martedì 11 giugno 2013

Della fragilità popolare (e delle fragili argomentazioni spontaneistiche)



Carl Schmitt, in uno degli scritti raccolti in Democrazia e liberalismo, scavava nelle differenze tra referendum e proposta di legge popolare, secondo la Costituzione repubblicana di Weimar. E certo è, come egli teneva a sottolineare, che non si dovesse, non si potesse fare confusione fra i due istituti. 
Ma è interessante il pensiero riguardante l’esercizio del diritto di voto, che secondo Schmitt non è da un  punto di vista democratico un che di diretto, o popolare-partecipativo, perché è individualistico, astratto, ecc. - e se volessimo dire per non scontentare Gierke, che esso è “antiorganicistico”, allora ci troveremo prima o poi a interrogarci sulla esattezza di un siffatto giudizio.
Sarebbe ideologicamente liberale insomma, a quanto mi è dato comprendere - e l’ideologia liberale è in crisi e sembra essere l’oggetto della questione, la quale si sviluppa più per negativum che in altro modo -, ritenere che il diritto di voto sia veramente democratico, ovvero: «L’immediatezza della democrazia non si lascia organizzare senza cessare di essere immediata»[1]. 
Dunque l'ideologia liberale non risponderebbe al vero e se è questa la tesi critica emergente, allora la questione si drammatizza, lasciando trapelare soluzioni politiche peggiorative rispetto ai problemi. 
Certo è più “popolare” (per fonte e modo) il referendum, laddove sia il collettivismo stesso a esprimersi, ovvero il popolo come mònos, o come immediatezza.
Un primo concetto emerge allora con un minimo di chiarezza a questo punto ed è che il voto politico o amministrativo è “democratico” per la ideologia liberal-borghese, non per altri… che sentano le cose diversamente. E se non è così, se le democrazie costituzionaliste del secondo dopoguerra hanno mostrato di non sapersi liberare del modo liberal-borghese di pensare, ciò dovrà fare riflettere (non reagire e basta), anche sulle compatibilità, fra democrazia formale e altro. Dunque il voto è comunque sub iudice. E non per questo - sia beninteso - esso come diritto va disprezzato.
Ma poi emerge anche l’altro aspetto della cosa, e meglio della ricerca di una spontaneità e immediatezza di partecipazione alla res publica: che ridurre il referendum - e la possibilità stessa di un vero immediato intervento del popolo attraverso il referendum - alla semplice acclamatio, o percussio scutorum o che altro (già: il famoso plebiscito) di affine, poiché come a Schmitt piace ripetere al popolo si addice non il domandare ma il rispondere e cioè il dire “sì” o “no”, ciò pone in risalto non una ma due volte l’altro aspetto della fragilità popolare. Laddove è bene intuibile che la spontaneità e la immediatezza - ammirate in un teatro - non sono garanzia di veridicità su certe cose. E qui, mentre sembra risalire la classifica politica l’irrazionalismo (forse nelle sue forme più piccolo-borghesi), che esalta le azioni orgogliose ed eroiche di un popolo, lì appare chiaro che la povertà come la malattia come la incultura sono beni strumentali.
Il che però appunto sembra addirittura rimettere in piedi sulla scacchiera il povero fante liberale, rispetto a Schmitt, proprio perché le critiche del teorico tedesco e il suo lavoro di scavo scambiano la spontaneità del manipolo con la manipolazione della spontaneità e finiscono così per tornare a quelle verità sulle quali si regge il liberalismo borghese. E a ciascuno sia consentito valutare in che senso... 
È anche - credo - che Schmitt se non è scientemente infastidito da ogni forma di giacobinismo - ma anche di pacificazione sociale - ovvero da quel punto focale in cui una classe sociale in nome di una lotta unita accetta la ideologia (universalistica, nel nostro caso) di un’altra classe, fa di tutto per scongiurarlo. E citerei non solo Robespierre o il suo spirito…
Il popolo comunque torna ad essere bene osservato, rispolverando certe radici storiche di certi istituti. Perché allora non trasporre un po’, almeno metodicamente, la faiblesse di cui parlava Montaigne dall’individuo alla massa popolare, al popolo soprattutto colto nel momento di esprimersi su una qualche decisione, di ordine comune, sia pure tendenzialmente prendibile dall’alto?
Tenendo nel debito conto il fatto che il popolo cosiddetto votante è solo un frammento che può appartenere a qualsiasi personalità?


