lunedì 6 gennaio 2014

La cultura della "preunità" (la forma-Stato)




Sarà perché nessuno me lo ha mai insegnato a scuola, sarà più semplicemente perché - Freud o non Freud - l’idea di rimozione si è mossa sempre con una certa quale levità nella coscienza comune o è stata assimilata distrattamente; ma la legge per cui ogni cultura vincente e dominante ha bisogno per sostenersi e perpetuarsi di una forte componente rimozionale e più propriamente repressiva non è mai stata veramente apprezzata nei meccanismi della interpretazione, non solo politologica. 
Come se non bastasse, i primi testi extrascolastici o divulgativi di storiografia risorgimentale (Croce, Salvatorelli, ecc.) - perché questo è il mio tema ancora una volta - miravano più a incoraggiare che a chiarire, alimentando sì la fiamma della cultura nazionale ma anche il facile idealismo, nel quale peraltro credo Croce non rimase perfettamente intrappolato. 
E certo nemmeno l’idea pur importante di nazione illustrata a suo tempo da Federico Chabod sembra poter essere oggi di aiuto, per capire, anzi. Tanto che essa risorge nell’animo come un’aspirazione indotta, di fronte alla nuova egemonia europeista; che ricorda lontanamente Carlo Magno giù giù sino a quella che a suo tempo fu sentita come la morsa dell’Impero Austro-Ungarico e che a sua volta è sostanzialmente conseguente, o forse omogenea, ad altri aspetti fallimentari di politica nazionale.
Ora si sa che l’immagine dei Mille di Garibaldi come il pareggio di bilancio dei primi anni del nuovo Regno d'Italia, come altre storie e storielle, prima fra tutte quella sabaudista di un Sud agricolo e retrogrado a fronte di un Nord industrializzato e moderno, che si sono trascinate stancamente nella narrazione, sono mitologia. E ciò che in generale ci accade è che la scontentezza per l’oggi e l’ansia per il tempo che scorre ci sospingono indietro verso il passato, ora rendendoci prede di una regressione per dire imbarbarimento nei costumi, ora inducendoci a disseppellire e condurre alla luce, prima ancora che ad accettare, l’immagine che del passato ci era stata fornita, nella nostra più tenera età che è quella dell’infanzia, della pubertà e della formazione che conta, al di qua della retorica della formazione.
In un clima generale di crisi dei miti e di ogni fede, non propriamente d'ideologie, alimentato da una conclamata crisi economica amica del trucco, della corruzione e del crimine, il tema Risorgimento nazionale si riaffaccia alla mente, per chi è incline a usare il cervello, non come un voler costruire ancora su dogmi tramandati, ridicoli e pericolosi; ma come un prendere sul serio aspetti che erano stati pregiudizialmente accantonati e meglio rimossi sia per ignoranza sia per volontà. E la riconsiderazione delle cose, per trarre alimento da una crisi politico-economica, è a sua volta politico-economica.
La domanda a un certo punto è la seguente: dunque Garibaldi-e-Vittorio Emanuele e solo e sempre Garibaldi-e-Vittorio Emanuele e Cavour, o Mazzini e solo e sempre Mazzini, istoriati come su francobolli o bizzarre carte da gioco, con le guardie che arrestano il patriota genovese a recitare la parte dei cattivi?; o che altro? 
Giuseppe Mazzini

Il compito dev’essere chiaro: ripensare il Risorgimento, un po’ come ma non con il medesimo spirito con cui i Francesi hanno scritto e riscritto della loro Grande Rivoluzione, comunque ripensandola. Non solo documenti e Web alla mano; ma anche così leggendo ciò che non abbiamo letto come rileggendo ciò che avevamo già letto ma forse non come avremmo dovuto; ecc.
Una questione insomma è come l’unificazione fu fatta, ricomprendendovi l’aspetto economico-finanziario, quello legislativo e la cosiddetta «piemontesizzazione» - e qui v’è la scuola di pensiero che non manca mai, che ritiene quella attuata l’unica via politicamente praticabile -, altra è quella del ciò che sarebbe dovuto risorgere … e qui entrano in ballo le autonomie, immerse nelle profondità storiche, tanto quanto il conflitto fra pensiero e politica: la questione della forma di Stato, che questa fosse la più sapiente possibile, adeguata alla storia dei popoli italici. 

