giovedì 21 marzo 2013

Del “giallo Ipazia”: semplicemente cattivo cristianesimo?



Fu il vescovo Cirillo (san Cirillo, detto il “custode dell’esattezza” e cioè della vera fede e “sigillo dei Padri”, i cui scritti papa Benedetto XVI ha definiti di “primaria importanza per la storia del cristianesimo”; ma anche il “fondamentalista” Cirillo) il responsabile di un efferato omicidio, con scorticamento, sbranamento e bruciamento delle carni, quale fu nel 415 d.C. quello della filosofa Ipazia? Un delitto rimasto impunito dalla debole giustizia imperiale?
Figlia del matematico Teone, rettore della locale Accademia alessandrina, il famoso museo-biblioteca-accademia, che sarebbe stato messo a fuoco dal popolo dei cristiani; ella stessa matematica (la prima della storia e l’unica, per oltre un millennio), forse più matematica, astronoma e inventrice che non propriamente filosofa (ma il dubbio, di Damascio, non è condiviso da altri: secondo lo storico Socrate Scolastico Ipazia fu terza caposcuola del platonismo - dopo lo stesso Platone e Plotino) e donna comunque di eccellenza, per intelletto e moralità, capace di sorprendere - avrebbe sottolineato Diderot  (M. Donvito) - non solo il popolo ma di più i filosofi. Si tramanda che girasse - coraggiosamente, poiché il clima del tempo era di violenta intolleranza -, con indosso il mantello dei filosofi e che s’intrattenesse con discepoli, sapienti e popolo (: condividere la conoscenza con il popolo).
Fu dunque Cirillo a dare l’ordine («sia lapidata a morte!»), come alcuni sono pronti a giurare? Fu egli mandante o complice, essendo comunque che fu un manipolo di popolo o di fanatici monaci combattenti, i “parabolani”, una sorta di milizia privata adusa presumibilmente a certe operazioni, a sporcarsi le mani di quel sangue; ma non si sa se per sua iniziativa?

domenica 10 marzo 2013

Il discorso “democratico”



Dopo i totalitarismi del secolo passato è come se l’umanità occidentale si fosse calata in una nuova condizione, tale per cui la democrazia sarebbe divenuta la necessaria naturale estensione di sé stessa: forse la premessa per un rilancio della dottrina della libertà, neoliberale e non; o forse anche qualcosa di più ampio e strutturale. Essa da allora sarebbe entrata insomma, secondo certa scuola di pensiero (cfr. da ultimo Vuoti e scarti di democrazia, Napoli 2012), nel cosiddetto discorso democratico - per un forte senso politico del pudore, a quanto mi è dato comprendere; ma anche immergendosi ipocritamente in una illusione, sostanzialmente costrittiva (è «in qualche modo proibito non essere democratici»: Gentile, ivi, p. 255) -. E il procedimento (un po' di acquisizione ... religiosa) si sarebbe perfezionato con la caduta del muro di Berlino. Tutto ciò forse a dimostrazione del fatto che ciò che è in atto nega il suo valore di contrario? Insomma io direi anche: perché non possiamo non dirci democratici... 

domenica 3 marzo 2013

Il mito dei giudici e del “popolo votante”




Non certo poiché i conflitti tra poteri dello Stato (memorabili quelli fra il re e il parlamento, nella storia del Regno Unito) sono disciplinati costituzionalmente, essi hanno origine nello Stato. Si tratta invece di radici piantate nella economia vivente, nella forza degli interessi materiali, nella energia psicologica di classi emergenti, nelle difficoltà finanziarie in cui versino vecchie forme di Stato e amministrative, nella testa degli interpreti e cioè degli uomini che vogliono il potere, sia pure per riflesso.
E il dato va analizzato ed evidenziato, posto instancabilmente al centro dell’attenzione generale, mai tralasciato; soprattutto in quei periodi nei quali certa politica (traduzione d’istanze economiche materiali in istanze politiche) mostri di poter decidere delle cose svuotando di valore la famosa tripartizione (legislativo, esecutivo e giudiziario) attribuita per paternità a Montesquieu e rimasta nelle democrazie liberali come punto di riferimento. 
Oggi ma non da oggi vi è una crisi mondiale (crisi del capitalismo, dicono taluni, a iniziare dal primo novecento; ritorno al medioevo, new medievalism, a giudizio di altri; fine della modernità, secondo una filosofia non troppo recente e pur dotata di attualità; "fine del lavoro" e via dicendo) o forse vi è trasformazione ancor prima che crisi; ma ciascuno la vive nella sua provincia e al di là di diagnosi magniloquenti e colte si avverte un gran bisogno di esami più nel concreto, più anche territoriali, magari guardando alle causae secundae

