martedì 18 marzo 2014

Che cosa non è più diritto "positivo"



Nella interpretazione resa da certa scuola di pensiero, il diritto positivo non sarebbe più il diritto positivo che sapevamo, poiché nel suo corpo sono penetrati elementi della morale e del diritto "giusto" cosiddetto; ma non solo nel suo corpo - debbo presumere - e invece anche nello spirito, che vi si traspone. 
Codeste penetrazioni, che hanno messo in second’ordine il modo tradizionale d'intendere la distinzione fra diritto e morale, si sarebbero avute a causa delle moderne costituzioni e convenzioni e dichiarazioni nazionali e internazionali dei diritti. I quali fenomeni dunque non si possono leggere come un “di più” per dire cibo per moralisti o sognatori o idealisti; ma come evoluzione necessaria del diritto, in senso oggettivo e come cultura. 
E si tratta in certo modo di un paradosso, se si considera come a un bisogno crescente di fissare regole generalmente valide e principi - a loro volta universalmente oltre che generalmente validi - e cioè a un bisogno di sempre nuovo diritto positivo (tempo addietro mi era capitato di parlare di “diritto positivo alla ribalta”, a voler illustrare detto bisogno), abbia fatto riscontro una crisi della concezione giuspositivistica del diritto. 
H. van Groot (1583-1645)
Dunque per regolare rapporti socio-economici vieppiù complessi non ci si poteva più giustificare con la mera contrapposizione “diritto naturale-diritto positivo”, pur consolidatasi nella dottrina eccellente (si pensi al celebre saggio di Norberto Bobbio), utilissima sì ma molto alla fin fine ai tiranni e tirannie di classi, e bisognava introdurre nel ius positum elementi del cosiddetto ius naturae (penso ai meriti dei Grozio, dei Gentili, degli Altusio, dei Pufendorf via via a salire fino a Kant - e direi anche a certa scuola cattolica del diritto della Francia di fine ottocento, dalla quale sarebbe nato il diritto internazionale quale disciplina), spesso in dipendenza del fatto che la normazione proveniva da una domanda di giustizia. Che tanto era morale quanto si sarebbe rivelata razionale

lunedì 17 marzo 2014

I troppi uomini "della Provvidenza"...



Benito Mussolini, il duce del fascismo, già anarco-sindacalista, già socialista, già uomo della irriverente prometeica “prova dell’orologio” (grosso modo: "Dio, se esisti, ti chiedo di fulminarmi entro cinque minuti!" - e al sesto il pubblico contadino d'occasione s'impressionava), nella sua ascesa al potere fu salutato dalla Chiesa Romana come “uomo della Provvidenza”. 
File:Mussolini mezzobusto.jpg
Qualcosa di analogo è avvenuto “mutatis mutandis” circa settant’anni dopo con Silvio Berlusconi. E il popolo italico, si sa, come sgradisce i fatti in quanto tali e ne ama invece la rappresentazione, così attende spesso il blessing della Chiesa, per sentirsi giustificato per ciò che fa o sente. 
Vi sono in altre parole periodi storici critici, burrascosi e di forte disagio-possibile trasformazione sociale nei quali alla sensibilità comune l’orizzonte appare buio, o la situazione economico-politico-esistenziale confusa e di difficoltà crescente, o come sospesa sul vuoto (nel primo caso gli effetti della prima guerra mondiale, nel secondo quelli di “mani pulite”). Ovvero anche: vi sono momenti nei quali i poveri ma non solo hanno paura di diventare più poveri, i piccolo-borghesi vivono l'incubo della retrocessione socio-economica, i ricchi temono di perdere potestà politica e soldi, gli aspiranti ricchi le loro chances di successo e tutti - pur l'uno contro l'altro - hanno bisogno di maggiori - non limpide - 'certezze' per il futuro. Ed è allora che si cerca, in mancanza di puri e casti - l’uomo forte, o comunque un po' superumano, che sia duca: garantisca per tutti e infonda sicurezza. 
File:Silvio Berlusconi (2010).jpgEgli può essere un principe, magari che cavalca un bianco destriero - il che sazia davvero la fantasia infantile -; ma no!, non può esserlo, e può essere invece un homo novus politicamente parlando, al quale perché nuovo e un po' "qualunque" è quasi istintivo ascrivere poteri taumaturgici e quasi più che naturali. Così uomo nuovo sarebbe potuto essere un dictator all’epoca della repubblica romana antica, piuttosto che un infante nell’epoca delle moderne monarchie assolute, chiamato a risollevare le sorti di una "nazione" in declino. Un uomo della Provvidenza, dunque, come uomo nel quale riporre ogni speranza, cui rimettersi sino rinunciando a certe libertà. E a questi profili avrei potuto aggiungere immediatamente Hitler, per non dire Stalin e altri "capi" politici per lo più funesti, se non fosse stato per una mia deliberata volontà di ... moderazione. Ma tant'è e credo che l'uomo nuovo sia accostabile molto al tiranno greco antico, equidistante dalle aristocrazie quanto dalle democrazie; una figura forse fortunata, in contesti supermoderni (!) di società di massa e di crisi dei partiti. 

