L’equivalenza alla
fine c’è ed è la seguente: l’antiStato è come lo Stato o quanto meno esso mira
a indossarne gli abiti, assumerne il look; fa di tutto per somigliare a quello e anzi per compenetrarvisi ed esserlo,
certo a modo suo. O forse anche, osserverebbe un maligno, se l'antiStato è indistinguibile dallo Stato allora la differenza alla fine conta poco. Mi fa pensare a queste cose, non proprio di passaggio, un libro
interessante (Legalità costituzionale e
razionalità legislativa, Napoli 2009), che metterei fra quelli che sanno penetrare e percorrere la realtà, ragionando sui particolari, autonomamente dalla teoria letteraria che governa i testi a stampa.
interventi di libero pensiero su temi storici, filosofici e di attualità
martedì 29 ottobre 2013
domenica 20 ottobre 2013
Uno "sporco gioco", ovvero certi attacchi al pensiero cattolico
Se accusare di
marxismo e meglio di comunismo tutto ciò che sfavorisca il proprio arbitrio e
ostacoli i propri interessi è vituperabile, volgere quell’accusa contro la
parte migliore del pensiero cattolico laddove questo parli della persona e del
sociale (e anche dell'amore) è uno sporco gioco. Significa lavorare per deturpare e il volto stesso
del cattolicesimo come cultura e della cultura nazionale, per ferire l'uomo, giustificando con il pretesto della
fede “personale nonostante il mondo” modi di vita lasciati a sé stessi, rapporti di forza selvaggi, oscurità morale e intellettiva.
Come nascondersi oggi
il nesso fra distribuzione della ricchezza e nobiltà della mente, o fra vita
civile di un popolo e sana elaborazione di pensiero? Ci vuole un po’ più di
capacità a stabilire legami, senza erigere castella
a difesa dell’ignoranza e dell’oscurantismo. Dunque è evidente come sia
delittuoso sacrificare il patrimonio culturale, scientifico e di pensiero di un paese a rozzi
interessi materiali e/o a uno sgangherato principio di piacere.
domenica 13 ottobre 2013
Fra misticismo e capitalismo (a proposito di un fiume sotterraneo)
Siamo abituati a
immaginare l’uomo da una parte e la scienza e tecnica dall’altra, come se la
verità si fermasse alla contrapposizione, prima ancora che ad essa sia dato il tempo di disporsi su una scacchiera.
Mentre è anche che -
e lo spunto mi viene da certa filosofia mistica d’ispirazione
cattolica, per la quale la cosa è da condannare teoricamente/moralmente - scienza e
tecnica pur nella contrapposizione sono l’unica chance che l’uomo ha o sente di avere a disposizione per "insidiare" la
potenza divina. Ma qui l’uomo non deve osare, secondo quella filosofia, e
dunque l'antitesi più che ancestrale fra ciò che è come è in natura (fùsei) e ciò che è tecnico risulterà
sempre decisiva.
domenica 6 ottobre 2013
Eutanasia, questione ENORME
Il medico e filosofo inglese Francis Bacon - siamo agli inizi del seicento - riteneva altamente desiderabile che i medici imparassero «l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità»; insomma il medico nella sua qualità avrebbe dovuto aiutare non solo a sanare ma anche a morire, in caso di insanabilità.
Francis Bacon |
La eutanasia è una
questione importante, credo quanto lo è l'esistenza stessa, o quanto lo sono le
condizioni materiali di vita, soprattutto se precarie. Ed è una di quelle grandi questioni che sono
state trascurate dal pensiero; laddove per contrasto con l’intelletto medio e
ordinario è ancora una volta un medico-filosofo ad avere qualcosa da insegnarci.
domenica 29 settembre 2013
I diritti del tiranno (giochi e volti della politica)
Chiunque ha diritto ad avere i suoi diritti. Dunque alla fine anche il criminale ha diritto a essere rappresentato in parlamento: ecco un’affermazione resa dall’avvocato di un celebre primo ministro, che certo è da approfondire, perché si viene a dire così che il criminale può essere eletto democraticamente.
Abbiamo allora diritti o non piuttosto eccessi di libertà sino alla irrisione della legge, spacciati per democrazia, secondo la descrizione fornita da Platone (Rep., VIII. 106)? Già: è che si tratta di chiunque, giacché questo è radicato nell'animo.