giovedì 28 febbraio 2013

Costituzionalismo scettico




La democrazia, e con essa il costituzionalismo democratico, si basa sul relativismo filosofico
È questa, a mio parere, l’indicazione di fondo, ritengo non paradossale, fornita da J.J. Moreso ne La giustificazione kelseniana del “Judicial Review” (Napoli, 2012); un contributo stimolante, nel quale si rende del costituzionalismo del famoso giurista una immagine tale per cui i pro rischiano di essere messi in ombra - ma per chi non ha troppa finesse - dai contra
Che, per ammissione del suo autore, la dottrina pura di Kelsen abbia, nei suoi due principi: della clausola alternativa e della definitività, come riferimento il relativismo filosofico, significa in breve che essa è mossa da un principio di effettività. Ciò che la “purezza” è chiamata a tutelare non è sic et simpliciter la validità della norma giuridica ma la sua validità sino al giudizio in senso contrario (per bocca di una corte suprema) come conferma - in quanto all'effetto - della sua validità. Quasi insomma una idea di validità trascendentale ma per certi motivi. Ciò per cui nell’ordinamento giuridico non si darebbero norme nulle ma solo norme annullabili. Dove però l’annullabilità non supera la validità e la validità presunta non deve far sparire la annullabilità. 
Hans Kelsen
Il relativismo filosofico (ma direi anche: giuridico, politico, ecc.) è quasi nel suo succedere sofferto all’assolutismo che esigerebbe un principio di purezza, il quale non può però ignorare sempre una qualche effettività (è da essa effettività che discende - credo - la definitività). Sotto questa luce, che è uno spostare il giuridico e la sua entità sul piano della forma, ogni ordinamento sarebbe formalmente perfetto sino a che non vi sia annullamento della norma; ma tutto lo sarà comunque intanto perfetto perché previsto dalla legge.
La validità così trascolora (o che cosa?) in effettività, il che significa anche che bisogna vigilare su sempre possibili identificazioni. E a questo punto il problema non è tanto che il relativismo filosofico nei suoi interpreti non si occupi di democrazia ma che comunque al fondo della Reine Recthslehre sembra scorrere un fiume scettico, forse anche oscuro, che bisognerebbe come quantificare.
Ora in tutto questo io insisterei su un punto: dove non vi è assolutismo, lì vi è relativismo; insisterei cioè, al di là delle ragionevoli adesioni, sulla difficoltà di questo passaggio; nei termini per cui tale è il formalismo kelseniano per cui il diritto naturale in certo senso viene tenuto fuori, troppo e quasi chirurgicamente, dal diritto positivo. E accosterei tutto ciò alla questione stessa della democrazia, per quanto essa si presenti come costituzionalismo democratico.
Che cosa significa relativismo filosofico, almeno nella esposizione che ne fa il prof. Moreso? Secondo una prima spiegazione, incline allo scetticismo, esso per il suo contrapporsi all’assolutismo filosofico “si basa su una netta separazione fra la realtà e i valori e distingue fra proposizioni sulla realtà e genuini giudizi di valore i quali, in ultima analisi, non sono basati su una cognizione razionale della realtà bensì su fattori emozionali della coscienza umana, sui desideri dell’uomo e sulle sue paure. Poiché essi non si riferiscono a valori immanenti in una realtà assoluta, non possono fondare valori assoluti ma soltanto relativi” (ivi, testo cit., alla pag. 16).

domenica 24 febbraio 2013

Dal “berlusconismo” al “grillismo”: verso il tramonto dell’autoironia?




Ridere di sé stessi (che subiamo una ingiustizia) come dei potenti (che ce la procurano) lo si fa volendo per così dire "sdrammatizzare", esorcizzare il fato, distanziare gli effetti dalle cause, mascherare; ma sostanzialmente si tratta di un modulo da compilare, in segno di accettazione, o di resa. 
Quella dell’autoironia e anche della satira sembra essere una componente solida della psicologia popolare; Freud e Reich ci hanno parlato di “psicologia delle masse”. Freud segnatamente riferiva nel saggio sull'umorismo, di quel condannato a morte che nel salire sul patibolo di lunedì, se ne usciva con una battuta di questo genere: "Questa settimana comincia proprio bene!". Noi comunque, non sapendo di patologia o non volendocene occupare più di tanto, preferiamo parlare qui di “psicologia popolare”, l'animus dei vinti. 
Il popolo, per dire non solo la populace ma anche le piccole borghesie 'ignoranti' (lo fu il Cartesio di Voltaire, ignorant: perché non potrebbero esserlo le piccole borghesie?) e di più altri strati sociali più elevati per tenore economico di vita ma tutti riuniti in popolo a causa di una comune psicologia, era chiamato sino all’ottocento ad assistere alle esecuzioni capitali anche atrocissime solitamente di poveri sventurati, che dovevano essere colpevoli “a prescindere”, affinché i servi ossequiassero i domini.
E il popolo, come eterna categoria, è un po’ sempre quello, che così trovava e trova forme di appagamento agli istinti più bassi come sapeva e sa ridere delle proprie sventure. O che del pari fa - sublimando, rimuovendo - della satira e delle sue venature nichilistiche, o dei dolorosi paradossi di morale, à la Trilussa, la giustificazione ideologica della propria condizione.