Una rivoluzione possibile? (ma parlamentare, necessariamente)




Di questi tempi la sensazione è che si stia andando verso una (o si versi già in un clima di) impasse istituzionale, e l'opposto se vogliamo dell'armonia, a causa dei troppi interessi torbidi che i vari governi si sono impegnati e s'impegnano a tutelare; a causa sostanzialmente della corruzione che soccorre in un modo determinante le forze della conservazione e del privilegio, le quali sempre rivelano di essere più estese e di avere più radici di quanto si pensi. E certo la medicina della revisione costituzionale, addirittura con il ventilato attacco all’articolo 138 (“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”, laddove sottolineerei anche quel "ciascuna Camera"), è di quelle di cui nella più rosea delle ipotesi non si conoscono ma si possono temere gli effetti collaterali. 

domenica 16 marzo 2014

Quale la condizione reale, a causa di quale Risorgimento?




Il Risorgimento italiano, per quanto affermò Antonio Gramsci, è stato una rivoluzione mancata; esso cioè non è stato l'occasione per una rivoluzione borghese, perché troppa rimase politicamente, al di là dei livelli d'industrializzazione, la distanza fa borghesia e classi contadine - esattamente il contrario di quanto era avvenuto in Francia, nella sequenza "grande illuminismo-rivoluzione" -; e dunque in questo senso, posso aggiungere, il nostro non fu un vero Risorgimento nazionale, o giù di lì. 
È un esempio di storiografia politica, che vale a spiegare il presente in base al passato, il quale a sua volta va sempre indagato e meglio conosciuto. E comunque sia, prima di rifiutare una qualsiasi tesi, non bisognerebbe perdere di vista la storia, che ha sempre da dire. 
Riforme nel periodo delle monarchie cosiddette "illuminate" di metà settecento ne furono attuate; innovazioni sempre di natura amministrativa (ché la prima questione per uno Stato e la sua prima forma d'identità è la sua amministrazione) furono introdotte da quell'esportatore di cultura borghese che fu per suo destino Napoleone; ma il nostro Risorgimento fu monarchico, piemontese, incoraggiato per dire finanziato e aiutato da potenze straniere, truccato con ogni mezzo (dalla studiata antropologia dei Mille alle "bustarelle" ai generali borbonici, al metodo degli eccidi), sostanzialmente antipopolare e ancor prima assai poco borghese. In altre parole, anche: se in Italia vi furono e vi sono idee innovative borghesi, o liberali, esse erano e sono votate a operare lontano dal popolo e, quel ch'è peggio, lontane non solo dal popolo. 

