponendo mano a buone riforme non possano più farci nulla, non possano cioè salvarsi dai furori popolari - e appunto ciò non sarebbe necessariamente per il meglio. E probabilmente i tumulti si ridurranno alla fine a una rivoluzione frenata, pilotata o addomesticata. 
Forse gli assediati, sentendosi prigionieri o accerchiati, stanno già abbandonando il palazzo: per scongiurare l'incendio; e ad essi subentreranno totalmente politici più giovani, teorici o non della cosiddetta “rottamazione”; forse insomma cambierà poco, o cambierà non so quanto ma senza grandi spargimenti di sangue. E allora si saranno dimostrati importanti i due punti salienti qui sottolineati, ovvero la legge elettorale e il diverso carattere delle manifestazioni di piazza. 


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