Creonte, re di Tebe |
sabato 28 settembre 2013
Una costituzione moderna eppure "posmoderna"? (La spiegabile insofferenza dei costituzionalisti seri)
Il professor Paolo Grossi, storico del diritto, attualmente membro della Corte costituzionale, in una
lezione dottorale del giugno 2013, inquadrava la nostra Carta fondamentale del
1948 nella cosiddetta età “postmoderna” (o “pos-moderna”, come egli preferisce
dire). Laddove l’idea critica che scorre sotto il postulato è l’astratto
individualismo delle costituzioni borghesi. Ma si tratta di una esatta cornice o non piuttosto di un contesto?
Ciò per cui l'insigne giurista viene a parlare di postmoderno è la fine della modernità quale individualismo delle
carte dei diritti, quelle americane e francesi del settecento per intenderci, e il fatto, in
ciò, che mai, come durante l’epoca di cui da tempo si celebra la fine, «si è
avuta una separazione tanto netta e una distanza tanto estesa tra Stato e
società. La società era concepita come il regno della irrilevanza giuridica
nella sua ripugnante magmaticità fattuale, una sorta di basamento amorfo
sepolto ben al di sotto dell’apparato statuale e ad esso estraneo nella sua
imprescindibile materialità; una materialità socio-economica che, agli occhi del
giurista moderno, non aveva qualità differenti da una struttura
geografico-fisica o geologica» (La
costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno,
in Riv. trim. dir. pubblico, n.
3/2013, p. 609).
domenica 15 settembre 2013
Le "bonnes mœurs" (ovvero se la morale popolare sia elevabile a criterio della giuridicità)
Le bonnes
mœurs «sont les habitudes,
les usages conformes à la moralité, à la religion et
à la culture d'un pays ou d'un peuple.
Elles
constituent un ensemble de normes, le plus souvent coutumières, en partie formulées dans les traités de civilité et
dans les règles de droit civil et pénal. Elles varient selon les peuples et
les époques, et constituent l'un des objets d'étude de l'ethnologie et
de la sociologie comparative historique».
Definizione complessa, non v’è dubbio, questa che mi è dato trarre da Wikipedia; e così dev’essere, perché ogni ordinamento giuridico avrà le sue lacune fino a quando vi sarà qualcosa nella morale che il diritto non riuscirà mai a prendere, così come accade all'evento che esso sia irriducibile a fattispecie.
La questione è tale per cui se essa è morale allora è giuridica.
Come tale essa fu posta nel code civil napoleonico, nel suo clima formativo, laddove si trattava di salvaguardare congiuntamente, secondo la Présentation di Portalis (cfr. G. Terlizzi, Il contratto immorale tra regole giuridiche e regole sociali, Napoli 2012, p. 19), morale e legislazione. E bisognerebbe capire bene dove si giunga con quel “congiuntamente”.
La questione è tale per cui se essa è morale allora è giuridica.
Come tale essa fu posta nel code civil napoleonico, nel suo clima formativo, laddove si trattava di salvaguardare congiuntamente, secondo la Présentation di Portalis (cfr. G. Terlizzi, Il contratto immorale tra regole giuridiche e regole sociali, Napoli 2012, p. 19), morale e legislazione. E bisognerebbe capire bene dove si giunga con quel “congiuntamente”.
mercoledì 11 settembre 2013
Conservatorismo e liberalismo
L’irlandese Edmund
Burke, nella sua invettiva ragionata contro la rivoluzione francese (Reflections on the Revolution in France),
lasciò intendere (dicendo di ispirarsi al modello anglosassone) che si sarebbero potute
avere libertà e democrazia senza l’azione di quei soggetti, popolari e borghesi (era l’orribil
giacobinismo) per i quali soli pur esse avevano invece un senso; ovvero senza oligarchie e
violenza; e che forse quella rivoluzione non sarebbe stata poi così necessaria.
Edmund Burke |
sabato 7 settembre 2013
L’èra “dell’occhio” (nascita del mondo tipografico)
Poi, invece, con la nascita dell’uomo tipografico si
sarebbe avuto il “passaggio di una società da moduli audio-tattili a valori
visivi”[2];
ovvero, più in generale: il carattere tipografico “assicurò la supremazia della
propensione visuale e infine suggellò la fine dell’uomo tribale”[3].