lunedì 27 gennaio 2014

La simpatia di Hobbes, ovvero lo Stato come feudo






È più che presumibile che vi siano fasi storiche nelle quali a una forte evoluzione degli strumenti tecnici  - questo o quello, nessuno escluso - corrisponde una “regressione” rispetto alla cosiddetta “civiltà”. E naturalmente né si tratta di una esclusiva dei periodi che hanno preluso ai conflitti mondiali né è che una crisi assomiglia molto all'altra.
A tale proposito è significativa la corrispondenza tra l'imporsi della comunicazione digitale (per semplificare un po': l'uso popolare di Internet, la vitalità dell'accesso) e certa crisi dello Stato-nazione; fra l'ingresso nella cosiddetta èra atomica e la trasformazione del rapporto pace-guerra. 
La regressione è come quando si stia per completare un puzzle di grandi dimensioni e grande impegno e intervenga un colpo di vento, più o meno inatteso, a far saltare tutto. Ma forse non è proprio così, se ci si pone sul terreno della necessità storica. 
Forse che la grande tecnologia, e meglio dicasi la tecnica, giunta a un suo specifico punto di evoluzione che potremmo definire "popolare", rimette in gioco il selvaggio, e meglio aspetti della condotta umana che si presumeva di avere definitivamente superati e meglio sarebbe dire rimossi? Il che indurrebbe la sensazione di una implosione o di un precipizio? 
Freud parlava di “regressione”, giustamente ascrivendo alla cosiddetta "civiltà" livelli forti di rimozione e deviazione degli istinti, i quali però prima o poi avrebbero sempre potuto presentare il conto. E Nietzsche a modo suo aveva già espresso il concetto. 
In tempi di regressione dunque l'indiscussa civiltà viene rimessa in discussione e la sostanza e le certezze vacillano, in barba alle presunzioni di solidità e a tacite rassicuranti presunzioni. È un po' come il vulcano dormiente, che periodicamente ha un suo risveglio e semina distruzione in villaggi e/o città.  
Ma si potrebbe notare come sia la storia della tecnica una volta a riconoscere il predominio del progresso, altra volta a volere la “barbarie”, o a renderne possibile comunque, per ragioni strutturali o di economia, la compresenza. E si potrebbe rafforzare questa impressione considerando con sensibilità heideggeriana come col trascorrere del tempo storico ciò che accade in relazione con l'evoluzione tecnologica altro non sia che disvelamento della essenza di una cosa misteriosa che si chiama tecnica. 

sabato 18 gennaio 2014

Teorìa e prassi del bipolarismo




Che senso ha parlare di bipolarismo e non - mettiamo - di «tripolarismo», o di «pluripolarismo»? Con quanta serietà lo si può fare, in presenza di tre e più polarità politiche, segnatamente in presenza di formazioni e associazioni volte non già all'esser corte ma decisamente al dialogo con i cittadini, ciò appunto che una struttura e filosofia bipolare verrebbe a escludere? 
Magia forse del numero Due (le bisacce di Zeus, il Bene e il Male, il principio maschile e quello femminile) che conduce alla idea dei due fattori generativi? Beh!: la pretesa sembra eccessiva e in questo anche un po' rivelatrice. 
Forse che il bipolarismo altro non è che una pretesa semplificazione, o una messinscena, o un mascheramento, un insieme di occultamenti, che gioca su una psicologia per così dire «sportiva» e di basso profilo, tipo: Coppi contro Bartali, Inter contro Milan, ecc., per dire «o sì o no»? Ovvero tutto sarebbe così spacciato per riducibile al momento di una filosofica de-cisione? E qui è anche accaduto che qualche politologo abbia ritenuto non senza ragione di usare il termine «duopolio», traendolo - e sappiamo che non è pura metafora - dalla economia: una concorrenza e una dialettica simulate. 
Immaginiamo per un attimo una società affollata da asini e petulanti in una realtà complessa: tale e tanta sarebbe in essa la manifestazione di opinioni, sfoghi, rivendicazioni di diritti di uomini, donne e bambini, animali e cose che non per questo tutto sarebbe riducibile a chiasso. Non per questo, anche le condizioni lo consentono, le soluzioni politiche finali dovrebbero essere anteposte ai problemi nei termini del «questo, non quello», senza la possibilità di terze vie e quanto meno di una fase istruttoria. Ciò sarebbe un forzare le scelte facendo della realtà un ritaglio rispetto all'ego; trovandosi moralmente nella condizione di avere sempre già deciso, anteponendo la troppa necessità alla necessaria libertà. Equivarrebbe a semplificare le questioni confidando nel poter reprimere la complessità, magari confondendo tra questioni reali e questioni fittizie o false; andando così un po’ alla deriva alla fine i governanti unitamente ai governati

martedì 7 gennaio 2014

I volti della storia (uno e più Robespierre)





Robespierre, il volto della rivoluzione: la ricostruzione in 3D
L'immagine in 3D del volto di Robespierre resa da Visualforensic