[1] SchmittDemocrazia e liberalismo, trad. it. a cura di M. Alessio, Milano 2001, p. 80. 

venerdì 7 giugno 2013

"Dubia" sul diritto di voto




E se un liberale come me, o quanto di liberale ancora resta in me - io che forse non lo sono mai stato alla perfezione - o che in me risorge periodicamente, eccepisse sul diritto di voto?
O lo facesse un benpensante scandalizzato dal basso livello cultural-politico, morale, intellettivo ecc. degli eletti di oggigiorno? O dal fatto che costoro remino apertamente contro il benessere economico e morale della nazione, e/o dei territori? 
E anche: quale classe sociale oggi accetterebbe l’idea che altra classe la coinvolga ideologicamente, in modo serio ancor prima che emotivo? Certo l’atomismo (l'ognuno chiuso in sé stesso, la disgregazione del tessuto sociale, etico, ecc.) è imperante, quanto lo è l’ignoranza, e questo non va bene; ma credo di avere capito che vi è sempre al di sopra di ogni cosa qualcuno pronto a odiare il giacobinismo, come fu per Hitler; ché il giacobinismo, e cioè l'alleanza fra classi dovuta ai comuni interessi lesi, è trasformativo, in senso democratico. 

La scommessa antioscurantista (nostra e) di P. Häberle: "Diritto fondamentale" come disciplina



Che cosa significa che le norme della nostra Carta costituzionale non sono l’una eguale all’altra, che in essa vi sono cioè dei “principi fondamentali”, definiti anche  “supernorme” (così una sentenza della Cassazione: sez. I civile, n. 6672 del 1998 in tema di efficacia nel nostro ordinamento della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) ovvero che si possa parlare di una “superlegalità costituzionale” (così l’indimenticabile Mortati) o di principi che non sono norme per ciò che questo termine significa negli ordinamenti statuali; o che si sia potuto o voluto distinguere, in occasione dei primi scrutini riguardanti le leggi “anteriori”, da parte della Consulta, in quanto ai parametri, fra norme costituzionali “programmatiche” o “direttive” e norme “precettive”; o ancora che la questione della efficacia-esistenza di una legalità costituzionale sia da tempo di attualità, e che il dubbio sulla sua non scalfibilità - ma appunto bisogna vedere in quali termini e con quanta coscienza - sia stato espresso da parte di giuristi per così dire “non sospetti”?

domenica 2 giugno 2013

L’immunità parlamentare: garanzia o privilegio?



L’immunità parlamentare nasce, secondo certa ricostruzione storica, con il Bill of Rights del 1689 (art. 9), allo scopo di garantire il legislativo dai possibili soprusi del re; soprusi, meglio, dell’esecutivo nel suo complesso, che al re faceva capo. 
File:English Bill of Rights of 1689.jpg
Il "Bill of Rights" del 1689
Ma nella storia ogni cosa può sempre divenire l’opposto di ciò che essa è stata, almeno nel suo primo manifestarsi. Così, in séguito, a re ed esecutivo si sarebbe sostituita la legge penale in quanto legge. E prima la legge penale (: la legge è uguale per tutti) quale prodotto specifico del parlamento (dunque il legislatore messo al riparo dalla legge), che non la magistratura, che a quel prodotto avrebbe dovuto dare applicazione.
Inizialmente dovette prevalere, nella definizione dell’istituto, la sacralità e inviolabilità del luogo, per cui - e l’interpretazione in tal senso si è protratta sino al nostro ottocento - il parlamentare non poteva essere sindacato per i voti o per le opinioni qualora le esprimesse all’interno (intra moenia) delle camere: avrebbe potuto esserlo se li avesse espressi all’esterno (extra moenia); in séguito, sostanzialmente a causa della Rivoluzione francese ma - anche - di quanto di essa gli antirivoluzionari avrebbero conservato, la insindacabilità venne a legarsi alla funzione, quella di rappresentare l’intera nazione; e di qui il criterio, assai dibattuto nella giurisprudenza, del cosiddetto “nesso funzionale”. 

sabato 1 giugno 2013

Diritti universali, catechismo nazionale

 