Posso presumere innanzi tutto che delle due caratteristiche salienti dei detti popoli i “colonizzatori” o conquistadores piemontesi ritenessero che la seconda, ovvero l’abitudine a essere conquistati e sottomessi, l’accettazione della disuguaglianza sociale e dunque certa quale attitudine a essere servitori accondiscendenti, alla fine sarebbe prevalsa sulla prima, ovvero sulle radicate irriducibili diversità territoriali, storiche, culturali. E ora so che vi furono errori morali di calcolo, legati alla profonda ignoranza del Nordismo. Pure - il che può essere interpretato come una complicazione - tale errore non sarebbe equivalso a un fallimento immediato del nuovo Stato e dunque il problema sarebbe stato in qualche modo archiviato.
Altra questione è quella ideologica, ovvero non sic et simpliciter della idea - che è stata cucita indosso alla conseguita unità e a cui fu adattato tutto il movimento storico reale che ad essa condusse - di una nazione detta «libera» e «unita» ma realiter unificata politicamente con la violenza delle armi e strutturata economicamente e costituzionalmente in un modo piuttosto che in altro; ma dello spirito dei tempi, per cui quella idea - astratto principio di unità nazionale - non era l’unica proposta e il bisogno storico d’indipendenza e in essa di una qualche forma di Stato che potessero riunire popoli e territori della penisola fu sentita in modi più pensati. E qui non si può non dare il merito alla Rivoluzione Francese e soprattutto al suo autorevolissimo interprete e gestore Napoleone, per cui se gli eventi dell’ ‘89 segnarono la nascita della moderna nazione, l’espansionismo messo in atto dal Bonaparte favorì quella tendenza quale anelito d'indipendenza dei popoli da ogni realtà d’impero.

Vi fu come è noto durante la Restaurazione una sorta di dibattito fra intellettuali (e meglio filosofi, pensatori, studiosi…, uomini di cultura ancor prima che intellettuali), iniziato prima dei moti del 1820-21 con l’ipotesi di un collegamento unificatore fra le città più importanti della penisola, e che dopo il fallimento dei primi moti carbonari riprese con i Santarosa, i Salfi, i Vieusseux, senza smarrire del tutto quella impronta iniziale del nesso città-nazione, in cui s’intrecciarono e contrastarono influssi illuministici e romantici - ma non solo; e in cui non fu Mazzini l’unico e migliore teorico: una cosa è il mazzinianesimo come iconografia, altra la interpretazione del bisogno della unità nazionale ovvero: «il trionfo dell’idea unitaria a svantaggio di quella federalista, non significò assolutamente un prevalere teorico di certi princìpi, né la sconfitta degli altri, ma che la realtà effettuale, come direbbe Machiavelli, impose la sua soluzione del problema» - (M. Corona Corrias, 2004).

Vincenzo Gioberti
Mi sono domandato allora: quanto sarebbe assurda o ridicola o anacronistica oggi l’idea, che da quel dibattito emerse, di una confederazione di stati, tutti «italiani», ciascuno con il suo governo, che per Vincenzo Gioberti e il suo «neoguelfismo» (espresso nel Primato morale e civile degli italiani: 1843) sarebbe valsa ad accrescere forza e potenza dei vari prìncipi, disposti tutti però a riconoscere l’autorità morale del papa (col presidio della forza militare del Piemonte, «la provincia guerriera d’Italia»)oppure l’idea, esposta da Cesare Balbo nelle Speranze d'Italia (1844), di una lega tra i prìncipi italiani, guidata dal Piemonte sabaudo; oppure l’altra (del «Tutti amici e ognun padrone in casa sua. Non è casa ben regolata quella che non si regola da sé»), di un federalismo repubblicano, avverso così al principio monarchico come al primato del Piemonte o del papa, in cui libertà non significasse solo indipendenza dallo straniero ma specifiche strutture amministrative e pubbliche che garantissero autonomia ai cittadini («I molteplici consigli legislativi, e i loro consensi e dissensi, e i poteri amministrativi di molte e varie origini, sono condizioni necessarie di libertà: la libertà è una pianta di molte radici»: Cattaneo, L’ordinamento del regno, Bologna 1978, p. 168); o ancora l’altra, ispirata all’esempio francese e implicante una rivoluzione sociale (Giuseppe Ferrari, ne La Federazione repubblicana (1851); cioè complessivamente il federalismo lombardo, legato originariamente alla figura di Gian Domenico Romagnosi e successivamente al periodico Il Politecnico

