venerdì 19 luglio 2013

Il caso Microsoft del 2001 (a proposito anche della fiaba del "libero mercato")




Al di là delle condotte giudicabili come anticoncorrenziali poste in essere dalla famosa casa di Redmond nella commercializzazione di un suo browser e al di qua dell’indole stessa della giurisprudenza, chiamata sempre a specchiarsi in fatti, persone e cose, il caso U.S. v. Microsoft - la più imponente vicenda antitrust del nostro tempo, celebrata nel pieno spirito del Common Law - è valso a riunire due profili problematici in uno: la tendenza naturalmente monopolistica insita nel mercato classico - quello per così dire delle merci “esteriori” - e la tendenza “naturalmente” monopolistica insita nel mercato del software e dello hardware - ma soprattutto nel primo -, contraddistinto da merci cosiddette “pensanti”. 
Il “caso Microsoft” in questo è valso a rafforzare, forse a suggellare, il dubium filosofico, morale e politico sulla pretesa identificazione di libertà e libertà nei commerci: non è che i teorici del libero mercato siano poco credibili in epoca di debolezza della domanda (ad es. Krugman); ma è che essi lo sono o dovrebbero esserlo quasi sempre.
Ovvero ora, alla luce di quella vicenda giudiziaria (cui altre ne seguiranno, di analoga sostanza), si può asserire una volta per tutte che la tendenza monopolistica è tutt’altro che contraria a natura, non costituisce una deviazione, e che ciò è comprovato dal commercio dei cosiddetti information goods, e, ancora, che tutto questo accade oggi, nel mercato che s’immedesima con la comunicazione e la rete, in un modo tale per cui il nuovo non può non colludere col vecchio, pur senza confondervisi, anzi: volendosi differenziare da quello.

mercoledì 10 luglio 2013

Giuridicità ac/seu necessità




Non credo sia la libertà la categoria filosofica par excellence. Credo invece che si tratti di una parola (una fra le tante) che non sta in piedi da sola e ha bisogno di nutrirsi del suo contrario, che è la necessità e in qualche modo di dover essere da essa distinta, non con facilità.
E aggiungerei che il gioco deve condurlo quest’ultima; la quale a sua volta, se si osservano le cose con un po’ di attenzione, ha un singolare potere liberatorio di concetti e idee. Ovvero: può spiegare più cose di quanto non faccia la libertà; se non altro a causa del suo richiamo alla realtà.
Personalmente, è da tempo che vado misurando le cose di pensiero sul terreno giuridico,  nel cui campo, se taluno (Perlingieri) ha posto la nitida nozione di (o del) giuridicamente rilevante - e lo ha fatto là dove Mortati aveva incontrato difficoltà argomentative -, Santi Romano, il primo Santi Romano, poneva la necessità quale nocciolo esplicativo del rapporto attorno al quale tutto ruota: quello tra diritto e fatto.
Ovvero: com’è possibile che - dov’è il trucco per cui - in un ordinamento la giuridicità sia già nel fatto (Mortati sembrava quasi terrorizzato dal contrario) e meglio in quel fatto che poi si tramuterà in diritto? Ovvero: è possibile che esistano un fatto non giuridico e un fatto giuridico e a quest’ultimo sia dato poi elevarsi al di sopra dell’altro? Ma essendo ovvero valendo potenzialmente l’uno quanto l’altro?
La spiegazione del Romano credo sia semplice; ma nemmeno tanto consolatoria forse - aggiungerei - se si considera la natura del problema. E considerando quello che i giuristi chiedono forzandone le potenzialità di pensiero speculativo al pensiero giuridico, che è il loro pensiero.
Per il primo Romano il diritto è nella necessità o è necessità, e il nesso logico scatta interpretativamente allorquando se ne ha la consolidazione. Il diritto è il fatto ma stabilizzatosi giuridicamente e cioè resosi giuridicamente necessario. Il diritto si forma laddove i fatti dimostrano che era necessario che esso si formasse.
Ancora: la necessità precede la volontà dello Stato (teoria cosiddetta volontaristica, cara per così dire agli spiritualisti) nonché il pensiero razionale.

lunedì 8 luglio 2013

La divisione "del potere"