Parlando dell’origine dell’età gutenberghiana, la
mediologia insiste su due aspetti: la forte crescita delle esperienze visuali -
la “intensa vita visiva stimolata e favorita dalla scrittura”[4] - e
la fine dell’uomo tribale. Come, parlando del medioevo, essa focalizza
l’attenzione sull’udito, e altrove sul dominio delle esperienze audio-tattili,
così, parlando dell’uomo tipografico, essa teorizza l’avvento di un’èra visiva.
Chi è allora l’uomo di Gutenberg, secondo chi ne ha
teorizzato l’esistenza specifica perché ne ha intuito il declino, o il compimento?
È l’uomo che viene sottratto al mondo delle suggestioni dell’orecchio - della
parola subito pubblica, tribale, sociale; della magia della parola e dei suoni;
del verbum e della recitazione dal vivo - ed è tradotto in quello della
vista (più freddo, neutrale, silenzioso...), nel quale la parola si fa mentale,
privata, quanto riproducibile visivamente, all’infinito.
Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, nella
lezione luhaniana, l’occhio si è potenziato, si è separato nel suo esercizio
dagli altri organi di senso, assumendo una supremazia, semplificando la
complessità dei sensi, dissolvendo “l’intreccio tra le diverse proprietà di
tutti i sensi” [5]; proiettandosi e moltiplicandosi nei caratteri di stampa e venendo a incidere così sul corso storico delle cose.
venerdì 6 settembre 2013
Lo Stato del conflitto perpetuo tra i poteri dello Stato (cenni sull'anticostituzionalismo politico)
Il conflitto di attribuzioni fra i poteri
dello Stato - ad esempio fra esecutivo e giudiziario, fra legislativo e
giudiziario, fra lo Stato e certe sue riconosciute, volute articolazioni
territoriali che però ambiscano a una certa quale autonomia legislativa - forse
è un modo elegante, colto, per esprimere qualcosa che appartiene alla natura
dell’uomo: è una realtà ineludibile, che fa parte non solo dell’ordine
giuridico - e per meglio dire giuridico-costituzionale - evoluto ma anche
dell’ordine sociale naturale delle cose. Che in qualche modo le tiene
legate, in un modo anche - bisogna riconoscerlo - non tranquillizzante.
È la
storia che lo dice, e più precisamente la storia costituzionale, la quale lo è realiter
dei rapporti di forza fra poteri, o stati, o territori, o classi: il re unitamente
al suo Consiglio contro il Senato, i parlamenti o le assemblee legislative rivoluzionarie contro i re, per dire però
anche, in un modo più oggettivo e guardando alla economia e al sociale, i
borghesi contro i nobili, o contro il clero; il clero povero contro quello
ricco; il proletariato contro la borghesia. Ed è in generale nel contesto di
tali conflitti, per quanto provato da quel compendio storico che è la storia
della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica ma non solo, che le
costituzioni s’impongono, quali patti
(e comunque condizioni scritte, dettate) intervenuti tra quelle forze o poteri
(se vi sono stati patti, allora sempre potranno esservi conflitti). O quali
strumenti adoperati da alcuni contro gli altri.
Diritto … “esistenziale”?
Che in questi ultimi
anni ci si sia discostati vieppiù, in tema di responsabilità civile, dallo
schema strettamente patrimonialistico (il danno inteso solo
come danno “patrimoniale”; il guadagno come “parametro del danno alla persona”:
Gentile, 1962) e parimenti dal nesso fra danno non patrimoniale e lesione
penale - ex art. 2059 c.c. -, è provato dal fatto che s’incontrano oggi, nello
spazio argomentativo e linguistico del giurista, espressioni quali “abitudini
di vita”, “vita di relazione” (distinta addirittura da taluno dalla dimensione
strettamente esistenziale), “libera e piena esplicazione delle attività
realizzatrici della persona umana”, “progetto di vita”, “colloquialità con le
persone e con le cose”; laddove ricorrono le parole vita e persona.