domenica 17 febbraio 2013

Gli eredi di Pietro (quaestiones circa Romanos Pontifices)




Che cosa è più "rivoluzionario"? La morte inattesa, prematura - e cioè non convincente - di un papa o, in alternativa inquietante, le sue altrettanto inattese dimissioni (un rimettere gli effetti alle cause) dalla carica? E anche: si tratta di gesti di forza, o di debolezza? 
Certo il ministerium Petri è assai impegnativo; ma - mi domando - non lo è troppo, a rigor di logica, e il peso non si fa insostenibile (e nemmeno quel Dio che ti costringe amorevolmente ad accettare ti può dare la forza), allorquando ci si debba inchinare ai compromessi, non volendolo più fare? Oppure quando il bene e il sentimento religioso si senta che sono altrove, rispetto alla loro sede istituzionale, o che sono fuggiti via? O quando ci si senta vanificati in ogni volontà di miglioramento? 
In generale, il carattere rivoluzionario di un gesto è direttamente proporzionale alla importanza della carica che si ricopre. Ma è veramente quello del papa tedesco, amico di Habermas, un gesto rivoluzionario? O non piuttosto la pubblica opinione dice “rivoluzione” per dire “sensazionalità”? Ché si tratta di un atto che suscita clamore e toglie qualche ragnatela dai muri, distraendo se non altro da uno stato d’ipnosi e da tanta pigrizia mentale, nella interpretazione della cattolicità

giovedì 14 febbraio 2013

La manipolazione della povertà e le guerre di Spartacus, ovvero il volto non sublimato della economia




Credo che la lotta di classe quale si ha nella rivolta cruenta sia inscritta nella economia, come regola - lascio ad altri dire se necessaria o eventuale -, prima di essere un che di riprovevole, ovvero una pura forma di violenza. E che lo sia, inscritta nella economia, tanto quanto lo è l’ordinamento giuridico; ché essi necessariamente s’incontrano con il sociale. E ancora: ritengo la povertà un prodotto economico, una realtà oggettiva spendibile; ciò che rende possibile che il povero sia (come) merce. 
Lo spunto, per parlare sia pure brevemente di queste cose mi viene dato dalla lettura di alcune pagine scritte (come presumibilmente potrebbero esserlo state da altri) dal prof. Fontanarosa, riguardanti la storia della servitus, a datare dall’antica economia romana, attraverso l’epoca postclassica a quella medioevale. 
La riduzione in schiavitù, che caratterizza l’epoca espansionistica della respublica (dal 327 ca. a.C. in poi), ché con riferimento a quella arcaica non se ne può parlare, è legata a cause rigorosamente economiche. Innanzi tutto le guerre, che richiesero manodopera per così dire extra muros, non già limitata cioè ai filii o ai plebei ma estesa massicciamente ai prigionieri di guerra; poi l’indebitamento, in senso generale; poi le condanne penali (per omicidio, renitenza alla leva, evasione fiscale, lenocinio, adulterio; laddove accade spesso che i poveri divengano schiavi per non poter pagare le pene pecuniarie). 
Della economia però sono parte tanto la servitus - ovverosia il costituirsi di un certo tipo di rapporto di lavoro o di produzione - quanto  le sue cause generatrici, quanto le azioni necessarie per liberarsene;

sabato 9 febbraio 2013

Costituzionalità secondo natura?