Il volto di Robespierre, l'Incorruttibilein articulo mortis, profondamente segnato dal vaiolo - e anche da una malattia immunitaria rara quale la sarcoidosi, secondo una diagnosi postuma di Ph. Charlier e Ph. Froesch -, reso in 3D: ecco una rivelazione, qualcosa di suggestivo, un modo interessante, fra il ricostruttivo e l'appropriativo, cui non siamo abituati, di documentare la storia; un po’ staccandosi dal nome nominato, un po’ indugiando sulla persona. Comunque - e qui la tecnica è l'essenziale - manipolando, per accostarsi alla verità. 
Un Robespierre quasi «fotografato», non già immaginato mentalmente sulla base di letture, o ritratto in un’opera di pittura - e/o stancamente sublimato. Una ricostruzione comunque utile, anche a voler confermare certe risultanze sulle cattive condizioni di salute del leader giacobino: problemi alla vista, frequente emissione di sangue dal naso, astenia, ulcere alle gambe e lesioni della pelle del volto, cicatrici del vaiolo contratto in età giovanile; sino a giungere retrospettivamente a parlare di sarcoidosi diffusa, con «compromissione degli occhi, delle alte vie respiratorie, del fegato e del pancreas». 
E tanto è vero che Maximilien aveva contratto il vaiolo da ragazzo quanto che la stessa cosa era accaduta a Danton - stando almeno alla biografia scritta da Robinet -, quanto che i giacobini avevano fatto della vaccinazione antivaiolosa una loro bandiera. 
Abbiamo così due Robespierre: uno con i piedi a terra, con il suo viso, il suo corpo, il suo stato di salute e uno rivoluzionario che è quello ideale, sostanzialmente nominato senza saperne più di tanto, ovvero congeniale a certi libri di storia vecchia maniera. 

lunedì 6 gennaio 2014

La cultura della "preunità" (la forma-Stato)




Sarà perché nessuno me lo ha mai insegnato a scuola, sarà più semplicemente perché - Freud o non Freud - l’idea di rimozione si è mossa sempre con una certa quale levità nella coscienza comune o è stata assimilata distrattamente; ma la legge per cui ogni cultura vincente e dominante ha bisogno per sostenersi e perpetuarsi di una forte componente rimozionale e più propriamente repressiva non è mai stata veramente apprezzata nei meccanismi della interpretazione, non solo politologica. 
Come se non bastasse, i primi testi extrascolastici o divulgativi di storiografia risorgimentale (Croce, Salvatorelli, ecc.) - perché questo è il mio tema ancora una volta - miravano più a incoraggiare che a chiarire, alimentando sì la fiamma della cultura nazionale ma anche il facile idealismo, nel quale peraltro credo Croce non rimase perfettamente intrappolato. 
E certo nemmeno l’idea pur importante di nazione illustrata a suo tempo da Federico Chabod sembra poter essere oggi di aiuto, per capire, anzi. Tanto che essa risorge nell’animo come un’aspirazione indotta, di fronte alla nuova egemonia europeista; che ricorda lontanamente Carlo Magno giù giù sino a quella che a suo tempo fu sentita come la morsa dell’Impero Austro-Ungarico e che a sua volta è sostanzialmente conseguente, o forse omogenea, ad altri aspetti fallimentari di politica nazionale.
Ora si sa che l’immagine dei Mille di Garibaldi come il pareggio di bilancio dei primi anni del nuovo Regno d'Italia, come altre storie e storielle, prima fra tutte quella sabaudista di un Sud agricolo e retrogrado a fronte di un Nord industrializzato e moderno, che si sono trascinate stancamente nella narrazione, sono mitologia. E ciò che in generale ci accade è che la scontentezza per l’oggi e l’ansia per il tempo che scorre ci sospingono indietro verso il passato, ora rendendoci prede di una regressione per dire imbarbarimento nei costumi, ora inducendoci a disseppellire e condurre alla luce, prima ancora che ad accettare, l’immagine che del passato ci era stata fornita, nella nostra più tenera età che è quella dell’infanzia, della pubertà e della formazione che conta, al di qua della retorica della formazione.