Salvare la libertà dei cittadini: questa la motivazione formale ma forse la più profonda di Montesquieu, che dà la misura dello spirito con cui egli pensò la divisione dei poteri - e volutamente io parlo qui di “divisione” (e divisione "del potere", operazione che si rapporta ad una unità o concentrazione), invece che di “separazione”; ovvero: «Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà».
Montesquieu
Ma è vero, come aveva sostenuto Halifax nel seicento, che le idee contano per ciò: che vi sono interessi concreti o poteri costituiti che sostenendole le rendono significative, attribuendo ad esse valore. Nulla dunque, andando alla radice delle cose, può sostituirsi al fatto e alla evoluzione storica dei fatti. Fermo restando che anche una valutazione come quella di Halifax ha un valore formale, o suscettibile di elaborazioni. 

domenica 30 giugno 2013

La Dottrina dello "Spirito" (una scheda - e volti - di altri tempi?)




La Dottrina dello Spirito (dello Spirito oggettivo, dello Spirito assoluto; ma si muove necessariamente da quello soggettivo), rappresentata da Hegel, è una particolare dottrina dello Stato laica che crede in un forte elemento cultural-formativo o in una virtù insita nella classe politica o in quella dirigente, quasi fossero quello che sono per diritto di natura. Ma comunque considerando la politica fatta dagli uomini; in un senso conservativo e nel senso che se lo Spirito era un che di realistico, lo era perché fonte di una fede in (o di certa consuetudine con) un certo tipo di uomini al comando.
G.F.W. Hegel
Sono queste, ancora, con la loro carica antropologica, risultanze schmittiane che posso trarre dal volumetto Democrazia e liberalismo (pp. 119-120). Le quali forse possono sorprendere, se si guarda alla loro concreta semplice lucidità. E il senso di sorpresa è che questo è detto in relazione al fatto che anche Schmitt prende atto di Marx, e cioè: egli non è un perfetto idiota illetterato come qualsiasi persona o popolo che rifiuti Marx, per principio, senza conoscerlo, o magari per meri pruriti sessuali. 
Schmitt invece s’impegna nel ragionamento: quella di Marx non è la critica dello Stato hegeliano (che esso come è stato anche sostenuto, non sia riducibile a Stato prussiano ma a Stato moderno, che sa come fare sue anche le dottrine kantiane, illuministiche, rousseauiane) ma la controdiagnosi, più attuale, che analizza il nuovo Stato-società (e/o dei partiti) che a quello prussiano viene a succedere, sta succedendo, storicamente.

Berkeley e le macchine (già, quale la libertà?)




Il valore del motto esse est percipi, del vescovo irlandese George Berkeley - per cui nulla esiste al di fuori della nostra percezione -, distolto da certa interpretazione ontologista e ancora libresca, lo si nota oggi innanzi tutto nell’ambito della cultura delle macchine e dei sistemi, e cioè nell'èra elettronica o digitale; se si pensa che tale cultura per essere necessariamente collegata alla cultura biologica e a quella psicologica, è anche «cultura della percezione», interfacing, ovvero alla cultura del costituirsi fondante della percezione; se si pensa alla cosiddetta «unità percettiva», nella quale il tema è il rapporto fra un «materiale» ed un «immateriale» ed in ciò fra «reale» e «virtuale», negli sviluppi della tecnica e scienza dell’informazione. Il tutto, ovviamente, ritenendo non proprio paradossalmente l'uomo per buona parte almeno come l'ente più somigliante alle macchine e alla loro natura artificiale. 
File:George Berkeley by John Smibert.jpg
George Berkeley
Perché - mi domando - si è indotti oggi a pensare a Berkeley, ci si volge ancora al suo pensiero, parlando di «cultura della percezione»? 