Che cosa è in fondo una carta “ottriata”, con la quale si scrivano le regole dell’organizzazione politica di uno Stato e si formalizzino concessioni in termini di diritti fatte dal re al “suo” popolo, se non un riconoscimento istituzionale del patto sociale, se vogliamo di rousseauiana memoria? 
Sapevamo bene che lo statuto albertino del 1848 era modificabile con legge ordinaria del parlamento; ma già forse non sapevamo apprezzare a sufficienza il dato che nella Francia della restaurazione e successiva erano i royalistes a caldeggiare e difendere una siffatta condizione, poiché così una charte altro non era che una ordinanza regia fra le tante e poteva in ogni momento essere revocata dal suo artefice. Il re insomma, in regime di costituzione “flessibile”, avrebbe sempre potuto richiamare a sé i comandi, o rimangiarsi la parola data. Sennonché l’idea era entrata e le idee, si sa, hanno "mani e piedi". Già in questo i termini della questione erano chiari e nella Francia postnapoleonica lo scontro politico risultò evidente (F. Rosa, Napoli, 2012), a causa del modo di procedere di quei giudici comuni che non rinunciando a vagliare la costituzionalità delle norme e se del caso disapplicandole si ponevano in contrasto con l’indirizzo voluto dalla Cour de Cassation. Si sa poi che con la cosiddetta “monarchia di luglio”, del 1830, fu introdotto il riconoscimento del principio gerarchico delle fonti; ma nemmeno questo a quanto sembra valse a risolvere il problema; per la qual cosa si sarebbe dovuto attendere il Conseil constitutionnel  della Quinta Repubblica, del 1958. 

mercoledì 6 febbraio 2013

Il partito cattolico in Italia




Pietro Scoppola
È oramai giunto, a mio modo di sentire, il tempo delle castagne; dal punto di vista economico, morale, politico e giuridico. E chi come me non è da oggi che non ha occhi per il futuro è umano che soffra il riflusso del passato: acque nostalgiche, sentimenti vissuti che chiedono di riemergere e anche, non disgiunte, questioni di cultura politica giovanile, riflesso di una crisi religiosa; e fra queste quella del cattolicismo politico, di un laicismo per così dire perennemente incompleto, ovvero del partito cattolico in Italia
Non so quanto il problema, nella sua portata culturale, sia stato malposto o sottostimato (esso però si ripresenta puntualmente, come è avvenuto in un recente forum della rivista Iustitia). So che mi sono sorpreso a ripensare alla Democrazia cristiana dei Moro e dei Fanfani, degli Andreotti e dei De Gasperi, al Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo e - perché non - alla prima Democrazia cristiana, forse un po’ bizzarra nella mente del suo ideatore, don Romolo Murri. E questo per dire anche quanto fossero importanti certi miei studi sulla storia del movimento cattolico in Italia e sui rapporti fra Stato e Chiesa. 

domenica 3 febbraio 2013

Diritto e "non" (dalla prefazione di un libro mai sinora scritto)





Che cosa è il diritto? È qualcosa di più vicino o di più lontano, rispetto a ciò che possa ritenersi la sua negazione? E che cosa la storia, che ad esso comunque si confà? 
Può accadere che se in una narrazione di fatti non si muove da una questione giuridica, il diritto prima o poi lo si ritrovi sulla propria strada quanto meno nella forma del sentimento superiore: storia - dunque - e giustizia. Certo il diritto ha a che fare col trascendentale ed è anche per questo, e perché non vi è il diritto senza il fatto, che i dubbi possono cadere sulla sua sostanza. 
Così ci si rende conto che fra racconto storico e pensiero giuridico i legami sono assai profondi; ché non si dà un “ciò che accade” senza un “ciò che è”; che per certe sensibilità il racconto e la dottrina si equivalgono; e questo concede all’uomo che osserva e trova legami fra le cose di avere sempre per sé meno risposte che domande. Ovverosia: Diritto e non è molto una domanda, che non solo il narratore dovrà essersi posta. 

sabato 2 febbraio 2013

Cambiare la costituzione? Sì, no, forse; già, ma in che senso?



Poiché i clubs di polo o di canottaggio hanno superato per numero e importanza quelli di football, bisognerà mettere mano al testo della costituzione. È questo il ritratto di una ossessione modificazionista e, per conseguenza, di una "costituzione degli ossessi". Ma è semplicemente questa la questione? Perché certo si tratta di un ritratto divertito... 
Napoleone il Grande doveva avere compreso, a giudicare dalla sua azione politica, che cambiare spesso la costituzione - per ciò che attiene alla organizzazione dello Stato, ché la cosa non scalfisce la spendibilità delle dichiarazioni dei diritti - può assicurare un edificio del potere imbattibile. Ché il fine di promulgare e difendere la costituzione dai suoi nemici può valere quanto il far sì che essa difenda i cittadini dai pubblici poteri. Un disegno autoritario, una idea che in qualche modo tende a ripetersi; ma qui, dalle nostre parti, nonostante il principio sia quello e nonostante il rumor televisivo, le cose sembrano avere altro tenore. 

lunedì 28 gennaio 2013

La democrazia possibile





Di democrazia si deve parlare quale democrazia possibile, in costanza del principio per cui bisogna "democratizzare la democrazia" (Allegretti e altri). Qui ne tratteremo un po’ restrittivamente, facendo riferimento al solco delle istituzioni liberal-democratiche, o liberal-social-democratiche, che dir si voglia. 
Credo sotto questo profilo che una non improbabile definizione di democrazia del tipo: “partecipazione diretta e piena del popolo al governo della cosa pubblica” (démocratie participative) tanto non sia impropria quanto faccia riferimento a una impossibilità materiale relativa. E credo allo stesso tempo che stando così le cose ciò non escluda comunque che si possa parlare di sovranità; o che si possa proclamare, parimenti, che essendo tutti gli esseri umani per così dire figli di Dio, il diritto è di tutti. 