domenica 22 dicembre 2013

I prigionieri del palazzo




Ora sembra quasi in Italia che chi si era installato nel “palazzo” - e cioè la classe politica, in grado di risolvere solo i problemi (immaginati, irreali?) che essa aveva ideato per sé stessa e anche contribuito a procurare - rischi di restarvi chiuso dentro. Che insomma per i suoi occupanti il palazzo o se vogliamo il castello (palatium, castellum: latini che trasudano entrambi sensi medievali, tanto quanto il nostro sistema dei tributi) possa tramutarsi in una prigione. Da possesso dunque a trappola, o labirinto. 
Ancora il palazzo, dunque. Oggi però la situazione appare un po’ più complessa, rispetto a quando l'immagine fu coniata da Pasolini, anche perché i numeri dicono che parte del popolo arrabbiato è entrata in certi edifici del potere, in modo legittimo, formale; ma senza volersi fare coinvolgere dalla filosofia abitativa ivi invalsa, rifiutando cioè sino alla ostinatezza pura ogni compromesso con i suoi dimoranti tradizionali. E questo mentre fuori ora si accendono qua e là i primi fuochi d’insurrezione, si fa pressante e a tratti cieca la intolleranza nei confronti di una sorta di riedizione in tono minore dell’ancien régime: un regime politico parassitario, avvolto nella corruzione, nel lusso e nello spreco.
Naturalmente bisogna mettere nel conto la eventualità che il palazzo possa essere abbandonato dai suoi occupanti tradizionali, frammista all’altra, che è forse più una speranza di molti: che esso possa essere messo a ferro e a fuoco in occasione di un qualche tumulto. Scenari grosso modo non nuovi, caratteristici del tempo che viviamo ma non solo; laddove l’economia sia intenta a produrre la sua merce più congeniale, ovvero nuova povertà, nuovi debitori e nuove censure - e lo faccia spudoratamente con la forza.
Sappiamo degli aspetti socio-economici della Rivoluzione francese, grazie soprattutto alla indagine del compianto professor Soboul; sappiamo, per averle viste in teletrasmissione, delle rivolte recenti nel Nord-Africa; della insofferenza nei confronti di regimi autoritari. Sappiamo degli scricchiolii dei vari sistemi economici, o del loro tentativo di rimodularsi; sappiamo della storia della lotta fra le classi sociali e parimenti che l’impoverimento di una nazione non è l’impoverimento di una intera nazione. 

domenica 24 novembre 2013

Sempre in tema di Costituzione materiale




Dal punto di vista giuridico, l’attualismo di ciò che ottiene e/o guadagna effettività, e si consolida o si è consolidato, è anche un che di congeniale alla psicologia e il diritto lì si trova in difficoltà.
Sempre in tema di Costituzione materiale, ad esempio, dopo le lezioni di Schmitt, Kelsen e Mortati, la domanda può essere la seguente: la classe politica, il suo rapporto effettivo col paese reale, fa parte di detta Costituzione? Oppure: ne fanno forse parte i termini reali del rapporto di lavoro dipendente e la condizione di quello cosiddetto «libero», con i tradizionali esiti di giurisprudenza? Se il problema è che cosa sì e che cosa non, allora la questione si mostra subito debole dommaticamente quanto facilmente strumentalizzabile, laddove una riforma del testo costituzionale potrebbe snaturare di questo e il senso e le finalità.
E - anche - il dubbio in tutto ciò è che della Costituzione materiale si siano coltivate visioni apertamente ideologiche per quanto è nei termini originari della questione; oppure se ne sia elaborata una visione costituzionalistica, comprensibilmente rigida e preconcetta, laddove l’ideologismo - lo si potrebbe dire anche puramente giuridico se non fosse necessariamente anche repubblicano o antiautoritario - è rimasto inconfessato.

domenica 17 novembre 2013

Per una teoria delle "più economie"