domenica 23 giugno 2013

Uomini e macchine: la teoria dei servomeccanismi






Mi piace, fra le immagini luhaniane, quella dei servomeccanismi, non so se perché meno enfatizzata rispetto ad altre; ma certo perché vicina alla vita concreta: nessuna dichiarazione di principio, nessuna astratta alienazione; dire quello che accade per dire quello che è. 
Noi, in fondo, che cosa siamo chiamati a fare fondamentalmente oggi se non a controllare che tutto funzioni e dunque a curare gli strumenti e il loro funzionamento? Il che è vero, perché il mondo va così, perché macchine e dispositivi sono molti e la mente nel loro impiego tende ad affinarsi, in una cura ineludibile. Di qui la teoria dei servomeccanismi, entrare nella filosofia vivente delle macchine. 
Ovvero - e credo di riprendere in questo la teoria marxiana dell'operaio organo cosciente dell'automa, ovvero dell'accessorietà del "lavoro vivo" rispetto a quello "oggettivato" - io vedo uomini 'liberi' che nelle loro azioni sono realiter servomeccanismi; vedo persone colte che sono indotte a comportarsi come servomeccanismi; democrazie partecipative costruite nella migliore delle possibilità su elettori liberi di essere... servomeccanismi, ecc. Uomini che umanizzandoli nell'azione e cioè nell'uso si riflettono nei meccanismi che hanno umanizzato e che in questo per sempre più tempo, sempre di più, divengono parte preziosa di ciò che adoperano, laddove la praesumptio inconfessata è che la macchina non possa controllare sé stessa. Ovvero, per un principio di pervasività: il controllo dei meccanismi, ciò che contraddistingue un'epoca di macchine, può essere solo meccanismo di controllo (un mondo peraltro in cui non può sorprendere se la libertà stia nelle funzioni che si condividono col mondo animale). 
Io uso dunque controllo; e anche: io controllo dunque uso, io che controllo alla fine sono controllato, monitorato: intorno a questi motti viene a ruotare un po' tutto, segnatamente ogni pretesa. 

L'elettronica libera la scrittura, dice la dottrina; mai la scrittura era stata forse così "libera". Ma tanto più è emancipata la scrittura, tanto più è liberato nella rete il voto politico o amministrativo o un qualsiasi bisogno o che altro, nella sua possibilità tecnica, tanto più non si può non essere connessi e si usano dispositivi in tal senso, tanto più emerge una forma di alienazione: la realtà del controllo la si ha proprio nell'uso della libertà; ma senza mai dimenticare che la libertà ne è l'oggetto. E qui non v'è filosofia del control panel che tenga: che cosa significa alla fine lasciar fare a dispositivi di controllo ma dovere attivarsi affinché ciò avvenga? Se la teoria è vera, allora non so se ne sia più sconfessata che tradotta la dottrina dell'alienazione. Difficile ritenere che il servomeccanismo sia semplicemente 'servo'. 

sabato 22 giugno 2013

La singolare storia dell'eguaglianza

 


Singolare destino, quello del principio di eguaglianza e per meglio dire di quella metafora o allegoria che si costituisca nella idea di eguaglianza. Eguaglianza sì di fronte alla legge, sì formale, sì economica e sostanziale; ma innanzitutto naturale, o se si preferisce stabilita da Dio.
Non dunque sic et simpliciter quel principio che nato con le dichiarazioni delle rivoluzioni americana e francese si sarebbe perpetuato nel periodo napoleonico giungendo a una formulazione matura nella Costituzione francese del 1848; né l’ideale babuvista, o più in generale comunista; ma qualcosa che vestito giuridicamente animò quei principi e ideali, spingendosi oltre: pane quotidiano di popolo, minoranze e stranieri. Insomma il diritto soggettivo sì ma in prima approssimazione, ma radicato nei primi impulsi, quel certo quale rousseauianismo, per così dire, insito nella stessa giuridicità.

martedì 11 giugno 2013

Della fragilità popolare (e delle fragili argomentazioni spontaneistiche)