Negli ultimi tempi il
diritto - e segnatamente i contenuti della giurisprudenza - si è accostato alla psicologia e alle scienze medica e chimica (si pensi al mobbing, alle fattispecie di
inquinamento, alla salubrità ma non solo dell’ambiente di lavoro e, appunto, in
generale a problematiche del danno sempre più inerenti alla persona); ma fra
gli aspetti innovativi della cosa è e non è questo ciò che qui voglio qui
evidenziare. Nelle nuove tipologie di danno non patrimoniale, che mettono a
dura prova la tenuta del sistema aquiliano classico, vanno ricompresi valori
inerenti alle disposizioni costituzionali - nel nostro caso l’art. 2 (“La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità […]”) e
anche l’art. 32 comma 1 (“La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività […]”,
attenti al principio personalistico) - alla norma civilistica, alla regola
morale che sottintende, in parte la occupa e/o corregge quella giuridica, al
comune modo di sentire, ed è in questo contesto che si è considerato in positivo il contributo giuridico
delle suddette scienze. Ma a mio giudizio in questi aspetti, pur sempre
necessariamente compresenti in sede di giudizio, ora non può più dirsi risolta
l’essenza della questione.
mercoledì 4 settembre 2013
Gente "del Sud"
L’anarchico Passannante, origine lucana, povero, che di mestiere
a quel tempo faceva il cuoco, attentò appena ventinovenne - correva l’anno 1878
- alla incolumità del nuovo re d’Italia, Umberto I; a Napoli, aggredendo la
carrozza su cui viaggiava il sovrano, con un coltello che forse era buono più
per sbucciare le mele che per infliggere ferite mortali; ferendo in compenso il
ministro Cairoli, venuto in soccorso del suo re.
martedì 3 settembre 2013
Della personalità "criminale"
Leggevo, tempo fa, un breve
contributo - a cura dei Quaderni della rassegna dell’ordine degli avvocati di
Napoli - sulla personalità criminale.
Il mio approccio alla lettura e
alla questione era determinato da una forte curiosità e meglio da una curiosità
“di sempre”: capire una volta per tutte se detta “personalità” è l’eccezione
che conferma la regola o non piuttosto un che di naturale; se essa fa parte
dell’errore o se essa è umana come lo sono il parlare, l’avere due orecchie e
un naso, il nutrirsi, ecc. Perché la personalità in tal senso non è certo
compiuta, rotonda, evidente; essa vieppiù è qualcosa che sorprende, ché si
annida nell’essere umano determinandolo in certi momenti o condizioni, che poi,
non senza rendere onore al positivismo, si possano dire specifici. E questo
per non chiedermi, ma essendo comunque la cosa per così dire velata, che cosa
pensa il criminale di sé stesso, prima ancora che della sua condotta. Egli
sente di agire per il bene o per il male?
La mia curiosità peraltro è
andata in parte delusa, in assenza di risposte esatte o definitive alla
questione; ma ne è venuta comunque una esperienza di lettura stimolante, per
certi spunti di riflessione che ne sono emersi.
venerdì 23 agosto 2013
Louis e Guillotin: aspetti della giustizia penale
Agli
inizi - non so quanto ... simpaticamente - il popolo l’aveva battezzata Louisette,
o Petite-Louise, dal nome di Antoine Louis, segretario perpetuo
dell’Accademia francese di Medicina; il quale - come chiunque fosse valso ad
immortalare uno strumento di morte - mostrò subito di “non gradire”. Essa sarebbe anche stata battezzata glaive de la liberté, hasche populaire; ma il suo
nome definitivo, per volere della stampa dell’epoca, sarebbe stato Guillotine,
un po’ per vendetta nei confronti di Joseph-Ignace Guillotin, deputato
dell’Assemblea nazionale e uomo - si dice - dal brutto carattere; un po’ a
causa della rima con machine, che avrebbe consentito la composizione di
epigrammi e canti popolari.
Ma - mi domando - era solo questione di rima? Qualora si possa in qualche modo supporre, o addirittura dimostrare, che la storia politica e giuridica si è potuta mescolare - non senza una qualche singolarità nonché retorica - con la storia delle macchine?; la cui ideazione possa sempre aiutare a comprendere lo spirito di un’epoca?