La Dichiarazione dei diritti del 1789 era troppo astratta rispetto al diritto continentale e meglio europeo - detto ciò lato sensu, a volervi ricomprendere anche la cultura giuridica inglese - per potersi ritenere che ne costituisse la normale evoluzione. 
E questo non per quanto essa potesse derivare - mettiamo - dal contratto sociale di Rousseau (il controverso philosophe del quale Robespierre al cospetto della neonata Assemblea costituente della Rivoluzione francese ebbe subito a dire che con il suo genio aveva “illuminato l’umanità” e “preparato i vostri lavori”) ma perché parlava di diritti “universali”, il che significa: il diritto posto su di un livello diverso, approdato a un grado più elevato di elaborazione, rispetto ai diritti “della terra” e alle antiche “libertà” o ai patti costitutivi di questa o quella nazione, di cui questo o quel popolo potesse chiedere nei momenti “rivoluzionari” il ripristino. La giuridicità, posta in certo modo al di sopra delle teste degli uomini, e cioè il diritto, quasi come un che di trascendentale. 

domenica 26 maggio 2013

Lo Stato dei partiti (Schmitt: una rilettura, oltre le soluzioni autoritarie)



Il guscio d’uovo dello Stato si è rotto e la società, messa la parola fine al dualismo della differenza  Stato-società - ma alludo alla società pluralista e disomogenea - è potuta entrare nello Stato. È da tempo - se vogliamo - che avviene quella «invasione della costruzione statale da parte delle lotte sociali tra interessi» segnalata da Gneist nel suo Die nationale Rechtsidee. Ma forse il problema è di sempre. 
Siamo, per le citazioni, alla prima metà del novecento e lo Stato di cui si viene a parlare è il moderno Stato legislativo, succeduto a quello liberale ottocentesco; ma non solo e ancor prima a quello medievale, basato sul primato della giurisdizione e a quello burocratico e militare, ovvero dell’esecutivo, identificabile con le monarchie cosiddette "assolute". 
A quanto mi è dato comprendere dalla mia personale lettura de Il custode della costituzione, lo Stato legislativo, per un giurista come Schmitt - che aborre lo Stato giurisdizionale e la «prassi americana del controllo giudiziario della legge»[1] - è uno Stato comunque sociale e dunque coinvolto, ché esso non può essere nei fatti ancor prima che nelle intenzioni indifferente a ciò che accade.
Carl Schmitt
Addirittura tale Stato può essere considerato come l’autorganizzazione della società; di modo che sarà difficile alla fine distinguere fra gli interessi statuali e istituzionali e quelli dei gruppi sociali organizzati e/o associati, preferibilmente in forme partitiche; ciascuno avente una sua idea di legalità («pluralismo dei concetti di legalità, che distrugge il rispetto per la costituzione, e trasforma il campo della costituzione in un terreno insicuro e conteso da più lati»)[2]; ciascuno che vorrà entrare nello Stato.

La crisi dello Stato moderno




Agli inizi del secolo scorso, ne Lo Stato moderno e la sua crisi, Santi Romano, teorico indimenticabile del nostro diritto pubblico, sottolineava come stesse crescendo storicamente (ed è il caso di sottolinearlo: nella vecchia Europa) l’onda del fatto di contro al diritto, del sociale lato sensu - in generale si trattava di gruppi che si costituivano al di fuori dello Stato in assetti “corporativi” o sindacali o partitici, attorno a interessi economici; ma, ed è qui l’invito interpretativo, non bisogna mai perdere di vista né le complicità popolari né le spinte fornite dal vitalismo - di contro al giuridico, non solo in quanto statuale. E anche si potrebbe insinuare, a volerci mettere il paradosso, o l’ambivalenza: forse che era crisi di uno Stato che non lo era mai stato abbastanza, di diritto, se si temeva che non lo sarebbe stato più come prima? Crisi di un dover-essere prima ancora che di un essere? Guai, detto altrimenti, se fosse venuto meno qualcosa che si sarebbe potuto rimpiangere, di quello Stato di diritto, in chiave d’idealità.
Si trattava della crisi dello Stato moderno, prima ancora che dello Stato liberale; incrinamento di quella dottrina - e fede, perché non? - che si era venuta formando tra il XVI e XVII secolo, attraverso il pensiero di Machiavelli, Bodin e Hobbes, teoria della certezza e del monopolio dello Stato, quale soggetto (divino) della presunzione morale del diritto.

sabato 25 maggio 2013

Paradosso jeffersoniano

 