Tranne le riforme di Solone, o l’Atene di Pericle di cui Tucidide ci ha lasciato memoria, o la repubblica ginevrina, d’impronta rousseauiana, ispirata al principio dell’arengo medievale, o forse qualche comunità agraria immersa nel tempo che fu e comprensibilmente idoleggiata dalla tradizione anarchica; o la Commune di Parigi (cioè il Comune della capitale francese, resosi politicamente autonomo) del 1871, durata lo spazio di un mattino e che pure suscitò l’attenzione di Brecht e Lenin, nessuna forma di Stato - ancor prima che di governo - potrebbe menar vanto di garantire effettivamente la detta partecipazione. 

La costituzione in senso "materiale"



Potrebbe non trattarsi di un paralogismo; ma il non dover trascurare, perché di mero fatto, gli elementi che entrano nella giuridicità (secondo il rimprovero mosso da Mortati al Burckardt) non è detto che equivalga al dover considerare il fatto come giuridico in sé.
Una difficoltà che sembra insormontabile, tanto il cammino intrapreso è rischioso, e che non può allontanare il sospetto che il giurista, sostenendo - mettiamo - che lo Stato non preesiste al diritto, o che la positività sia “elemento intrinseco del concetto di diritto”, possa solo ingannarsi sul conto dell’antica verità, che sempre ritorna: che il diritto lo è del più forte; ovvero, per quanto ribadito da Hobbes: auctoritas non veritas facit legem

La cultura della "preunità" (ieri, oggi, ...)





Il Risorgimento italiano appare sempre più come un testo, che chiede di essere "decostruito" poiché vi si presta. Discuterne di questi tempi induce a credere che si possa ridurre allo stato di dogma indimostrato quanto si è voluto celebrare come certezza in occasione del centocinquantenario dell’Unità. Che è, beninteso, ricorrenza tutt’altro che da dimenticare, pur essendosi dimostrata la sua memoria riducibile per buona parte a spot pubblicitari; e che si presta piuttosto a riflessioni inquietanti sul tema della legittimità dello Stato “unitario” per dire anche della crudeltà della storia. 
Troppa è la documentazione successiva, troppe sono forse le ombre che si affollano, a dispetto della luminosità tramandata delle res gestae; e valga per tutti l'animo, con cui si possa immaginare un Garibaldi che, "consegnando" l’Italia a Vittorio Emanuele II - non a Teano, dove non vi fu nell'ottobre del 1860 alcun incontro; ma in una taverna a Vairano -, proferisca parole in francese. O valgano gli episodi di corruzione dei comandanti militari borbonici da parte del governo piemontese; o i tentativi diplomaticamente falliti di deportare i “briganti” (ma anche contadini e legittimisti) in terre non italiane, tentativi condannati da capi di Stato stranieri. 