Ma - mi domando - era solo questione di rima? Qualora si possa in qualche modo supporre, o addirittura dimostrare, che la storia politica e giuridica si è potuta mescolare - non senza una qualche singolarità nonché retorica - con la storia delle macchine?; la cui ideazione possa sempre aiutare a comprendere lo spirito di un’epoca?
giovedì 22 agosto 2013
Il diritto e il male (corruzione, economia e altro)
E anche: razionalizzare la letteratura sul male, o del male? Per ciò: che le immagini possono essere di comodo e che cinema e letteratura usano trasfigurare la sostanza? Certo, anche questo proposito ha la sua arduità.
Il tema, per il fatto stesso di scriverne o di parlarne, torna sempre ad essere per me quello dell'eterno rapporto fra diritto e morale, potendosi ritenere il diritto oggettivo, o positivo - quando esso non sia discutibilmente lo strumento ideale per ottenere l'obbedienza al precetto religioso -, una traduzione di contenuti morali in altra forma, che consiste in regole oggettive, delle quali è chiesta ex auctoritate la generale osservanza.
Vi era tempo fa e vi è tuttora un confronto, che m’incuriosiva - e m'incuriosisce - tra gli asserti di due filosofi importanti quali san Tommaso e sant’Agostino. L’uno sosteneva - nel de veritate - che qualunque atto avvenga, esso avviene nella «presunzione […] che ciò che compiamo sia sempre quacumque ratione un bene» e cioè: «Il male, in quanto male non può essere lo scopo di un’azione umana, qualunque essa sia. Nel momento che la deliberiamo, la consideriamo, in quella particolare circostanza, un bene». L’altro scriveva grosso modo - nel de civitate Dei - che solo ogni opera di Dio è buona, che solo Dio è la vera fonte del bene.
sabato 17 agosto 2013
Il teorema del giudice che può sbagliare ... sempre (S.B. - ma non solo lui - e il potere giudiziario)
Che un giudice in quanto giudice sia
sempre reprensibile, al cospetto di una ipotetica giustizia divina, o che
egli come uomo abbia le sue debolezze, sono elementi del senso comune che
dicono della plausibilità così in modo estremo delle ordalie, come in genere del sentimento religioso, o della morale personale. E
se dicono anche della ineludibilità del male, non per questo è vero che qualsiasi soluzione è migliore della ingiustizia.
Per quanto attiene al munus giudiziale, siamo nel campo della norma, che va applicata; per il resto siamo nel campo della psicologia; che è fragile, è coltivazione della insicurezza e della cecità e si presta a usi strumentali, sia nella vita quotidiana, sia nei delitti, sia nella politica intesa come arte della conquista e conservazione del potere. E certo effetto sembra moltiplicarsi in epoca mediatica, ché i media si prestano alle facili influenze sull’opinione e alle falsificazioni.
Che peraltro la psicologia sia oggetto della osservazione scientifica, ciò significa che lo è qualsiasi motivazione interiore, di qualsiasi condotta soggettiva, sino quella criminale; e se le azioni più singolari sono psicologia, allora la ragione, la conoscenza e l’onesto volere - ciò che serve per sconfiggere il male - stanno da un’altra parte.
Per nostra esperienza da qualche tempo sembra emergere da certa psicologia popolare e non, nelle sue valenze politiche e propagandistiche, una sorta di teorema: che se un giudice può anche sbagliare, allora egli può sbagliare sempre; che ciò che potrebbe anche avvenire è come se potesse (ma dovesse quasi) avvenire sempre. Laddove l’inganno retorico e la confusione risultano subito evidenti.
Per quanto attiene al munus giudiziale, siamo nel campo della norma, che va applicata; per il resto siamo nel campo della psicologia; che è fragile, è coltivazione della insicurezza e della cecità e si presta a usi strumentali, sia nella vita quotidiana, sia nei delitti, sia nella politica intesa come arte della conquista e conservazione del potere. E certo effetto sembra moltiplicarsi in epoca mediatica, ché i media si prestano alle facili influenze sull’opinione e alle falsificazioni.
Che peraltro la psicologia sia oggetto della osservazione scientifica, ciò significa che lo è qualsiasi motivazione interiore, di qualsiasi condotta soggettiva, sino quella criminale; e se le azioni più singolari sono psicologia, allora la ragione, la conoscenza e l’onesto volere - ciò che serve per sconfiggere il male - stanno da un’altra parte.