Carl Schmitt, in uno degli scritti raccolti in Democrazia e liberalismo, scavava nelle differenze tra referendum e proposta di legge popolare, secondo la Costituzione repubblicana di Weimar. E certo è, come egli teneva a sottolineare, che non si dovesse, non si potesse fare confusione fra i due istituti. 
Ma è interessante il pensiero riguardante l’esercizio del diritto di voto, che secondo Schmitt non è da un  punto di vista democratico un che di diretto, o popolare-partecipativo, perché è individualistico, astratto, ecc. - e se volessimo dire per non scontentare Gierke, che esso è “antiorganicistico”, allora ci troveremo prima o poi a interrogarci sulla esattezza di un siffatto giudizio.
Sarebbe ideologicamente liberale insomma, a quanto mi è dato comprendere - e l’ideologia liberale è in crisi e sembra essere l’oggetto della questione, la quale si sviluppa più per negativum che in altro modo -, ritenere che il diritto di voto sia veramente democratico, ovvero: «L’immediatezza della democrazia non si lascia organizzare senza cessare di essere immediata»[1]. 
Dunque l'ideologia liberale non risponderebbe al vero e se è questa la tesi critica emergente, allora la questione si drammatizza, lasciando trapelare soluzioni politiche peggiorative rispetto ai problemi. 
Certo è più “popolare” (per fonte e modo) il referendum, laddove sia il collettivismo stesso a esprimersi, ovvero il popolo come mònos, o come immediatezza.
Un primo concetto emerge allora con un minimo di chiarezza a questo punto ed è che il voto politico o amministrativo è “democratico” per la ideologia liberal-borghese, non per altri… che sentano le cose diversamente. E se non è così, se le democrazie costituzionaliste del secondo dopoguerra hanno mostrato di non sapersi liberare del modo liberal-borghese di pensare, ciò dovrà fare riflettere (non reagire e basta), anche sulle compatibilità, fra democrazia formale e altro. Dunque il voto è comunque sub iudice. E non per questo - sia beninteso - esso come diritto va disprezzato.
Ma poi emerge anche l’altro aspetto della cosa, e meglio della ricerca di una spontaneità e immediatezza di partecipazione alla res publica: che ridurre il referendum - e la possibilità stessa di un vero immediato intervento del popolo attraverso il referendum - alla semplice acclamatio, o percussio scutorum o che altro (già: il famoso plebiscito) di affine, poiché come a Schmitt piace ripetere al popolo si addice non il domandare ma il rispondere e cioè il dire “sì” o “no”, ciò pone in risalto non una ma due volte l’altro aspetto della fragilità popolare. Laddove è bene intuibile che la spontaneità e la immediatezza - ammirate in un teatro - non sono garanzia di veridicità su certe cose. E qui, mentre sembra risalire la classifica politica l’irrazionalismo (forse nelle sue forme più piccolo-borghesi), che esalta le azioni orgogliose ed eroiche di un popolo, lì appare chiaro che la povertà come la malattia come la incultura sono beni strumentali.
Il che però appunto sembra addirittura rimettere in piedi sulla scacchiera il povero fante liberale, rispetto a Schmitt, proprio perché le critiche del teorico tedesco e il suo lavoro di scavo scambiano la spontaneità del manipolo con la manipolazione della spontaneità e finiscono così per tornare a quelle verità sulle quali si regge il liberalismo borghese. E a ciascuno sia consentito valutare in che senso... 
È anche - credo - che Schmitt se non è scientemente infastidito da ogni forma di giacobinismo - ma anche di pacificazione sociale - ovvero da quel punto focale in cui una classe sociale in nome di una lotta unita accetta la ideologia (universalistica, nel nostro caso) di un’altra classe, fa di tutto per scongiurarlo. E citerei non solo Robespierre o il suo spirito…
Il popolo comunque torna ad essere bene osservato, rispolverando certe radici storiche di certi istituti. Perché allora non trasporre un po’, almeno metodicamente, la faiblesse di cui parlava Montaigne dall’individuo alla massa popolare, al popolo soprattutto colto nel momento di esprimersi su una qualche decisione, di ordine comune, sia pure tendenzialmente prendibile dall’alto?
Tenendo nel debito conto il fatto che il popolo cosiddetto votante è solo un frammento che può appartenere a qualsiasi personalità?


[1] SchmittDemocrazia e liberalismo, trad. it. a cura di M. Alessio, Milano 2001, p. 80. 

venerdì 7 giugno 2013

"Dubia" sul diritto di voto




E se un liberale come me, o quanto di liberale ancora resta in me - io che forse non lo sono mai stato alla perfezione - o che in me risorge periodicamente, eccepisse sul diritto di voto?
O lo facesse un benpensante scandalizzato dal basso livello cultural-politico, morale, intellettivo ecc. degli eletti di oggigiorno? O dal fatto che costoro remino apertamente contro il benessere economico e morale della nazione, e/o dei territori? 
E anche: quale classe sociale oggi accetterebbe l’idea che altra classe la coinvolga ideologicamente, in modo serio ancor prima che emotivo? Certo l’atomismo (l'ognuno chiuso in sé stesso, la disgregazione del tessuto sociale, etico, ecc.) è imperante, quanto lo è l’ignoranza, e questo non va bene; ma credo di avere capito che vi è sempre al di sopra di ogni cosa qualcuno pronto a odiare il giacobinismo, come fu per Hitler; ché il giacobinismo, e cioè l'alleanza fra classi dovuta ai comuni interessi lesi, è trasformativo, in senso democratico. 