Cesare Balbo

Carlo Cattaneo
Giuseppe Ferrari
Idea federalista dunque, vinta evidentemente dalle armi dell’esercito piemontese, a causa di un indirizzo espansionistico che prese l’avvio con la guerra di Crimea (1853-56) e la politica estera di Cavuor; ma quella se attuata avrebbe in qualche modo risparmiato la piemontesizzazione, con tutte le miserie dell’unità? E qui ciò che va subito compreso è che così la nazionalità era un aspetto del pensiero mazziniano e fu in questo deformata negli anni, come il federalismo non è per sua natura antinazionale, pur potendo esserlo o sembrarlo nel fanatismo ignorante dei comizi politici.
Possiamo allora chiederci in primo luogo se addirittura sarebbe così balzana la proposta conservatrice di Gioberti, alla luce del fatto che il primato piemontese ha continuato a contare molto e che oggi, superate le porte del Duemila, l’auctoritas pontificia sembra meno in discussione che mai e forse aveva ragione chi riteneva - ed era una mente liberale - che la perdita del potere temporale avrebbe accresciuta la indiscutibile forza spirituale (e io direi politica) degli eredi di Pietro.
Forse che sì e forse che non; e certo la storia ecclesiastica dimostra che da quella parte le insidie e le forme ipnotiche non sono mai mancate; ma se non bisogna sorridere di fronte alle teorie di Balbo, di Cattaneo e di Ferrari, allora non bisogna farlo nemmeno al cospetto di quelle di Gioberti, se non altro perché non si può continuare a pensare l’unificazione nazionale come un risultato scontato e perché l’unificazione a dispetto di una informazione servile che giunge sino a noi, costò sangue, volenze, ingiustizie, orrori, crimini, grandi operazioni speculative, tutte cose che una sana morale deve poter censurare.
Scriveva fra l’altro Gioberti che «Il supporre che l’Italia, divisa com’è da tanti secoli, possa pacificamente ridursi sotto il potere d’un solo, è demenza. […] All’incontro l’idea dell’unitá federativa, non che esser nuova agli Italiani, è antichissima nel loro paese, e connaturata al loro genio, ai costumi, alle instituzioni, alle stesse condizioni geografiche della penisola». Laddove Ferrari avrebbe sottolineato, in uno dei suoi numerosi saggi sulla situazione politica che: «L’Unità italiana non esiste se non nelle regioni della letteratura e della poesia; e in queste regioni non si trovano popoli, non si può fare leva di eserciti, non si può ordinare verun governo».
Il Risorgimento non consisteva per Gioberti nella creazione di una civiltà nuova, bensí nel ritrovamento di una civiltà remota, quella dei Comuni e dei grandi pontefici, nel riannodarsi del filo della storia nazionale al punto in cui le invasioni del secolo XVI lo avevano spezzato. E la soluzione del problema italiano sarebbe consistita nella confederazione di quattro Stati (Roma, Toscana, Piemonte e Napoli), nella concessione degli statuti e nella cacciata dello straniero. Laddove in polemica con i mazziniani il sacerdote torinese parlava di unione e non di unità, ovvero: «Il popolo italiano è un desiderio non un fatto, un germe non una pianta; ma - egli soggiungeva - i prìncipi italiani sono una cosa reale».
Certo dunque le parole “democrazia” e ancor meglio “repubblica” erano estranee a quel disegno che voleva esser realistico e molto dipendeva sul piano storico da quanto nelle culture delle antiche città d’Italia fosse contato il cattolicesimo. Anche se la lega o confederazione italica è detta da Gioberti il «primo passo verso l’unitá nazionale», non dunque la sua piena attuazione, e netto era l’anticlericalismo di Cattaneo e di Ferrari e le aperture in senso democratico di costoro, appare chiara unitamente a certa quale sensibilità storica la condivisione formale di un modello il che fa del pensiero federalista una corrente non minoritaria.