«Se fossi chiamato a decidere, se il popolo preferisse essere escluso dal dipartimento legislativo o giudiziario, direi che sarebbe meglio escluderlo dal legislativo. L’applicazione delle leggi è più importante del crearle». Verità sottile e certamente politica, almeno dal punto di vista di chi, come me, crede che Dio solo faccia le vere leggi. 
Thomas Jefferson annotava questo pensiero - e direi di andare oltre la pur significativa idea della giuria popolare - sulla base della fiducia quasi cieca che egli nutriva in due principi di ordine politico e istituzionale: (a) la divisione del potere, per competenza («[…] il modo di avere un buon governo non sta nell’affidarlo a uno solo, ma nel dividerlo tra i molti, distribuendo a ognuno esattamente le funzioni ch’è più adatto a ricoprire»), spinta sino alla «amministrazione della propria fattoria» (posta dunque in chiave di capillare distribuzione social-territoriale) e (b) la partecipazione popolare, diffusa quanto più possibile, alla conduzione del governo («L’influenza sul governo deve essere divisa fra tutto il popolo»; «E ditemi […] se la pace sia meglio tutelata dando energia e forza al governo o notizie e istruzioni al popolo. Quest’ultima è la più sicura e più legittima macchina del governo»), ovvero l’assegnazione al popolo, quale organo, del miglior ruolo costituzionale possibile. Sino appunto a scivolare nel paradosso.
Le parole del celebre e controverso statista americano, essenzialmente quel «L’applicazione delle leggi è più importante del crearle», sono in linea con l’ideologia giuridica dei paesi di Common Law, incline a preferire - non però in un modo assoluto, non cioè tralasciando il valore del cosiddetto Statute Law - il giudice al legislatore; ma in questo dato per così dire pacifico io credo di poter leggere anche una nota in qualche modo sorprendente.

venerdì 24 maggio 2013

Rappresentanza e obbedienza (fra istituzione e naturalezza del comportamento)




Come i parlamenti dell’Europa medievale già prima dei secoli XII e XIII erano chiamati nei fatti all’ufficio del rappresentare, così tale ufficio appare, oggi più che allora, irrinunciabile, soprattutto sotto un profilo formale.
Difficile immaginare, antropologicamente ancor prima che giuridicamente, l’organizzazione politica di una società senza parlamento e cioè senza luogo e/o modo nel quale convenire (e contarsi, e usare il linguaggio, appunto non "parlare" ma "parlamentare") per prendere decisioni che impegnino una intera comunità, o un intero popolo.
Ciò lo si può attribuire a tre ordini di cause: che il consenso popolare in qualsiasi forma è ineludibile, per chiunque abbia il potere, che la rappresentanza politica ha radici tanto sociali quanto istituzionali (il pensiero va alla repubblica ginevrina, per la valorizzazione fattane da Rousseau) e che la funzione legislativa - che si dà spesso come prevalenza del parlamento - non combacia con quella rappresentativa in quanto tale.
Ovvero sarebbe difficile immaginare l’organizzazione politica di una società senza un qualche parlamento se, per assurdo, non vi fosse differenza tra mera partecipazione alla formazione di decisioni o leggi e potestà di decidere o di legiferare. E qui prende vigore per noi la ricostruzione storica.
Del parlamento in senso moderno - avvertiva Antonio Marongiu - non è agevole individuare la vera esatta origine

Rex Judex (giochi etimologici e personalità del potere)



Nel medioevo, secondo la ricostruzione fattane dallo storico Antonio Marongiu in un saggio del lontano 1954, il re ben presto dové dimostrare di essere degno per così dire del suo titolo. Ovvero, per essere re, egli dové difendere e coltivare un suo “onore” (l’onore che, secondo quanto asserisce Montesquieu nel suo Esprit de lois, è principio del governo monarchico, come ciò che lo fa agire). Dové farlo, intuitivamente, perché era la più alta autorità politica esistente sulla Terra, perché quella carica racchiudeva in sé il dono della universalità e perché a essere tirato in ballo era il principio stesso di autorità. E da certe cose non ci si allontana mai: Deus-Zeus, pater, auctoritas
Il motto di Isidoro da Siviglia (Ethimologiarum libri) è abbastanza eloquente al riguardo, anche se il gioco verbale appare sin troppo agevole: Rex eris si recte egeris: “sarai re se avrai agito rettamente”; laddove nel gioco dell’apparenza etimologica (congeniale all’età di mezzo, soprattutto al rinascimento bolognese) si può cogliere il senso di un messaggio e cioè l’assonanza e l’identità di radice fra rex, recte e regere. Come dire: l’attribuzione “morale” era già scolpita nella parola, anzi nel monosillabo; si trattava solo portarla alla luce e di darne testimonianza. 