La scommessa antioscurantista (nostra e) di P. Häberle: "Diritto fondamentale" come disciplina



Che cosa significa che le norme della nostra Carta costituzionale non sono l’una eguale all’altra, che in essa vi sono cioè dei “principi fondamentali”, definiti anche  “supernorme” (così una sentenza della Cassazione: sez. I civile, n. 6672 del 1998 in tema di efficacia nel nostro ordinamento della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) ovvero che si possa parlare di una “superlegalità costituzionale” (così l’indimenticabile Mortati) o di principi che non sono norme per ciò che questo termine significa negli ordinamenti statuali; o che si sia potuto o voluto distinguere, in occasione dei primi scrutini riguardanti le leggi “anteriori”, da parte della Consulta, in quanto ai parametri, fra norme costituzionali “programmatiche” o “direttive” e norme “precettive”; o ancora che la questione della efficacia-esistenza di una legalità costituzionale sia da tempo di attualità, e che il dubbio sulla sua non scalfibilità - ma appunto bisogna vedere in quali termini e con quanta coscienza - sia stato espresso da parte di giuristi per così dire “non sospetti”?

domenica 2 giugno 2013

L’immunità parlamentare: garanzia o privilegio?



L’immunità parlamentare nasce, secondo certa ricostruzione storica, con il Bill of Rights del 1689 (art. 9), allo scopo di garantire il legislativo dai possibili soprusi del re; soprusi, meglio, dell’esecutivo nel suo complesso, che al re faceva capo. 
File:English Bill of Rights of 1689.jpg
Il "Bill of Rights" del 1689
Ma nella storia ogni cosa può sempre divenire l’opposto di ciò che essa è stata, almeno nel suo primo manifestarsi. Così, in séguito, a re ed esecutivo si sarebbe sostituita la legge penale in quanto legge. E prima la legge penale (: la legge è uguale per tutti) quale prodotto specifico del parlamento (dunque il legislatore messo al riparo dalla legge), che non la magistratura, che a quel prodotto avrebbe dovuto dare applicazione.
Inizialmente dovette prevalere, nella definizione dell’istituto, la sacralità e inviolabilità del luogo, per cui - e l’interpretazione in tal senso si è protratta sino al nostro ottocento - il parlamentare non poteva essere sindacato per i voti o per le opinioni qualora le esprimesse all’interno (intra moenia) delle camere: avrebbe potuto esserlo se li avesse espressi all’esterno (extra moenia); in séguito, sostanzialmente a causa della Rivoluzione francese ma - anche - di quanto di essa gli antirivoluzionari avrebbero conservato, la insindacabilità venne a legarsi alla funzione, quella di rappresentare l’intera nazione; e di qui il criterio, assai dibattuto nella giurisprudenza, del cosiddetto “nesso funzionale”. 

sabato 1 giugno 2013

Diritti universali, catechismo nazionale

 

La Dichiarazione dei diritti del 1789 era troppo astratta rispetto al diritto continentale e meglio europeo - detto ciò lato sensu, a volervi ricomprendere anche la cultura giuridica inglese - per potersi ritenere che ne costituisse la normale evoluzione. 
E questo non per quanto essa potesse derivare - mettiamo - dal contratto sociale di Rousseau (il controverso philosophe del quale Robespierre al cospetto della neonata Assemblea costituente della Rivoluzione francese ebbe subito a dire che con il suo genio aveva “illuminato l’umanità” e “preparato i vostri lavori”) ma perché parlava di diritti “universali”, il che significa: il diritto posto su di un livello diverso, approdato a un grado più elevato di elaborazione, rispetto ai diritti “della terra” e alle antiche “libertà” o ai patti costitutivi di questa o quella nazione, di cui questo o quel popolo potesse chiedere nei momenti “rivoluzionari” il ripristino. La giuridicità, posta in certo modo al di sopra delle teste degli uomini, e cioè il diritto, quasi come un che di trascendentale. 

domenica 26 maggio 2013

Lo Stato dei partiti (Schmitt: una rilettura, oltre le soluzioni autoritarie)