Può esservi crescita economica in un paese pur aumentandovi la disoccupazione (ovvero: più soldi vanno al paese legale-istituzionale e/o alle banche, meno ne vanno al paese reale, meglio ai cosiddetti consumatori): ecco la lucida affermazione di un ministro del governo, cui bisognerebbe riconoscere un valore scientifico positivo. Perché in fondo la questione è la seguente: di quale economia si parla, parlando di economia? Comunque sia, essa così già non è più una; e se appare retorico opporre semplicisticamente il paese reale a quello legale o istituzionale e del pari lo è parlare di crisi economica generalizzando, è anche bene che quella contrapposizione, pur simbolica o idealistica se vogliamo, non sia mai messa da parte o rimossa. 
Che cos'è in fondo l'economia se non solo essa è riconoscibile in atti o gesti semplici quali l'antica traditio, l'azionamento di un aratro per la coltivazione di un campo, il cambio della dimora o la nascita di un figlio; e drammatici, quali un furto, una lite, l'appropriazione violenta di un territorio, un omicidio, un sequestro, un episodio di cannibalismo; ma in fondo ogni atto, per dire una qualsiasi azione, può essere letto come economico? 
Questa sensazione del molteplice e del reciprocamente irriducibile indica che nella interpretazione di azioni o situazioni economiche non tanto varrà la reductio ad unum dogmatica quanto la irriducibilità dell'una all'altra e il conflitto, sia pure latente, che sempre deve poter essere individuato. 
La teoria che è qui suggerita, delle più economie, se può esservi letta una regola - una fra le tante che si possono scoprire con la onestà scientifica e l’intelligenza di un crescente realismo storico -, dimostra o suggerisce fra l'altro che tanto le istituzioni cosiddette «democratiche» possono divenire indifendibili se occupate da persone corrotte e immorali, quanto è astratto e parziale parlare di economia come se essa fosse una e una sola e quella e solo quella. 

domenica 3 novembre 2013

De Fontenelle



Un cœur oublié, ovvero quale occasione migliore di un film, sulla vita del signor de Fontenelle - romanzata, certo, per ruotare attorno al fatto che costui alla età di oltre ottant’anni si fosse invaghito di una bella fanciulla, di maniere dolcissime e d’ingegno non comune - per comprendere almeno due cose della storia: che la libertà è quello zefiro che soffia su qualcosa come una Enciclopedia - dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers ovvero il bisogno di riunire il sapere promuovendolo come in un exploit -, confortandola e proteggendola e che la libertà nel pensiero così data, che solo trova modo di svilupparsi nei salotti, laddove lo spirito e la parola non abbiano il tempo di occuparsi dei bisogni materiali, apre il varco alla libertà politica; che è però altra cosa da quella, ha altra natura. Voglio dire: il nesso merita di essere ritenuto piuttosto sorprendente che ovvio. 
Intendo ripensare un po' in questo anche il legame fra illuminismo e rivoluzione francese e di come la libertà di un Voltaire, di un Diderot o di un d’Alembert, pur non coincidendo con quella ma a quanto risulta ad essa avendo dato l’avvio (non basta la Riforma per spiegare le rivoluzioni borghesi), siano stati il pretesto per altra libertà, pragmatica, che sarebbero state piuttosto istanze di giustizia ed eguaglianza economico-sociale e umana, tolta alle confessioni religiose, unitamente al potere sulle scienze, la forza della promessa.

martedì 29 ottobre 2013

L'antiStato




L’equivalenza alla fine c’è ed è la seguente: l’antiStato è come lo Stato o quanto meno esso mira a indossarne gli abiti, assumerne il look; fa di tutto per somigliare a quello e anzi per compenetrarvisi ed esserlo, certo a modo suo. O forse anche, osserverebbe un maligno, se l'antiStato è indistinguibile dallo Stato allora la differenza alla fine conta poco. Mi fa pensare a queste cose, non proprio di passaggio, un libro interessante (Legalità costituzionale e razionalità legislativa, Napoli 2009), che metterei fra quelli che sanno penetrare e percorrere la realtà, ragionando sui particolari, autonomamente dalla teoria letteraria che governa i testi a stampa.