Per nostra esperienza da qualche tempo sembra emergere da certa psicologia popolare e non, nelle sue valenze politiche e propagandistiche, una sorta di teorema: che se un giudice può anche sbagliare, allora egli può sbagliare sempre; che ciò che potrebbe anche avvenire è come se potesse (ma dovesse quasi) avvenire sempre. Laddove l’inganno retorico e la confusione risultano subito evidenti.
lunedì 12 agosto 2013
Eutanasia politica, eutanasia “negoziale”
Il
nazional-socialismo, come ostentava il suo paganesimo, così ammetteva,
facendone un principio - ma questo non era parte delle ostentazioni -, che i vecchi, gl’invalidi, i malati in fase terminale e i criminali, che fossero ritenuti “di peso” alla società, potessero essere
caricati su furgoni, trasportati in luoghi ignoti e lì uccisi e cremati - salvo
poi darne notizia, ma come di una improvvisa inattesa morte, ai congiunti,
mettendo a loro disposizione le ceneri del defunto.
Così,
prima dei campi di sterminio, e spiegandone in parte il senso, fra il 1940 ed
il 1941 furono eliminate in Germania più di settantamila persone e si dice che
Hitler, di fronte alle crescenti proteste dei cittadini tedeschi, presso i
quali le notizie erano trapelate, avrebbe ordinato di sospendere quella pratica
atroce; ma avrebbe ordinato di farlo - appunto - solo apparentemente.
domenica 4 agosto 2013
Il suicidio e la ... prigione (da alcuni miei colloqui con Armando Rigobello)
Gli dèi sono immortali, nel senso - anche - che essi
tutto possono fuorché volere la propria morte.
Ciò è quanto si trae, a illustrazione della cultura pagana, dalla naturalis historia di Plinio il Vecchio - opera sua o quanto meno da lui iniziata. E qui si profila subito il corollario, paradossale forse: dunque se gli dèi sono immortali, allora essi non sono 'liberi', non lo sono pienamente. Ovvero, per parodiare Sartre, gli dèi non sarebbero condannati a essere liberi. Ed è un contributo ulteriore, questo, a un’antica questione filosofica (si pensi al Cicerone del de natura deorum; ma già prima alla tesi degli intermundia, di Epicuro): come e dove vivono gli dèi, quale il loro pensiero o animo, per dire: quale la loro natura od origine? E perché mai - qui la domanda risulta opportuna - essi 'invidierebbero' i mortali?...
Ciò è quanto si trae, a illustrazione della cultura pagana, dalla naturalis historia di Plinio il Vecchio - opera sua o quanto meno da lui iniziata. E qui si profila subito il corollario, paradossale forse: dunque se gli dèi sono immortali, allora essi non sono 'liberi', non lo sono pienamente. Ovvero, per parodiare Sartre, gli dèi non sarebbero condannati a essere liberi. Ed è un contributo ulteriore, questo, a un’antica questione filosofica (si pensi al Cicerone del de natura deorum; ma già prima alla tesi degli intermundia, di Epicuro): come e dove vivono gli dèi, quale il loro pensiero o animo, per dire: quale la loro natura od origine? E perché mai - qui la domanda risulta opportuna - essi 'invidierebbero' i mortali?...
Sartre diceva esattamente: «l'uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da
se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è
responsabile di tutto ciò che fa». Due passi appena nella logica dunque e si
resta sorpresi dal fatto che creazione e libertà possano divergere nettamente, o quasi, contrapponendosi… Il che fa calare però più di qualche ombra di dubbio sul significato definitivo della seconda parola... Che cosa significa infatti essere «condannato a essere libero»?
La volontà in generale comunque, sino nella sua celebrata onnipotenza o se si
preferisce nella sua verità indiscutibile, appare così un che di successivo,
che sta quasi a identificare nella divinità un limite naturale, o costitutivo: quello di essere quello che è.
Inoltre: non potendo gli dèi rinunciare ad essere, essi non dovrebbero
parimenti, potendolo fare (?), "sciogliere" la vita umana. Resta però il fatto che
essi non hanno quella potenza o che cosa del volere o decidere che sembra invece insita nella natura dell’uomo, se questi
si suicida, come fece esemplarmente Anneo Seneca, nel segno della cultura del suo tempo e di una "libertà" estrema.