Il guscio d’uovo dello Stato si è rotto e la società, messa la parola fine al dualismo della differenza  Stato-società - ma alludo alla società pluralista e disomogenea - è potuta entrare nello Stato. È da tempo - se vogliamo - che avviene quella «invasione della costruzione statale da parte delle lotte sociali tra interessi» segnalata da Gneist nel suo Die nationale Rechtsidee. Ma forse il problema è di sempre. 
Siamo, per le citazioni, alla prima metà del novecento e lo Stato di cui si viene a parlare è il moderno Stato legislativo, succeduto a quello liberale ottocentesco; ma non solo e ancor prima a quello medievale, basato sul primato della giurisdizione e a quello burocratico e militare, ovvero dell’esecutivo, identificabile con le monarchie cosiddette "assolute". 
A quanto mi è dato comprendere dalla mia personale lettura de Il custode della costituzione, lo Stato legislativo, per un giurista come Schmitt - che aborre lo Stato giurisdizionale e la «prassi americana del controllo giudiziario della legge»[1] - è uno Stato comunque sociale e dunque coinvolto, ché esso non può essere nei fatti ancor prima che nelle intenzioni indifferente a ciò che accade.
Carl Schmitt
Addirittura tale Stato può essere considerato come l’autorganizzazione della società; di modo che sarà difficile alla fine distinguere fra gli interessi statuali e istituzionali e quelli dei gruppi sociali organizzati e/o associati, preferibilmente in forme partitiche; ciascuno avente una sua idea di legalità («pluralismo dei concetti di legalità, che distrugge il rispetto per la costituzione, e trasforma il campo della costituzione in un terreno insicuro e conteso da più lati»)[2]; ciascuno che vorrà entrare nello Stato.

La crisi dello Stato moderno




Agli inizi del secolo scorso, ne Lo Stato moderno e la sua crisi, Santi Romano, teorico indimenticabile del nostro diritto pubblico, sottolineava come stesse crescendo storicamente (ed è il caso di sottolinearlo: nella vecchia Europa) l’onda del fatto di contro al diritto, del sociale lato sensu - in generale si trattava di gruppi che si costituivano al di fuori dello Stato in assetti “corporativi” o sindacali o partitici, attorno a interessi economici; ma, ed è qui l’invito interpretativo, non bisogna mai perdere di vista né le complicità popolari né le spinte fornite dal vitalismo - di contro al giuridico, non solo in quanto statuale. E anche si potrebbe insinuare, a volerci mettere il paradosso, o l’ambivalenza: forse che era crisi di uno Stato che non lo era mai stato abbastanza, di diritto, se si temeva che non lo sarebbe stato più come prima? Crisi di un dover-essere prima ancora che di un essere? Guai, detto altrimenti, se fosse venuto meno qualcosa che si sarebbe potuto rimpiangere, di quello Stato di diritto, in chiave d’idealità.
Si trattava della crisi dello Stato moderno, prima ancora che dello Stato liberale; incrinamento di quella dottrina - e fede, perché non? - che si era venuta formando tra il XVI e XVII secolo, attraverso il pensiero di Machiavelli, Bodin e Hobbes, teoria della certezza e del monopolio dello Stato, quale soggetto (divino) della presunzione morale del diritto.

sabato 25 maggio 2013

Paradosso jeffersoniano

 


«Se fossi chiamato a decidere, se il popolo preferisse essere escluso dal dipartimento legislativo o giudiziario, direi che sarebbe meglio escluderlo dal legislativo. L’applicazione delle leggi è più importante del crearle». Verità sottile e certamente politica, almeno dal punto di vista di chi, come me, crede che Dio solo faccia le vere leggi. 
Thomas Jefferson annotava questo pensiero - e direi di andare oltre la pur significativa idea della giuria popolare - sulla base della fiducia quasi cieca che egli nutriva in due principi di ordine politico e istituzionale: (a) la divisione del potere, per competenza («[…] il modo di avere un buon governo non sta nell’affidarlo a uno solo, ma nel dividerlo tra i molti, distribuendo a ognuno esattamente le funzioni ch’è più adatto a ricoprire»), spinta sino alla «amministrazione della propria fattoria» (posta dunque in chiave di capillare distribuzione social-territoriale) e (b) la partecipazione popolare, diffusa quanto più possibile, alla conduzione del governo («L’influenza sul governo deve essere divisa fra tutto il popolo»; «E ditemi […] se la pace sia meglio tutelata dando energia e forza al governo o notizie e istruzioni al popolo. Quest’ultima è la più sicura e più legittima macchina del governo»), ovvero l’assegnazione al popolo, quale organo, del miglior ruolo costituzionale possibile. Sino appunto a scivolare nel paradosso.
Le parole del celebre e controverso statista americano, essenzialmente quel «L’applicazione delle leggi è più importante del crearle», sono in linea con l’ideologia giuridica dei paesi di Common Law, incline a preferire - non però in un modo assoluto, non cioè tralasciando il valore del cosiddetto Statute Law - il giudice al legislatore; ma in questo dato per così dire pacifico io credo di poter leggere anche una nota in qualche modo sorprendente.