mercoledì 22 maggio 2013

Ricchezza e peccato (breve commento della lettera enciclica "Caritas in veritate")




papa Paolo VI
Come si pone - me lo chiedo avendo letto su una fra le più serie, più specialistiche riviste italiane di diritto del lavoro un articolo sulla Caritas in veritate - la dottrina sociale cattolica di fronte alla “crisi” economica mondiale che stiamo vivendo, dopo che già papa Paolo VI, nella Populorum progressio, aveva compreso chiaramente “come la questione sociale fosse diventata mondiale” (Caritas, n. 13)?
Sostenendo innanzi tutto, a proposito del problema del bene e del male (e di qui è il caso di domandarsi perché per la Chiesa Romana ma appunto mondiale l’economia sia importante, proprio al di là del fatto che lo sia per tutti), che “all’elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato (e … se non è il peccato originale allora il concetto è chiaro), si è aggiunto ormai da molto tempo quello dell’economia” (ivi, n. 34); o affermando che la legge della produzione per la produzione, ovvero del profitto fine a sé stesso, noncurante verso chi ne venga a soffrire - sino all’inedia, sino alla morte o sino all’omicidio -, danneggia la ricchezza stessa, intesa come “bene comune” o grandezza globale. Che cioè per il medesimo principio l’eccessiva produzione di ricchezza a vantaggio di taluni così induce fenomeni di spreco ed elide la ricchezza stessa, come causa nuova povertà e accresce il divario fra ricchi e poveri; ma provocando per la nostra sensibilità attuale danni a livello mondiale, al di là del concetto stesso di classe sociale; non potendo più per una nuova coscienza il giudizio essere contenuto entro confini predefiniti per essere divenuta la Terra nella sua totalità e la sua condizione generale come risultato, strumento valutativo della natura delle cose. Che dunque qualsiasi trend di sviluppo e qualsiasi scelta politica in economia - e di qui l’esortazione ai politici e l’auspicio di un’autorità mondiale che se ne occupi - incide necessariamente sulla morale, che non è più la semplice morale separata, e la cosa ha assunto una drammaticità tale per cui è imperativo ora civilizzare l’economia dando un’etica ad essa e leggendola molto in chiave di rapporti di lavoro.

Il pudore della pena






L'epoca dei Lumières, nel maturare dei suoi effetti, segna il tramonto delle pene afflittive e meglio: lo spiega. 
Il corpo cessa di essere l'oggetto principale dell'esecuzione penale la quale è sottratta alla condizione di pubblico spettacolo: la pena - scrive Foucault - "lascia il campo della [di una - per noi oggi; ma allora? - orribile, terrificante] percezione quotidiana, per entrare in quello [più mite, più ... umano] della coscienza astratta". Ora, se questo è vero, allora bisognerà spiegarsi il senso di un'"astrazione". 
Il mutamento racchiude in sé motivazioni "politiche": già nel cinquecento, come lamentato dal noto criminalista de Damhoudère (il quale in questo veniva ad anticipare il Beccaria), i pubblici supplizi non fornivano una buona immagine della giustizia penale, la quale in nome della sovranità commetteva nei rituali dell'esecuzione crimini più atroci di quelli che puniva. 
Culturalmente, v'erano allora le premesse per l'abbattimento di qualcosa di primigenio della giustizia penale (: “non di rado la punizione dà agli esecutori l'opportunità di commettere a loro volta, sotto il manto giustificativo dell'espiazione, la stessa azione sacrilega": Freud, Totem e tabù); ma è proprio qui il punto... 
La distruttività punitiva insomma - ancora troppo vicina all'antichità, anch’essa per noi “inumana” ma allora “giuridica”, mettiamo, della crucifixio o della ossis fractio, o del culleus (il sacco, o analogo contenitore, nel quale era cucito il corpo del reo ancora in vita) dei parricidi - non valeva a "educare".  
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Cesare Beccaria

martedì 21 maggio 2013

Stato di angeli, ... ...