Liberalismo e libertà



Le istituzioni liberali non sono “liberali”; esse non nascono cioè col liberalismo “laico” o “laicista” dell’Ottocento e sono invece pressoché antiche; ma il liberalismo, restando ferma la domanda su che cosa esso sia veramente sul piano delle realizzazioni, o che cosa sino in fondo, se ne è come impadronito culturalmente e comunque presso il senso comune. 
Che le istituzioni "liberali" non siano liberali significa tre-quattro cose: che è dicibile, quanto non lo è, che la necessità ne sia il fondamento; che è stata la religione della libertà, sì d'illuministica ma soprattutto - per noi - di crociana memoria (libertà di pensiero, libertà di stampa, libertà di coscienza, libertà dello Spirito, ecc.), a renderle tali; che esse di per sé stesse (e così nel fatto) anche se permeate di principi e affermazioni, possono non garantire che la libertà degli uni, per dire di maggioranze come di minoranze, di gruppi, corporazioni o associazioni “vincenti”, non leda la libertà degli altri, e meglio di tutti; e che vi è qualcosa nella istituzione che aiuta a comprendere le idee e le ideologie
Sotto il profilo istituzionale, si sente parlare da sempre della sovranità del parlamento, nella quale dovrebbe risiedere in termini di rappresentanza quella del popolo; ma è bene notare come i parlamenti siano vecchi almeno quanto l’uomo che usciva dall'antichità. Erano parlamenti ad esempio quelli di Sicilia del 1097, convocati - ed era la prima volta - da re Ruggero; lo erano, sempre nel medioevo, i consigli di castello, nei quali i signori riunivano i vassalli per deliberare sulle spese riguardanti le comunità; e si trattava sì di assemblee ma convocate ad consentiendum. Erano del pari parlamenti gli états, le cortes e gli stamenti, per chi voglia approfondirsi nella teoria pura della istituzione. 
A causa delle origini, insomma, per essere queste legate alla necessità, si può comprendere come il parlamentarismo porti in sé una sua fragilità e si possa adattare assecondandolo all’istinto umano, non il migliore; come esso possa insomma sostanzialmente piegarsi ai rapporti di forza. Restando in piedi un fenomeno di facciata, ciò che appunto riconduce - la si dica pure "regressione" - alla necessità
A tale riguardo Enzo Cheli, insigne giurista, traeva anni or sono dal libro di Umberto Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana, la verità: che la fragilità del liberalismo (e del parlamentarismo) sarebbe appartenuta alla cultura italiana, non a quella dei paesi europei (valutazione, contenuta nei Quaderni fiorentini, n. 19 del 1990; che va interpretata sino in fondo, considerando il carattere frammentario della nostra storia nazionale e il peso del cattolicesimo culturale) e riprendeva dal libro la definizione dell'ordinamento uscito dal Risorgimento italiano come "statocentrico indebolito", che lo avrebbe "naturalmente predestinato alla svolta autoritaria del regime fascista". Un'argomentazione importante, che pure merita di essere approfondita, non frettolosamente, certo anche uscendo dal caso italiano; laddove però si tocca con mano la sostanza del concetto. Che dire in aggiunta, ad esempio, dell'Assemblea francese al tempo della Grande Rivoluzione? O dell'approvazione, in Germania, della cd. Ermächtigunggesetz che conferiva i pieni poteri a Hitler? Due poli opposti, che parlano entrambi di necessità? E dov'è, appunto, la libertà? 
Se molto da una parte può aiutare a comprendere come la democrazia non sia garantita dalle istituzioni “liberali” - il che rientra nella regola secondo cui essa "è sempre stata una cosa incompiuta" (P. Rosanvallon, citato da Allegretti in Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione) -, ovvero come quelle consentano fenomeni quali il “bivacco” di mussoliniana memoria o le maggioranze ad hoc dei governi berlusconiani e non solo, manifestamente extra o praeter constitutionem, dall’altra vale a mettere a confronto, distinguendoli, liberalismo e democrazia, laddove i referendum e gli istituti di partecipazione diretta denotano un carattere più tipicamente democratico, a voler dire più immediatamente popolare. 
Già: quale liberalismo? Ma soprattutto: quale democrazia? Perché anche qui il discorso può non essere così lineare come sembra, come ha dimostrato Carl Schmitt, accostando il referendum al plebiscito. La difficoltà, perché una "democrazia" cosiddetta non si rovesci nel suo opposto, consiste sempre nel razionalizzare gl'interventi del popolo dunque nel dettare le giuste regole; e si giunge così alle costituzioni scritte, il cui scopo principale sembra essere quello d’impedire che la libertà degli uni limiti o comprometta quella degli altri e meglio della generalità. Ma questo a sua volta non ha un gran senso, se non si passa attraverso l'esercizio degl'istituti e l'applicazione della norma. E se non si pensa al valore moralmente insostituibile del rispetto dell'altrui. 
Se pensiamo all’affermazione di Beniamino Franklin, secondo cui nulla vi è di più antidemocratico della dittatura di una maggioranza su una minoranza, o se condividiamo l'opinione secondo cui la democrazia è nella soddisfazione dei perdenti, allora dobbiamo presumere che le istituzioni dette comunemente "liberali" chiedano di essere integrate da certo spirito e cultura, da una sana volontà di fare e da apposite regole di utilizzo, ovvero da norme di procedura, che non siano di convenienza. Con il che vengono alla ribalta le costituzioni formali, nello specifico le costituzioni "rigide" e “lunghe”; laddove molto dev’essere previsto e disciplinato, e il bene comune dipende dal grado di astrattezza. Ma viene anche in evidenza l’importanza della morale, relativamente a ciò che è pubblico; oppure il livello di civiltà, di economia e diritto in generale. Morale che tanto non è, per essere il diritto scritto chiamato a governare, morale vera; quanto piuttosto razionalità, che pensi in termini universali. 
Da Noi qualcosa certo era accaduto, per dare ascolto al Croce storiografo, fra il 1789 e il 1815; ma manca di tutto ciò forse il pensiero approfondito, razionale, completo, in ordine al quale si può ritenere che da quell’epoca la libertà individuale, la tutela della persona e la indipendenza dei popoli oppressi sono divenuti principi universali del diritto e che nulla potrà più estinguere il fuoco di quei principi; ma come metterla ad esempio con le ragioni forti della economia, o con il potere delle banche? E che cosa ne è del liberismo, o della teoria astratta, quasi mistica del “libero mercato”, a fronte della indole monopolistica delle imprese? E quali i rischi, per qualsiasi ideale di democrazia, a voler parlare poi, ignorando le prove degli effetti, di "neo-liberismo"? Credo di dover aggiungere a questo punto che un aspetto della fragilità liberale lo si può cercare nelle metamorfosi incredibili dell'uomo che così professava la libertà come da un momento all'altro potrà rendersi fautore della intolleranza, ché magari la sua era solo indifferenza. 