venerdì 24 maggio 2013

Rappresentanza e obbedienza (fra istituzione e naturalezza del comportamento)




Come i parlamenti dell’Europa medievale già prima dei secoli XII e XIII erano chiamati nei fatti all’ufficio del rappresentare, così tale ufficio appare, oggi più che allora, irrinunciabile, soprattutto sotto un profilo formale.
Difficile immaginare, antropologicamente ancor prima che giuridicamente, l’organizzazione politica di una società senza parlamento e cioè senza luogo e/o modo nel quale convenire (e contarsi, e usare il linguaggio, appunto non "parlare" ma "parlamentare") per prendere decisioni che impegnino una intera comunità, o un intero popolo.
Ciò lo si può attribuire a tre ordini di cause: che il consenso popolare in qualsiasi forma è ineludibile, per chiunque abbia il potere, che la rappresentanza politica ha radici tanto sociali quanto istituzionali (il pensiero va alla repubblica ginevrina, per la valorizzazione fattane da Rousseau) e che la funzione legislativa - che si dà spesso come prevalenza del parlamento - non combacia con quella rappresentativa in quanto tale.
Ovvero sarebbe difficile immaginare l’organizzazione politica di una società senza un qualche parlamento se, per assurdo, non vi fosse differenza tra mera partecipazione alla formazione di decisioni o leggi e potestà di decidere o di legiferare. E qui prende vigore per noi la ricostruzione storica.
Del parlamento in senso moderno - avvertiva Antonio Marongiu - non è agevole individuare la vera esatta origine

Rex Judex (giochi etimologici e personalità del potere)



Nel medioevo, secondo la ricostruzione fattane dallo storico Antonio Marongiu in un saggio del lontano 1954, il re ben presto dové dimostrare di essere degno per così dire del suo titolo. Ovvero, per essere re, egli dové difendere e coltivare un suo “onore” (l’onore che, secondo quanto asserisce Montesquieu nel suo Esprit de lois, è principio del governo monarchico, come ciò che lo fa agire). Dové farlo, intuitivamente, perché era la più alta autorità politica esistente sulla Terra, perché quella carica racchiudeva in sé il dono della universalità e perché a essere tirato in ballo era il principio stesso di autorità. E da certe cose non ci si allontana mai: Deus-Zeus, pater, auctoritas
Il motto di Isidoro da Siviglia (Ethimologiarum libri) è abbastanza eloquente al riguardo, anche se il gioco verbale appare sin troppo agevole: Rex eris si recte egeris: “sarai re se avrai agito rettamente”; laddove nel gioco dell’apparenza etimologica (congeniale all’età di mezzo, soprattutto al rinascimento bolognese) si può cogliere il senso di un messaggio e cioè l’assonanza e l’identità di radice fra rex, recte e regere. Come dire: l’attribuzione “morale” era già scolpita nella parola, anzi nel monosillabo; si trattava solo portarla alla luce e di darne testimonianza. 

mercoledì 22 maggio 2013

Ricchezza e peccato (breve commento della lettera enciclica "Caritas in veritate")




papa Paolo VI
Come si pone - me lo chiedo avendo letto su una fra le più serie, più specialistiche riviste italiane di diritto del lavoro un articolo sulla Caritas in veritate - la dottrina sociale cattolica di fronte alla “crisi” economica mondiale che stiamo vivendo, dopo che già papa Paolo VI, nella Populorum progressio, aveva compreso chiaramente “come la questione sociale fosse diventata mondiale” (Caritas, n. 13)?
Sostenendo innanzi tutto, a proposito del problema del bene e del male (e di qui è il caso di domandarsi perché per la Chiesa Romana ma appunto mondiale l’economia sia importante, proprio al di là del fatto che lo sia per tutti), che “all’elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato (e … se non è il peccato originale allora il concetto è chiaro), si è aggiunto ormai da molto tempo quello dell’economia” (ivi, n. 34); o affermando che la legge della produzione per la produzione, ovvero del profitto fine a sé stesso, noncurante verso chi ne venga a soffrire - sino all’inedia, sino alla morte o sino all’omicidio -, danneggia la ricchezza stessa, intesa come “bene comune” o grandezza globale. Che cioè per il medesimo principio l’eccessiva produzione di ricchezza a vantaggio di taluni così induce fenomeni di spreco ed elide la ricchezza stessa, come causa nuova povertà e accresce il divario fra ricchi e poveri; ma provocando per la nostra sensibilità attuale danni a livello mondiale, al di là del concetto stesso di classe sociale; non potendo più per una nuova coscienza il giudizio essere contenuto entro confini predefiniti per essere divenuta la Terra nella sua totalità e la sua condizione generale come risultato, strumento valutativo della natura delle cose. Che dunque qualsiasi trend di sviluppo e qualsiasi scelta politica in economia - e di qui l’esortazione ai politici e l’auspicio di un’autorità mondiale che se ne occupi - incide necessariamente sulla morale, che non è più la semplice morale separata, e la cosa ha assunto una drammaticità tale per cui è imperativo ora civilizzare l’economia dando un’etica ad essa e leggendola molto in chiave di rapporti di lavoro.