La morale è interiorità, il diritto esteriorità. Attorno a questa chiara distinzione - ma guai a farne una questione di gerarchia (!) - ruota, più di quanto forse non risulti subito evidente, l’intero costrutto della filosofia politica kantiana - e non solo kantiana. 
Forse che Kant si sia limitato a enunciare principi insiti nelle opere dei pensatori che lo avevano preceduto, pur distanti da lui nella opinione corrente in quanto a sensibilità intellettuale (ad esempio Machiavelli)? O forse che in ciò egli abbia anticipato motivi di fondo presenti poi, in modo più manifesto, nei filosofi che sarebbero venuti dopo di lui (ad esempio subito Hegel, più forse con l'idea dello Stato bene organizzato che con il concetto di “eticità”: Sittlikheit, esposto nei Grundlinien)? Certo è che le sue posizioni risultano perfettamente allineabili con l'illuminismo. 
Comunque sia, ciò è quanto si può ritenere qualora si ammetta che “morale” è tanto sinonimo di “perfezione” (l'assoluto individuale) quanto oggetto di attenzioni scientifiche, anche in relazione ai suoi possibili risvolti negativi. Ed è qui che si ha il senso di una crescita civile, legata al governo delle leggi. 
Prendiamo in considerazione, per spiegarci, l’immagine dello Stato di angeli, alla quale si fa cenno nello scritto del nostro Autore sulla Pace perpetua
La forma repubblicana (“la sola che si adatti perfettamente al diritto degli uomini, ma anche la più difficile a costituirsi e anche più a conservarsi”), secondo il filosofo tedesco, è la migliore organizzazione per lo Stato

domenica 19 maggio 2013

La morte del libro


(riferimenti tratti dall'e-book Crepuscolo dell'uomo di Gutenberg) 


Ne La galassia Gutenberg, riallacciandosi al pensiero del matematico Whittaker, McLuhan sottolineava il legame fra uno spazio “contenitore neutro”, gassendiano quanto euclideo, o uno spazio anche newtoniano, che in sé stesso continuava ad essere “niente più di una non entità, senza alcuna proprietà eccetto la capacità di essere occupato”, e la scrittura fonetica, legata soprattutto alla stampa ed alla tipografia, con la sua “finzione di omogeneità e di uniforme continuità”. 
Marshall McLuhan
Quello spazio “vuoto” perché puramente fisico, secondo McLuhan, non avrebbe turbato la cultura della stampa, laddove questa aveva separato “la sua consapevolezza visiva dagli altri sensi”. Ed anzi vi avrebbe trovato una garanzia di perpetuazione, una complicità, con la sua “divisione in settori della conoscenza”, laddove la scienza fosse priva d’influenze “sull’occhio e sul pensiero”. 
Le cose in séguito sarebbero cambiate, secondo il padre della mediologia, allorquando con Einstein quello spazio contenitore neutro e perfettamente uniforme, da “teatro del dramma della fisica” si sarebbe tradotto in attore di quel dramma. Ovvero allorquando, col riconoscimento dello spazio curvo, nel 1905, per la crisi di un certo mondo gravitazionale sancita dalle teorie della relatività, la “galassia Gutenberg” sarebbe stata “ufficialmente dissolta”. 
In anni successivi, dopo quell’annuncio ma seguendo percorsi di pensiero diversi, il poststrutturalismo  francese avrebbe proclamato la “morte del libro” definendola fra l’altro come la fine del primato degli alfabeti fonetici, della parola “se-dicente”. 

“Morte del libro” significa che si sono installate le condizioni e dunque la possibilità che non si stampino più libri, come prodotto in carta, come corpo e come corpi. Nel senso - anche - che ora essi possono essere - e ciò continua ad avvenire - stampati, venduti e letti. Ma allo stesso tempo che qualcosa è accaduto alla scrittura, come libertà, oltre certo però che anche come gravitas, per cui alla stampa non sarà più concessa la condizione di idea univoca. E la scrittura sarà se non più libera più immediata, laddove fra i due concetti dovrà esservi sempre una distanza. 

sabato 18 maggio 2013

Existentialisme … malgré lui (brevi riflessioni, anche sul personalismo filosofico)