mercoledì 23 gennaio 2013

Gli "incandidabili", ovvero il dogma delle liste "pulite"





La "questione morale" sembra essersi impossessata della facies elettorale e lo dimostra il problema delle liste pulite. "Liste pulite" significa: espungere dalle liste dei candidati per le prossime elezioni nazionali e regionali quei nominativi che potrebbero risultare nocivi all'esito quantitativo del suffragio, prima ancora che alla morale. Una questione morale? Sic et non. Una questione logica, allora? Direi di no, relativamente. Piuttosto alla fine giochi della psicologia elementare, che è branca della scienza politica. 
Apparentemente un discorso chiaro, limpido, conseguente; ma nei fatti una vicenda che ancora una volta rasenta la comicità e tocca la psiche, al punto di subirne i ritorni. Infatti: io elido dagli elenchi - e meglio prima  induco a rinunciare alla candidatura - non chi ha una 'fedina penale sporca' ma chi è in ribasso di popolarità e potrebbe compromettere con il suo curriculum penale la riuscita mia e di chi come me sembra invulnerabile, rispetto agli atti giudiziari o alla pubblica fama. Dunque nessuno potrà dimostrare che gli incandidabili siano i deboli, i perdenti, gli "sfigati" cosiddetti; se invece sei tu, il popolo irrazionale ti perdona. Con il che si ha un evidente "giro di trottola" sul tacco della moralità: alla fine infatti non ci si libererà del punto di partenza poiché lo si sarà camuffato. 

sabato 19 gennaio 2013

Televisione e interpretazione



Forse è solo una mia sensazione; ma la televisione, in questi giorni, quantomeno nei suoi canali più illustri, sta dando ragione a quelle correnti di pensiero - segnatamente ermeneutica e fenomenologia - che abbiamo lasciate, quasi ultimi lidi, a rappresentare la filosofia occidentale
In altre parole: se ciò che è mediatico è reale, allora si può sospettare che la realtà non sia eguale a sé stessa. Dunque tutto è dicibile, mediaticamente, tutto è manipolabile: un vero crepuscolo di valori si comporta così, certezze ed evidenze ma nelle deboli presupposizioni! 
La mia personale sensazione si riferisce alla immagine che la tv sta fornendo in questi giorni della competizione elettorale, a ciò che essa volens nolens ci sta inculcando: una immagine sostanziale, una rappresentazione, una interpretazione. Che i più forse condividono (beh, i dibattiti e i talk-show certo non mancano!) poiché essa è dotata di una sua ragionevolezza e di un suo comfort: già, una qualsiasi spiegazione è preferibile a nessuna spiegazione. E ciò tanto più è vero quanto maggiore è attualmente per il cittadino telespettatore la difficoltà interpretativa. 
Tre sarebbero dunque gli schieramenti politici che si vanno profilando: uno di "destra", uno di "centro" e uno di "sinistra". Quest'ultima potrebbe ottenere la maggioranza dei voti; la destra è in recupero, rispetto a una sensibile flessione nei consensi dovuta alla certa caduta istituzionale del suo leader carismatico; il centro, dopo essersi guadagnata la candidatura di un leader ritenuto ancor più prestigioso, si propone quale modello di moderatismo democratico in un modo nuovo e cioè volendo rompere le catene del bipartitismo. E v’è poi il diritto di voto riconosciuto alla cosiddetta “antipolitica”, che è un fenomeno non so quanto singolare e non so quanto imprevedibile. 