domenica 20 ottobre 2013

Uno "sporco gioco", ovvero certi attacchi al pensiero cattolico




Se accusare di marxismo e meglio di comunismo tutto ciò che sfavorisca il proprio arbitrio e ostacoli i propri interessi è vituperabile, volgere quell’accusa contro la parte migliore del pensiero cattolico laddove questo parli della persona e del sociale (e anche dell'amore) è uno sporco gioco. Significa lavorare per deturpare e il volto stesso del cattolicesimo come cultura e della cultura nazionale, per ferire l'uomo, giustificando con il pretesto della fede “personale nonostante il mondo modi di vita lasciati a sé stessi, rapporti di forza selvaggi, oscurità morale e intellettiva.
Come nascondersi oggi il nesso fra distribuzione della ricchezza e nobiltà della mente, o fra vita civile di un popolo e sana elaborazione di pensiero? Ci vuole un po’ più di capacità a stabilire legami, senza erigere castella a difesa dell’ignoranza e dell’oscurantismo. Dunque è evidente come sia delittuoso sacrificare il patrimonio culturale, scientifico e di pensiero di un paese a rozzi interessi materiali e/o a uno sgangherato principio di piacere. 

domenica 13 ottobre 2013

Fra misticismo e capitalismo (a proposito di un fiume sotterraneo)




Siamo abituati a immaginare l’uomo da una parte e la scienza e tecnica dall’altra, come se la verità si fermasse alla contrapposizione, prima ancora che ad essa sia dato il tempo di disporsi su una scacchiera. 
Mentre è anche che - e lo spunto mi viene da certa filosofia mistica d’ispirazione cattolica, per la quale la cosa è da condannare teoricamente/moralmente - scienza e tecnica pur nella contrapposizione sono l’unica chance che l’uomo ha o sente di avere a disposizione per "insidiare" la potenza divina. Ma qui l’uomo non deve osare, secondo quella filosofia, e dunque l'antitesi più che ancestrale fra ciò che è come è in natura (fùsei) e ciò che è tecnico risulterà sempre decisiva. 

domenica 6 ottobre 2013

Eutanasia, questione ENORME




Il medico e filosofo inglese Francis Bacon - siamo agli inizi del seicento - riteneva altamente desiderabile che i medici imparassero «l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità»; insomma il medico nella sua qualità avrebbe dovuto aiutare non solo a sanare ma anche a morire, in caso di insanabilità.
Francis Bacon
Già, è la cosiddetta «dolce morte»; ma il trucco umanitario per sé non spiega sino in fondo la questione - comprensibilmente essa è stata definita un tabù (Alagna, in Riv. it. medicina legale, 3/2012) - e forse l’invito baconiano va meglio apprezzato, secondo il nesso medicina-filosofia.
La eutanasia è una questione importante, credo quanto lo è l'esistenza stessa, o quanto lo sono le condizioni materiali di vita, soprattutto se precarie. Ed è una di quelle grandi questioni che sono state trascurate dal pensiero; laddove per contrasto con l’intelletto medio e ordinario è ancora una volta un medico-filosofo ad avere qualcosa da insegnarci.

domenica 29 settembre 2013

I diritti del tiranno (giochi e volti della politica)




Chiunque ha diritto ad avere i suoi diritti. Dunque alla fine anche il criminale ha diritto a essere rappresentato in parlamento: ecco un’affermazione resa dall’avvocato di un celebre primo ministro, che certo è da approfondire, perché si viene a dire così che il criminale può essere eletto democraticamente. 
Abbiamo allora diritti o non piuttosto eccessi di libertà sino alla irrisione della legge, spacciati per democrazia, secondo la descrizione fornita da Platone (Rep., VIII. 106)? Già: è che si tratta di chiunque, giacché questo è radicato nell'animo. 
Ritratto di creonte tiranno greco
Creonte, re di Tebe
E il discorso a questo punto si fa apertissimo: si va dal tiranno (egli non si dichiara tale ma lo è; non si sa fino a che punto egli lo possa essere effettivamente, ecc.), che impone i suoi dicta e i suoi iura con ogni mezzo (e dunque anche con retorica e soavità, non solo in modo autoritario e criminale), al popolo, ai cittadini - e non - che dal canto loro vivono con mitezza o quasi nel quotidiano, all’immigrato, lo straniero poverissimo, che reclama i suoi diritti, sapendo di essere l'altro da sé mai amato e di avere poco da perdere: questo è il copione; nel quale si legge molta biologia, poca ragionevolezza, ancora minore razionalità. E aggiungerei: il tiranno è colui che sempre vorrà esserlo e il suo potere, per essere stato costruito come reazione alle minacce dei nemici, sempre sarà minacciato; sempre egli quindi dovrà ricorrere a ogni mezzo; e ancora: naturalmente il tiranno di Alfieri non è lo stesso di Tocqueville, il quale parlava della tirannide della maggioranza. 