Io traggo il mio piacere (o di che dire?) dalla paura del nulla. Io e il nulla così è come ci spartissimo tutto, per una mia naturale tendenza al piacere e per non sapere personalmente che cosa sia davvero il nulla. E gli itinerari pensabili qui sono due: o io contrappongo al nulla il tutto e/o l’Uno, di divina istituzione o di plotiniana memoria, oppure io solo restando immerso in ciò che sento (e il mio sentire qui è recondito) e definisco come “nulla” proclamo il tutto ma come un quid che lo sostituisca. 
Ciò mi accade però senza che io possa davvero identificarmi col nulla: posso decostruire, destrutturare; può accadermi soprattutto in periodi di difficoltà economiche e/o di cattivi rapporti sociali e affettivi, che io a tratti non mi riconosca più in questa o quella cosa che faccio, che emergano nel disagio o a causa dell'età aspetti della personalità totalmente sorprendenti, che io poco prima ignoravo completamente; ma il nulla resta - se non si vuole incorrere ancora nella dialettica idealistica - quanto meno nella condizione del sentimento o dell’istinto, o della traducibilità in motto; in un buio irriducibile. E poiché posso sospettare che nemmeno il suicidio mi doni il nulla, resta da osservare quel sentire, o sentimento, per quello che se ne può cogliere con riferimento almeno al nostro tempo e meglio alla nostra contemporaneità. E io qui non trovo termine più generale ma indicativo della parola “morale”. Ovvero se non esiste il nulla allora esiste una sfera tematica generale che definiremo “morale”. 
È un po’ questa - credo - la via esistenzialistica che mi sembra più di un filosofo o pensatore a noi coevo si trova o si è trovato a percorrere, e aggiungo subito senza nulla voler togliere all’esistenzialismo: malgrè lui, cioè senza volerlo, senza aver prima determinato itinerario o percorso.

venerdì 17 maggio 2013

Media Communication (or Modernity, Relativism, Distance)





«Media Communication» is an hendiadys; but for today we live it in a certain manner. It simply signifies: no communication (i.e. … happens, … is possible) without a medium, and also: «the medium is the message», as McLuhan wrote («It was not until the advent of the telegraph that messages could travel faster than a messenger. Before this, roads and the written word were closely interrelated»[1]). Then in that locution the stress falls on the first word, according to the strength of philosophy of the means, which in general impose themselves.
That meaning can be so divided into two meanings: (1) the communication is daughter of the modern media, which only made possible and developed the idea itself of communication («Before the electric speed and total field - McLuhan says -, it was not obvious that the medium is the message»[2]); and/or (2) ab antiquo every notice, every information (in the nature, in the society), every movement, was due to a medium.
According to that second meaning (writing perhaps - and I say: psychologically - anticipates facebook, even if different times are no comparable), media communication (like memory) would not belong to our age but concerns every age and every medium in order to any possible knowledge of «how it happens» or «how we have to do to obtain …», or any technical notion and information.

giovedì 16 maggio 2013

Vocazione liberale di internet?





È insito nella parola liberalismo il rischio che alla libertà possa o debba essere dato toccare, prima o poi, la sua stessa radice. O anche: vi è una componente radicale nel liberalismo, per cui questa o quella idea di libertà è tale da chiedere, per non sconvolgere il mondo, un faticoso riconoscimento.
E tanto questo è vero da sempre, dai Grozio ai Gobetti, per essere libertà un termine per così dire “apripista” - che apre spazi, nei termini crociani di libertà e necessità assieme -, quanto merita considerazione il fatto che in piena èra elettrica-ed-elettronica si leggono in tema di diritto di accesso a internet espressioni del tipo: «nuovo liberalismo, inteso come fermento lievitante di una civiltà liberale promossa dalla rivoluzione tecnologica»[1], oppure: «vocazione liberale di internet»[2]; o anche, più sottilmente: «L’interesse a stimolare la libertà di espressione in una società democratica è superiore a qualunque preteso, non dimostrato, beneficio della censura»[3]. Ora dunque è dato al liberalismo rinascere tecnologicamente? E che cosa ne pensano i cosiddetti "liberali" all'italiana? 
L’informatica giuridica e il diritto dell’informatica sono di scena da anni e la “verità internet”, la cosa nuova, come quaestio iuris oggi non è più nuova com’era: essa continua a fare pressing sul diritto positivo scritto costringendolo a disciplinare il fenomeno, alle volte arginandolo ma per lo più oggi non potendo non riconoscerlo. Non si tratta però solo di fenomeni indotti e di condotte (illeciti civili, penali ecc.) che la rete abilita de facto e rende più inafferrabili e impunibili; e invece, scavando nella regola del giuridicamente rilevante, si tratta di domandarsi: quale il rapporto diretto fra internet (o l'internet) e il diritto: oggettivo, soggettivo ecc.?

domenica 28 aprile 2013

Breve storia del bipartitismo "italiano" (questioni di quale laboratorio?)