I partititi politici e la crisi: corruzione e inettitudine




Può sembrare paradossale (e nulla esclude che lo sia, anzi); ma mai come in questo periodo l’adesione a un partito politico si presenta come un fatto morale; sia a causa di quel demonietto che può far dire all’avv. Longo, in un modo impeccabilmente freudiano, che anche i delinquenti hanno diritto ai loro rappresentanti parlamentari - ed egli avrebbe forse fatto bene o a dichiarare: “solo a Dio è dato giudicare”, ma è proprio questo che alla fine mi è dato capire; o a negare (pur appartenendo magari alla trista “parrocchia” lombrosiana) che esista il vero delinquente, per esservi sempre, laddove ritualmente incrocino prescrizione e giudicato penale, la prova impossibile (eppoi: chi è senza peccati scagli la prima pietra, secondo la spigliata lezione craxiana) -. Sia perché è colpevole chi confessa le proprie colpe; sia nel senso che i delinquenti prima o poi saranno giudicati dal tribunale della storia; sia nel senso che le persone per bene,  ogniqualvolta i politici corrotti siano smascherati e processati, si sentono in qualche modo rinvigorite. 
Se non ricordo male, un clima analogo a quello odierno lo si era respirato al tempo di “mani pulite”, con i leghisti a farla da moralisti e castigatori - e non solo i leghisti -; ma poi vi sarebbero stati gli sviluppi contraddittori che tutti conosciamo.
E anche: le prime denunce della partitocrazia presumibilmente avrebbero dovuto indurre al sospetto: esse piovevano - ora lo possiamo pensare - su un paesaggio già inquinato. Non era insomma, quella del Partito radicale, semplice politologia di stile.

venerdì 18 gennaio 2013

Italia "liberale"



All’improvviso - stavo leggendo un libro di recente edizione dedicato a un polemista cattolico e al suo pensiero sulla legittimità del Risorgimento nazionale -, ripensando alle dichiarazioni rese in questi giorni in televisione da alcuni parlamentari, già esponenti politici del cosiddetto "centro-destra", sono stato raggiunto da una sorta di folgorazione: abbiamo dunque nuovamente - mi sono detto - una Italia "liberale"? Addirittura una nuova Italia, culla del liberalismo? E meglio: coloro che prima facevano un po’ come i "cattolici liberali" di Francesco de Sanctis, scettici ma che si battevano il petto in Chiesa, ora proclamano, quasi a procurarsi un nascondiglio, o una verginità di pensiero: “io mi considero un liberale”, “io sono sempre stato liberale”. 
E mi viene in mente a questo proposito il motto di un docente presso la facoltà di Scienze politiche della università "La Sapienza": i liberali sono imprevedibili. Già, ma  non lo sono forse anche gli illiberali?; e il problema è: in che senso? O che non fosse semplicemente una battuta nobilitante? Eppoi è comunque verosimile che così il liberalismo si ripresenti un po' come quello di sempre nella mente dei più: per significare tutto e niente. 
Ma si tratta veramente, considerando chi ne parla, di liberalismo? Non so in quanti fra costoro abbiano letto o riletto (non voglio dire meditato) gli scritti di Benedetto Croce, di storiografia e di filosofia; non so in quanti siano disposti oggi, riallacciandosi a Bertrando Spaventa e allo stesso Croce, a qualificarsi come neo-idealisti, concetto credo non poco arduo per un pensiero che se è debole non lo è innanzi tutto nei suoi teorici. 

domenica 13 gennaio 2013

A proposito del giuridicamente rilevante (declinazioni dell’editoria culturale)




Sembra tipico del pensiero che la pensi che ogni questione giuridica non finisca mai in ciò che è giuridico. Pure vi è una non giuridicità, che si addice all’uomo pensoso del diritto, che non si riduce alla rigida contrapposizione fra il diritto e ciò che lo nega (e non) e cioè il fatto.
Al gius-realismo, che è vario, non omogeneo, c’è stato chi come Mortati ha contrapposto il diritto per così dire ad ogni costo, non riuscendo a venirne fuori, poiché il problema è divincolarsi dalla stretta ordita da realismo e antirealismo. 
Ma vi è come dicevo realismo e realismo e ci si avvede poi che in primo luogo bisogna mettere da parte il realismo politicista, che va a parare nell’essenzialismo (tipo: nessuno può negare che l’uomo sia omicida, e questo può contare più del resto; morale à la der nomos der erde) e che il realismo giurisprudenziale (è che è il giudice nelle sue decisioni a fare le leggi) di scuola scandinava apre già a letture diverse.
Quello che magari può sfuggire al pensiero, che voglia sottrarre sul piano delle definizioni quanto più possibile al non giuridico, è che sono diversi i gradi e modi del giuridico, che vi sono un diritto amministrativo, un diritto penale e un diritto privato, ecc. che insomma il diritto non è mai univoco, anche se alla fine tende a compattarsi in sé, in nome della completezza dell’ordinamento.