Il pudore della pena






L'epoca dei Lumières, nel maturare dei suoi effetti, segna il tramonto delle pene afflittive e meglio: lo spiega. 
Il corpo cessa di essere l'oggetto principale dell'esecuzione penale la quale è sottratta alla condizione di pubblico spettacolo: la pena - scrive Foucault - "lascia il campo della [di una - per noi oggi; ma allora? - orribile, terrificante] percezione quotidiana, per entrare in quello [più mite, più ... umano] della coscienza astratta". Ora, se questo è vero, allora bisognerà spiegarsi il senso di un'"astrazione". 
Il mutamento racchiude in sé motivazioni "politiche": già nel cinquecento, come lamentato dal noto criminalista de Damhoudère (il quale in questo veniva ad anticipare il Beccaria), i pubblici supplizi non fornivano una buona immagine della giustizia penale, la quale in nome della sovranità commetteva nei rituali dell'esecuzione crimini più atroci di quelli che puniva. 
Culturalmente, v'erano allora le premesse per l'abbattimento di qualcosa di primigenio della giustizia penale (: “non di rado la punizione dà agli esecutori l'opportunità di commettere a loro volta, sotto il manto giustificativo dell'espiazione, la stessa azione sacrilega": Freud, Totem e tabù); ma è proprio qui il punto... 
La distruttività punitiva insomma - ancora troppo vicina all'antichità, anch’essa per noi “inumana” ma allora “giuridica”, mettiamo, della crucifixio o della ossis fractio, o del culleus (il sacco, o analogo contenitore, nel quale era cucito il corpo del reo ancora in vita) dei parricidi - non valeva a "educare".  
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Cesare Beccaria

martedì 21 maggio 2013

Stato di angeli, ... ...



La morale è interiorità, il diritto esteriorità. Attorno a questa chiara distinzione - ma guai a farne una questione di gerarchia (!) - ruota, più di quanto forse non risulti subito evidente, l’intero costrutto della filosofia politica kantiana - e non solo kantiana. 
Forse che Kant si sia limitato a enunciare principi insiti nelle opere dei pensatori che lo avevano preceduto, pur distanti da lui nella opinione corrente in quanto a sensibilità intellettuale (ad esempio Machiavelli)? O forse che in ciò egli abbia anticipato motivi di fondo presenti poi, in modo più manifesto, nei filosofi che sarebbero venuti dopo di lui (ad esempio subito Hegel, più forse con l'idea dello Stato bene organizzato che con il concetto di “eticità”: Sittlikheit, esposto nei Grundlinien)? Certo è che le sue posizioni risultano perfettamente allineabili con l'illuminismo. 
Comunque sia, ciò è quanto si può ritenere qualora si ammetta che “morale” è tanto sinonimo di “perfezione” (l'assoluto individuale) quanto oggetto di attenzioni scientifiche, anche in relazione ai suoi possibili risvolti negativi. Ed è qui che si ha il senso di una crescita civile, legata al governo delle leggi. 
Prendiamo in considerazione, per spiegarci, l’immagine dello Stato di angeli, alla quale si fa cenno nello scritto del nostro Autore sulla Pace perpetua
La forma repubblicana (“la sola che si adatti perfettamente al diritto degli uomini, ma anche la più difficile a costituirsi e anche più a conservarsi”), secondo il filosofo tedesco, è la migliore organizzazione per lo Stato