E poi in secondo luogo: sarebbe davvero impraticabile per l’oggi, a fronte di osservazioni risalenti al 1851, non una repubblica ma - detto per chiarezza - una federazione di repubbliche («Come mai il popolo piemontese potrebbe giudicare li uomini di Roma? Come mai il popolo romano potrebbe accordare la sua confidenza alli uomini di Lombardia, che operano secondo leggi, tradizioni, abitudini e costumi che da mille anni sono ivi sconosciuti? Le republiche adunque, e non la republica, che sarebbe il primo principio di un immenso errore, di un intrigo senza esempio»: Ferrari, La Federazione repubblicana, Torino 1977, pp. 82 e s., citato in Corona Corrias) che conformemente al pensiero di Cattaneo, dovevano essere quelle di Lombardia, di Venezia, di Toscana, di Roma, di Napoli, di Piemonte, di Parma?
Diciamo dunque che certi nostri sempre possibili ripensamenti o prese in considerazione da una parte derivano dalla nostra condizione nazionale attuale di profondo disagio, dall’altra dalla violenta ingiustizia con cui si realizzò la unificazione, dall’altra ancora inducono a ritenere che vi sia almeno nella opinione pubblica un buco nero culturale, quello del dibattito sulle possibili forme di unificazione, che chiede tuttora di essere compensato, temi e riflessioni che chiedono di essere ripresi per essere meglio compresi.
Se da una parte il bisogno era sentito dagli intellettuali (meglio: filosofi, studiosi, ecc.), dall’altra intelligenza avrebbe voluto che non si propendesse per la Toscana con il pretesto della purezza della lingua italiana piuttosto che per Roma con il suo cattolicesimo e ancor prima con l’antico impero, o che altro; e che invece si pensasse alla elezione di valori ora di un territorio ora dell’altro proprio per instaurare un nuovo Stato italiano. E anche questo certo non sarebbe bastato, perché di scelta della forma di Stato si trattava. E lì s’incrociavano repubblicani e monarchici…

Ma in tutto questo non bisogna trascurare l’aspetto-chiave della questione e cioè che vi fu un gruppo d’intellettuali che percepì che era maturo il tempo per una unificazione nazionale. Ne risulta cioè che vi erano anche motivi reali di unificazione, una qualche radice e coscienza storica; che essa insomma non fu un mero pretesto politico, venuto dall’alto - e non solo perché non può essere ritenuto Mazzini l’unico vero interprete del bisogno di unità nazionale. Ma, come dire?: questo forse dimostra che l’unificazione tradì il dibattito culturale dell’epoca, o quanto meno le idee di alcuni fra i suoi migliori interpreti.
Che lo Stato italiano fosse mal nato, dunque, e certo non solo per questo? Che tanti problemi di oggi abbiano radice nei problemi di ieri rimasti privi di soluzione, così quelli politici come quelli culturali?
Che prima il fascismo e poi la resistenza abbiano costituito due modi di soluzione del problema laddove questo nemmeno fosse da essi sentito appieno come tale nei suoi termini esatti? E dunque lo facessero sempre con un’aria di astratto patriottismo? Il primo fondandosi sull’equivoco fra nazionalità e nazionalismo; la seconda provandosi a configurare i partiti come base della neonata repubblica? Laddove gradualmente e implacabilmente i fuochi si sarebbero andati spegnendo?
A questo punto ci sta tutto e ci sta anche - mettiamo - che una riforma della Costituzione invece di nascondersi dietro l’idea regionale dovrebbe orientarsi a un diverso riconoscimento delle autonomie territoriali, che non sia quello in vigore.

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