Se è condivisibile la tesi per cui il bipartitismo perfetto non è mai esistito ed è d’impossibile attuazione, poiché nella loro storia i paesi anglossassoni hanno dovuto accettare come necessaria l’esistenza di un terzo partito minoritario ma chiamato a garantire, attraverso una più ragionevole ripartizione del consenso, gli equilibri finali nei rapporti di forza, allora si può anche parlare di un bipartitismo italiano, o all’italiana, che oggi è in crisi; fenomeno che dovrebbe suscitare curiosità e senso di approfondimento, per non dire malinconia.
È singolare, innanzi tutto, che per aversi tale bipartitismo servisse la crisi del sistema dei partiti classici, una ondata di scandali, con la nascita di nuovi partiti che non sarebbero stati più tali ma piuttosto superpartiti; l'occaso della libera articolazione del pensiero, qualcosa come travestimenti; e se non sarebbe servita subito una legge elettorale ad hoc (ma col tempo essa si sarebbe resa necessaria, in senso organico, quale ulteriore garanzia conservativa), servivano certi movimenti finanziari mirati, nuovi flussi di legittimazione per forme rozze di autoritarismo e un nuovo leader, uno che quanto meno desse il “là”. Al che si è indotti a ritenere che tale bipartitismo dovesse essere come una immagine ritagliata, procurata, un mito e cioè una fiaba; una solida finzione.

martedì 23 aprile 2013

La follia dei Cristiani (testimonianze dei primi nemici)




Cercare di capire il cristianesimo delle origini attraverso i testi dell’anticristianesimo di allora (siamo nei secoli che vanno dal I al V) è un utile esercizio del pensiero. 
Negli scritti di autori quali Celso e Porfirio, Epitteto e Marc’Aurelio, Galeno di Pergamo e Luciano di Samosata (merita ricordare al riguardo la silloge curata nel 1992 da Fabio Ruggiero) ciò che emerge è la follia dei cristiani: la loro insensatezza (aponòia), la loro amentia (il termine origina da Cicerone: Cat. II, 25), la alogìa (Epitteto), l'essere fra il disgraziato e l'imbecille (Luciano usa il termine greco kakodaìmon), l’antifilosoficità, la pratica della magia (Svetonio), il fanatismo, una ridicola credulità puerile, l’assenza totale della paura di morire, l’imbattibile vocazione - e provocazione - al martirio; in poche parole tanto la dabbenaggine quanto il fanatismo, quanto la irrazionalità, quanto la rozzezza. 
il filosofo Celso
Quegli scrittori, di cui spesso s’ignorano persino i nomi, si posero a baluardo della cultura antica. Era il loro un buon polemismo, nel quale si possono ravvisare umanismo e voltairismo ante litteram; ma quella era solo la cultura raffinata dei Gentili e ad essi non restò che rappresentare un mondo sul quale già era calata la nostalgia: se scrivevano, era perché la storia aveva già deciso. 

domenica 14 aprile 2013

Costituzione formale e diritti fondamentali




La nostra Costituzione formale assicura la tutela dei diritti e libertà fondamentali dell’uomo ma poi non dice esattamente quali siano quei diritti, e meglio: non li elenca; ma poiché non può non renderli riconoscibili è rimesso alla giurisprudenza e alla dottrina, in accordo con la evoluzione delle cose, parlare per conto del testo costituzionale, stabilire cioè valori con riferimento ad esso.
Checché ne dicano certi paladini della costituzione materiale, la costituzione formale ha già in sé necessariamente un principio di materialità, altrimenti non sarebbe tale - perché essa non è un sistema chiuso ed è in fieri, non soltanto quale dover-essere giuridico, non solo quale valore d’interpretazione, non solo perché a giurisprudenza e dottrina è dato svilupparne il senso e i contenuti; ma perché essa non tradirà mai interagendo con essa quella società e/o civiltà rispetto alla quale essa sarà come una struttura logica e letteraria aperta (diritti e doveri).
La nostra costituzione formale dedica ai principi (che in essa - si fa spesso notare - non sono preambolo, dunque non sono testo a sé) i 12 articoli iniziali.
La dottrina insegna poi che quattro o poco più sono i principi fondamentali e cioè informatori dell’intero testo: l'egualitario, il personalista, il lavorista, il pluralista, l’internazionalista, ecc… I quali tutti possono essere se non assorbiti certo ricondotti a quello personalista: rispetto e dignità della persona, in primis, ora dedicandole un reddito e un lavoro, poi la salute, poi un processo equo, poi libertà di manifestazione del pensiero e religiosa, ecc. E qui entriamo appunto nella zona di competenza della interpretazione; qui ci s’interroga sui diritti fondamentali.