sabato 28 settembre 2013

Una costituzione moderna eppure "posmoderna"? (La spiegabile insofferenza dei costituzionalisti seri)




Il professor Paolo Grossi, storico del diritto, attualmente membro della Corte costituzionale, in una lezione dottorale del giugno 2013, inquadrava la nostra Carta fondamentale del 1948 nella cosiddetta età “postmoderna” (o “pos-moderna”, come egli preferisce dire). Laddove l’idea critica che scorre sotto il postulato è l’astratto individualismo delle costituzioni borghesi. Ma si tratta di una esatta cornice o non piuttosto di un contesto? 
Ciò per cui l'insigne giurista viene a parlare di postmoderno è la fine della modernità quale individualismo delle carte dei diritti, quelle americane e francesi del settecento per intenderci, e il fatto, in ciò, che mai, come durante l’epoca di cui da tempo si celebra la fine, «si è avuta una separazione tanto netta e una distanza tanto estesa tra Stato e società. La società era concepita come il regno della irrilevanza giuridica nella sua ripugnante magmaticità fattuale, una sorta di basamento amorfo sepolto ben al di sotto dell’apparato statuale e ad esso estraneo nella sua imprescindibile materialità; una materialità socio-economica che, agli occhi del giurista moderno, non aveva qualità differenti da una struttura geografico-fisica o geologica» (La costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno, in Riv. trim. dir. pubblico, n. 3/2013, p. 609).

domenica 15 settembre 2013

Le "bonnes mœurs" (ovvero se la morale popolare sia elevabile a criterio della giuridicità)



Le bonnes mœurs «sont les habitudes, les usages conformes à la moralité, à la religion et à la culture d'un pays ou d'un peuple. Elles constituent un ensemble de normes, le plus souvent coutumières, en partie formulées dans les traités de civilité et dans les règles de droit civil et pénal. Elles varient selon les peuples et les époques, et constituent l'un des objets d'étude de l'ethnologie et de la sociologie comparative historique».
Definizione complessa, non v’è dubbio, questa che mi è dato trarre da Wikipedia; e così dev’essere, perché ogni ordinamento giuridico avrà le sue lacune fino a quando vi sarà qualcosa nella morale che il diritto non riuscirà mai a prendere, così come accade all'evento che esso sia irriducibile a fattispecie
La questione è tale per cui se essa è morale allora è giuridica
Come tale essa fu posta nel code civil napoleonico, nel suo clima formativo, laddove si trattava di salvaguardare congiuntamente, secondo la Présentation di Portalis (cfr. G. Terlizzi, Il contratto immorale tra regole giuridiche e regole sociali, Napoli 2012, p. 19), morale e legislazione. E bisognerebbe capire bene dove si giunga con quel “congiuntamente”.

mercoledì 11 settembre 2013

Conservatorismo e liberalismo




L’irlandese Edmund Burke, nella sua invettiva ragionata contro la rivoluzione francese (Reflections on the Revolution in France), lasciò intendere (dicendo di ispirarsi al modello anglosassone) che si sarebbero potute avere libertà e democrazia senza l’azione di quei soggetti, popolari e borghesi (era l’orribil giacobinismo) per i quali soli pur esse avevano invece un senso; ovvero senza oligarchie e violenza; e che forse quella rivoluzione non sarebbe stata poi così necessaria.
Edmund Burke
Sminuire il valore e il senso di questi o quei determinati fatti nella loro qualità specifica e unicità (quei precisi fatti come ciò senza cui non sarebbe stato nemmeno immaginabile che le cose potessero cambiare nel modo come ciò sarebbe avvenuto) è un atteggiamento che attraversa il pensiero conservatore. Ed è un principio prossimo all'altro, sempre d’indole conservatrice, per cui noi possiamo pensare la storia come reversibile e non necessaria. Ovvero scindere la libertà dalla storia, od opporla alla democrazia. O come l’altro ancora, per cui la violenza è comunque qualcosa che va ripudiato.