Lucio Anneo Seneca |
In che senso allora, a voler muovere il passo successivo, si può ritenere che gli dèi possano solo non
volere la morte dell’uomo, segnatamente se procurata? Essi infatti - e ciò è
nella evidenza - se non possono volerla non possono impedirla. Così è per le culture pagane, così sembra non potere non essere per qualsiasi ordinamento giuridico ancor prima che per ogni ordine morale. Mentre
su questo punto la cultura cristiana si mostra intransigente e chiara e considera il
suicidio sempre negativamente o, per dirla con Blumenberg, come un’onta.
domenica 28 luglio 2013
L’intelligenza di Proculeio: come salvare la politica dalla politica?
Che cosa ci tramanda fra le altre
cose il mito, rielaborato filosoficamente? Che ad esempio, per rifarci
alle origini della storia politica romana, «Romolo, colpito dal fulmine o massacrato dai senatori,
scompare di fra i Romani. Il popolo e i soldati mormorano. Le gerarchie dello
Stato si sollevano le une contro le altre e Roma nascente, divisa all'interno e
circondata di nemici all'esterno, è sull'orlo del precipizio quando s'avanza un
certo Proculeio e con gravità dice: “Romani, il principe che voi piangete non è
affatto morto: è asceso al cielo, dove siede alla destra di Giove [...]"». Ovvero: «Romulus frappé de la foudre ou massacré par les Sénateurs; disparoit
d'entre les Romains. Le Peuple & le Soldat en murmurent. Les Ordres de
l'Etat a se soulévent les uns contre les autres, & Rome naissante,
divisée au dedans & environnée d'ennemis au dehors, étoit au bord du
précipice. Lorsqu'un certain Proculeius s'avance gravement & dit: "Romains, ce Prince que vous regrettez n'est point mort; il est monté aux
Cieux, où il est assis à la droite de Jupiter"» (D. Diderot, Pensées, XLIX).
In altre parole: l’illuminismo
ciò che insegna o quanto meno tramanda a sua volta è che «esistono delle congiunture
favorevoli all'impostura» e «se si esamina qual era allora la situazione di
Roma si converrà che Proculeio era una persona assai intelligente e che aveva
saputo afferrare l'occasione. Egli introdusse negli animi un pregiudizio che
non fu inutile alla futura grandezza della sua Patria» (ivi). E in questo esso
tramanda che la devozione è il primo prodotto di uno Stato.
domenica 21 luglio 2013
Per una reinterpretazione in senso democratico della costituzione “materiale”
Spesso i suoi fautori pensano la costituzione materiale in
contrapposizione alla costituzione formale. Spesso emerge dalle loro posizioni realistiche l’antilluminismo dei
romantici dell’ottocento, certo corroso e ridicolizzato dal tempo storico e sempre
alla ricerca di teorizzazioni d’occasione.
Ma è bene chiarire subito un concetto: non si dà oggi e
non da oggi moderno Stato senza costituzione, e alludo alla costituzione
formale, ovvero a un testo composto di disposizioni scritte, inserito in modo gerarchicamente
autorevole nel cosiddetto “diritto positivo”. E se questo è ammissibile, e
taluno cita imprudentemente Aristotele e la sua politeìa, allora la costituzione materiale può essere pensata in
più modi: in uno regressivo, ante rivoluzione francese e in uno progressivo,
come accade da ultimo in un limpido intervento del prof. Bettinelli sulla
questione della democrazia diretta, segnatamente dell’istituto referendario. Il
quale autore parlando di “arricchimento istituzionale”, constata negli sviluppi
della nostra storia popolar-costituzionale una “riesumazione” e di lì un ricorso
crescente a questo istituto, segnatamente nella sua tipologia abrogativa, su
temi importanti per i nostri costume e morale nazionale. E ciò sarebbe
avvenuto ed è avvenuto dagli anni settanta in poi, dopo che - va sottolineato -
quell’istituto era uscito ridimensionato dai lavori della Costituente (e anche oggi accade che le istituzioni tentino di porre un freno all'istituto). E all’aspetto
formale aggiungerei necessariamente quello sostanziale, relativo cioè al
contenuto o tenore normativo, che deve valere a spiegare anche quello formale,
in base a un principio d’inseparabilità.
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